Lo schermo televisivo è come una “lente d’ingrandimento”, che ingrandisce l’oggetto
messo a fuoco. Accanto ad episodi clamorosi per la loro negatività, che è giusto denunciare,
sarebbe opportuno riportare anche episodi positivi.
Inoltre si rischia anche di credere erroneamente, che il bullismo è solo quello che
appare.
In realtà sia a scuola, sia nei quartieri, dietro l’apparente facciata di perbenismo si
consumano forme di prevaricazione subdole ed indirette, con conseguenze altrettanto
drammatiche. E’ il caso del sedicenne Matteo, che nel mese di aprile del 2007 si è gettato
dalla finestra della sua abitazione, perché stanco di essere etichettato ingiustamente come
ragazzo “gay”. Gli insegnanti non si erano accorti di nulla;il ragazzo non avevano mai dato
1
problemi, riportando anche ottimi risultati nello studio.
Si dimentica che quello che riporta la cronaca, è solo l’apice di una forma di
devianza che si consolida nella quotidianità; che viene alimentata sia da quelle figure adulte
che dovrebbero contrastarla, sia dal gruppo dei pari che non essendo educato alla cultura del
rispetto e della solidarietà (propria di qualsiasi società democratica), sostiene e rafforza certi
comportamenti. E allora chi è colpevole?
Un colpevole non esiste, esiste una molteplicità di fattori, una concatenazione di cause
che influiscono a vicenda sulla genesi del comportamento prepotente.
L’obiettivo di questa tesi, è quello di esaminare nel corso dei capitoli le
problematiche all’origine del fenomeno del bullismo; mettendo in risalto l’implicazione
sociologica del problema. Il bullismo non è un fenomeno circoscritto soltanto ai due
principali attori: il bullo e la vittima, il bullismo è un fenomeno sociale.
Tre sono i nodi centrali del presente lavoro. Il primo riguarda la relazione
significativa tra i cambiamenti avvenuti nella società postmoderna e la crescita significativa
del fenomeno del bullismo.
Il secondo la ricerca esplorativa, condotta su un campione di 23 soggetti, della classe
III B, della scuola media “S. Quasimodo” di Agrigento.
Infine il terzo punto importante riguarda il ruolo dei servizi sociali, nella qualità di
punto di raccordo tra i servizi territoriali e l’utenza. Tuttavia rimangono ancora dei punti da
discutere, sulla funzione dell’assistente sociale per la lotta al fenomeno.
CAP I. Il primo capitolo, dopo una preliminare spiegazione del concetto di aggressività,
prende in esame le principali teorie sulle cause del comportamento aggressivo. Infine nel
capitolo si esamina sommariamente il quadro della delinquenza minorile italiana, cercando di
1
Ponte M., “Sei gay”, studente si uccide. Ed è polemica, La Repubblica, 6 aprile 2007.
7
spiegare come il normale disagio evolutivo legato alla crescita del ragazzo, diventi un
disagio anomalo, fonte di comportamenti devianti.
CAP II. Il secondo capitolo riporta le principali definizioni tecniche del fenomeno del
bullismo, esaminandone le caratteristiche e la struttura, oltre alle modalità con cui si
manifesta. Vengono prese in considerazione alcune delle cause del problema: tratti di
personalità di bulli e vittime, gli stili educativi adoperati dalle famiglie, il ruolo del gruppo
dei pari e della scuola.Infine l’ultimo paragrafo spiega in linea generale la nuova forma che
ha assunto il fenomeno: il bullismo digitale.
CAP III. Il terzo capitolo comprende la spiegazione dettagliata di tutte le strategie di
intervento impiegate inizialmente all’estero, sulla base di un approccio ecologico-sistemico
che prende in considerazione tutte le parti della comunità scolastica.
CAP IV. Il quarto capitolo, dopo una panoramica sulla ricerca nazionale condotta da Ada
Fonzi in otto regioni italiane, riporta l’esperienza di alcuni progetti e tecniche messi in atto
in Italia. Inoltre analizza alcuni dei correlati psicologici alla base del comportamento
prepotente.
CAP V. Il quinto capitolo parla dei fattori di rischio della società postmoderna, analizzando
i cambiamenti avvenuti nelle principali agenzie di socializzazione (famiglia, scuola, gruppo dei
pari e mass-media). Si pone l’accento sul livello di consapevolezza del fenomeno e sulla
crescente diffusione.
CAP VI. Il sesto capitolo spiega in linea generale, quali siano le vie legali percorribili per
chi subisce prepotenze. Vengono presentate inoltre le linee guida della direttiva ministeriale
n.16/2007, emanata dal ministro della Pubblica Istruzione Giuseppe Fioroni.
CAP VII. Nel settimo capitolo sono riportate le testimonianze, relative all’esperienza svolta
durante il tirocinio formativo, presso l’A.U.S.L n.1 di Agrigento, in collaborazione con il
Gruppo “Prevenire il Disagio”.
CAP VIII. Infine l’ottavo capitolo riporta i risultati della ricerca esplorativa condotta, presso
la III B della scuola media di “Monserrato”, allo scopo di capire quanto sia diffuso il
fenomeno in quella classe, ed il relativo livello di consapevolezza.
Per Durkheim “l’educazione è l’azione esercitata dalle generazioni adulte su quelle
che non sono ancora mature per la vita sociale. Essa ha lo scopo di suscitare e sviluppare
nel bambino un certo numero di stati fisici, intellettuali e morali che richiedono da lui sia
la società politica nel suo insieme che il settore particolare al quale egli è destinato”
(Durkheim, 1979).
8
Seguendo il pensiero del sociologo francese, in ognuno di noi esistono due essere
complementari e distinti: l’uno è l’essere individuale, costituito dagli stati mentali della nostra
vita personale. L’altro comprende le idee, i sentimenti, le abitudini, le credenze che non
esprimono le nostra personalità, ma il contesto sociale a cui apparteniamo. Il loro insieme
forma l’essere sociale; fine ultimo dell’educazione è proprio costruire questo essere sociale
in ognuno di noi.
Oggi più che mai predomina l’essere individuale a scapito di quello sociale. La
migliore strategia contro il comportamento prepotente è di cercare di costruire una società
improntata alla democrazia, al rispetto per i diritti dell’altro, alla comprensione verso chi è
più bisognoso di tutela; una società improntata ai principi dell’etica e della legalità.
La sfida della famiglia e della scuola, deve essere quella di saper contrastare il
comportamento prepotente, anche senza il supporto di adeguati progetti. Ciò è possibile solo
se si educano i ragazzi con l’esempio.
9
Capitolo I
Gli studi sull’ aggressività
1.1 Cosa si intende per aggressività
Quando si usa la parola “aggressività”, il senso comune porta a considerare soltanto
l’accezione negativa del termine, risalendo all’etimologia invece è riscontrabile il suo doppio
significato.
Aggressività deriva dal latino “adgredior”, composto da ad e da gradior.
Gradior significa andare, procedere, avanzare, camminare, aggredire; la preposizione ad
significa verso, contro, ecc.
Adgredior indica quindi l’azione di avvicinarsi a qualcuno o qualcosa con intenzioni
che possono essere alternativamente benigne o ostili (Marini, Mameli,2004,55).
Di per sé quindi l’aggressività non è né positiva, né negativa, ma assolve ad una duplice
funzione: può spingere l’individuo ad arricchirsi, a superare i propri limiti o a difendersi, in
questo caso l’aggressività è fondamentale per la costruzione dell’identità e della sicurezza
interiore, infatti nei primi anni di vita il senso profondo di sicurezza, forza e integrità, si
costruisce nel saper chiedere e prendere ciò di cui abbiamo bisogno. Ma la nostra cultura
male accetta l’aggressività; fin da piccoli impariamo a reprimerla, ad inibirla; ma l’ inibizione
dell’aggressività porta alla rabbia, e la sua repressione più pericolosa dell’ aggressività
2
spinge al rancore, alla chiusura del carattere e spesso alla violenza. L’aggressività potrà
avere una valenza positiva solo nel momento in cui sarà incanalata in maniera costruttiva
nella relazione, come mezzo per far fronte agli impedimenti; quando invece la rabbia viene
trattenuta e accumulata, esploderà in un contesto diverso da ciò che ne ha dato origine o
verso la persona che non è all’origine della frustrazione, in questo caso la carica distruttiva
che ne deriva non è finalizzata a costruire qualcosa.
Non è un caso che molte volte i bulli presentino alle spalle situazioni di famiglie
multiproblematiche, in cui l’essere costretti a subire abusi fisici o psicologici, mina
profondamente lo sviluppo della personalità, cosicché il bambino una volta entrato a scuola
designerà una vittima come capro espiatorio su cui indirizzare la propria aggressività.
2
Marini F., Mameli C., Bullismo e adolescenza, Carocci, Roma, 2004, 56.
10
La teoria dell’ aggressività come risposta alla frustrazione è sostenuta anche da Dollard e
3
coll., secondo la quale ogni atto è compiuto al fine di raggiungere un obiettivo, ma il
verificarsi di situazioni che impediscono il suo conseguimento determina una frustrazione
che mette in atto una risposta ben precisa: l’ aggressione (Civita, 2006,12).
1.2 La prospettiva psicanalitica
Nel suo saggio Il disagio della civiltà, del 1929 Freud attribuisce lo sviluppo dell’
aggressività alla forza che il Super-io esercita sull’individuo, l’aggressività può essere diretta
contro l’organismo stesso, in una pulsione autodistruttiva, oppure può rivolgersi verso
l’esterno, nella distruzione della realtà fisica e sociale (Marini, Mameli, 2004, 55).
Per Freud nell’ individuo preverrà l’Eros, la pulsione della vita se fin da bambino avrà
un buon rapporto con l’esterno, se invece dalla vita riceverà soltanto delusioni e frustrazioni,
il Thanatos, la pulsione di morte sarà predominate inducendo l’ individuo a sviluppare un
atteggiamento di aggressione distruttiva. Questa minaccia latente per Freud deve essere
repressa attraverso l’ educazione e le sanzioni (Civita, 2006, 12).
Sulla scia di Ferud, Melanie Klein ha dato il suo contributo originale, analizzando in
maniera separata, specifica il ruolo della pulsione di morte, dotata di una spinta autonoma.
La Klein, attraverso l’osservazione analitica del gioco infantile, ha rilevato la
manifestazione di impulsi e fantasie sadiche e distruttive, fin dalla nascita infatti l’Io è
esposto all’angoscia che gli deriva dall’ innata polarità degli istinti di vita e di morte, in
parte proiettandola e in parte convertendola in aggressività.
Nel suo scritto Tendenze criminali nei bambini normali, (1927), Melanie Klein mette
in luce l’analogia tra alcune fantasie infantili nei primi stadi dello sviluppo e la
consumazione di atroci delitti, da parte di alcuni criminali nell’età adulta.
Il Super-io opera fin dal secondo anno di vita, a quest’ età il bambino è già passato
attraverso le fissazioni orali, inoltre si sono già manifestate gran parte delle fissazioni
sadico-anali, è in questo periodo che il complesso edipico assume una parte decisiva nello
sviluppo globale della personalità, sia relativamente al consolidamento di atteggiamenti
nevrotici, sia per quanto riguarda uno sviluppo normale.
3
Il modello teorico di Dollard, è una delle spiegazioni psicologiche del conflitto etnico. L’ individuo che non
riesce ad appagare i propri desideri a causa di un’ interferenza esterna che non riesce a rimuovere, concentra
la propria ostilità verso obiettivi sostitutivi. Un tipico esempio è quello degli italiani che accusano gli
immigrati di appropriarsi di lavori destinati alla popolazione locale, quando la responsabilità della
disoccupazione è da attribuire al mercato del lavoro, alle politiche occupazionali e alle variazioni economiche.
11
“Le pulsioni connesse allo stadio sadico-anale si connettono alle tendenze edipiche e si
orientano sugli oggetti sui quali si incentra lo sviluppo del complesso edipico: i genitori”. In
questo periodo il bambino in seguito all’odio provato nei confronti del genitore rivale (il
padre per il maschietto e la madre per la femminuccia), temendo di subire le conseguenze
della propria aggressività, viene pervaso da un senso di colpa e di angoscia tale da indurlo
ad allontanarsi dal genitore desiderato, per difendersi dalle pressioni esercitate dal Super-io
“il bambino si aggrapperà alle sue tendenze omosessuali, sviluppando quello che viene
chiamato senso edipico “negativo” (Klein, 1996, 65).
L’Io debole del bambino, riesce a sfuggire al conflitto intollerabile derivante dall’odio e
contemporaneamente dall’ amore provato dai genitori, soltanto rimuovendo nell’inconscio le
proprie fantasie.
Queste fantasie hanno un legame diretto con la sessualità del bambino, “quando il
bambino attraversa le fasi sadico-orale e sadico-anale il rapporto sessuale significa per lui
un atto nel quale entrano principalmente il mangiare, il cucinare, lo scambio di feci e
ogni sorta di azioni sadiche. Il nesso tra queste fantasie e la sessualità è destinato ad avere
effetti importanti nel corso ulteriore della vita”.
In questo filo conduttore troviamo il fondamento di tutte le perversioni che hanno
origine nel primo sviluppo infantile; le forti rimozioni non fanno altro che rendere il
conflitto stabile tra sentimenti di odio e sensi di colpa, in un processo circolare che porterà
il bambino a compiere le stesse azioni entro determinati archi temporali.
Lo stesso circolo vizioso si ritrova nel criminale che continua a delinquere.
La Klein sfatando il luogo comune secondo cui il comportamento criminale di
alcuni individui è causato da un Super-io debole o assente, attraverso le analisi condotte
nei primi anni di vita sia su bambini con tendenze nevrotiche, sia con bambini normali,
riesce a trovare riscontro in un Super-io estremamente rigido; attraverso il meccanismo della
proiezione, inizialmente il bambino progetta fantasie e impulsi sui genitori, creandosi un’
immagine distorta e minacciosa delle persone che lo circondano, in seguito opera il
meccanismo dell’ introiezione, che fa sì che egli si senta minacciato da genitori pericolosi
e crudeli, il Super-io che ha dentro di sé (Klein,1996 ,92).
Ogni persona nel corso dello sviluppo, tende nel passaggio da uno stadio all’altro di
4
sostituire i meccanismi di difesa primitivi con i meccanismi di difesa secondari, che
4
Uno dei meccanismi di difesa più evoluti è rappresentato dalla sublimazione, l’ esempio classico è quello del
chirurgo, che nell’ affondare le mani nel sangue e nell’ uso del bisturi, riesce a canalizzare la carica
aggressiva impiegandola in attività costruttiva e socialmente utile.
In criminali come Jack lo Squartatrore si evidenziano le stesse tendenze, indirizzate però verso la distruzione
dell’ oggetto.
12
consentiranno all’ individuo di far fronte all’ angoscia che gli deriva dalle sue tendenze
distruttive, adattandosi alla realtà con il sostegno dei genitori; laddove invece l’individuo
conserverà i meccanismi di difesa arcaici, sarà schiacciato dalla paura che gli deriva dal
Super-io, e perseguiterà perché egli stesso si sente perseguitato, mettendo in atto condotte
5
criminali.
Redl e Wieneman, attribuiscono l’aggressività dei bambini che odiano, all’ incapacità
del loro Io di far fronte ai compiti quotidiani, non sono in grado di gestire la paura,
l’angoscia, l’insicurezza senza dover ricorrere a forme di aggressione, paradossalmente la
loro aggressività trova alimento nel senso di colpa provocato dalla loro stessa condotta
aggressiva (Redl, Wieneman, 1996, 31).
I fallimenti per questi bambini, sono il risultato di un complotto studiato ai loro
danni dalle persone che li circondano, al quale si sentono costretti a rispondere con l’odio,
di riflesso non riescono a gestire in modo adeguato neanche i successi, che scatenano in
loro deliri di onnipotenza.
I soggetti che fin da piccoli manifestano condotte devianti, non hanno sviluppato un
adeguato controllo degli impulsi, i bambini di cui parlano i due psichiatri sono dotati di
una spiccata intelligenza e forza d’animo, il problema sta nel fatto che queste qualità
anziché essere impiegate per frenare l’aggressività, vengono utilizzate per l’immediata
soddisfazione dei propri impulsi, per cui innescano una lotta su più fronti.
Prima di tutto questi minori che delinquono lottano contro la propria coscienza
morale, riuscendo a trovare delle argomentazioni per ingannare loro stessi e gli altri
relativamente alle loro cattive intenzioni, in secondo luogo ricercano sostegni alla loro
condotta delinquenziale, nella scelta delle compagnie e dando la colpa ad una sorta di forza
che sarebbe dentro di loro ma che non riescono a fermare, infine si difendono con
determinazione da ogni prospettiva di cambiamento, poiché tradire la loro natura
equivarrebbe a passare dalla parte del nemico, equivarrebbe a morire socialmente, poiché
diverrebbero oggetto di ostracismo e di disapprovazione da parte del gruppo di appartenenza.
In contrapposizione alla corrente freudiana, Amonn (1970) definisce l’aggressività
come una forza che spinge l’Io a realizzare se stessi e a dominare il mondo.
“Fromm (1970), opera una distinzione tra aggressività benigna e aggressività maligna.
La prima ha una funzione adattiva e difensiva, la seconda invece è un’aggressività
5
Con questa tesi la Klein spiega, come sia possibile che nei bambini siano presenti tendenze criminali, ciò
scandalizzò in un certo senso l’ opinione pubblica di allora, già Freud aveva ribaltato l’immagine idilliaca del
bambino. Il discorso della Klein pur costituendo un punto di partenza per la comprensione di certi
comportamenti devianti, andrebbe rivalutato alla luce dell’ evoluzione della società post-moderna, e delle nuove
scoperte pedagogiche.
13
sostanzialmente disadattiva che ha come obiettivo la distruzione. Mentre l’ aggressività
benigna ha origini biologiche, quella maligna ha la sua radice nella struttura caratteriale
dell’ individuo e costituisce una delle possibili risposte alle esigenze esistenziali fondamentali
dell’ uomo quando le condizioni culturali risultano essere sfavorevoli allo sviluppo di
risposte positive” (Marini, Mameli, 2004, 58).
L’atteggiamento del bullo è mosso dall’ “aggressività maligna”, nella sua ricerca
ossessiva di una vittima destinata a subire le sue angherie.
Le definizioni date dagli autori menzionati, offrono un quadro articolato del
significato connesso al termine aggressività, tuttavia gli autori che seguono il pensiero
freudiano (Melanine Klein, Fritz Redl e David Wineman) seppur con qualche sfumatura
diversa, non si limitano, soltanto a definire la nozione di aggressività, ma spiegano che
cos’ è analizzandone a fondo i meccanismi che conducono ad atti devianti, ed il perché si
formano.
Di conseguenza ciò permette di studiare metodi di intervento più efficaci, anche se la
psicoanalisi va sempre affiancata ad altre discipline quali la psicologia di gruppo e la
psicologia sociale, per non rischiare di assumere una visione deterministica dell’ aggressività,
attribuendola soltanto a disfunzioni caratteriali proprie dell’ individuo o al rapporto che l’
individuo ha instaurato con i genitori fin dai primi anni vita.
1.3 Le due facce dell’ aggressività: adattamento e disadattamento.
La nozione di “adattamento” è presente in varie discipline, non rimanda ad una
definizione univoca, ma può assumere diverse sfumature.
Ad ogni modo, la nozione di adattamento, sia nel linguaggio comune, sia in
psicologia, assume una duplice focalizzazione, rimanda sia al rapporto che l’individuo assume
nei confronti del mondo esterno, sia all’ equilibrio interiore che il soggetto è in grado di
raggiungere riuscendo ad assolvere ai bisogni della vita quotidiana, rispondendo alle
richieste dell’ ambiente esterno (Emiliani, 2005, 90).
Il potenziale adattivo dell’ aggressività, si divide in due funzioni: quella difensiva e
quella adattiva. L’aggressività difensiva ha lo scopo di salvaguardare l’ identità dell’
individuo, proteggendone i confini, l’aggressività adattiva invece, induce l’individuo ad
esplorare i confini a lui esterni, adattandosi alle circostanze dell’ambiente (Bonino, Soglione,
1976, citato da Marini, Mameli, 2004).
14
I genitori costituiscono per il bambino, nei primi stadi dello sviluppo, una base
solida su cui trovare rifugio e protezione, ma nello stesso tempo il bambino ha bisogno di
muovere i primi verso l’ ambiente esterno, distaccandosi in maniera naturale e autonoma dal
contatto familiare; ogni volta che apprenderà qualcosa di nuovo della realtà che lo circonda,
il suo ritorno alla dipendenza dai genitori avverrà secondo archi di tempo progressivamente
più lunghi. Ma se in questa fase il bambino verrà inibito attraverso un controllo serrato
delle sue esperienze, o se peggio ne verrà totalmente ostacolato, ciò darà origine ad una
6
situazione conflittuale che trasformerà l’aggressività sana in aggressività distruttiva.
Il bambino che non avrà percorso le tappe principali per una crescita armoniosa, si
sentirà sempre più dipendente dalla famiglia di origine, nell’ età adulta difficilmente riuscirà
a raggiungere una maturità del carattere completa.
Questo succede in particolar modo nelle famiglie definite in psicologia clinica
“invischiate”, dove i confini sono diffusi, i problemi di un singolo membro diventano i
problemi di tutti e il livello di coesione tra i membri è altissimo, qui i genitori si
7
presentano estremamente iperprotettivi..
Secondo Blos l’ adolescente riesce ad adattarsi ai compiti che l’Io gli impone,
attraverso il meccanismo della regressione, “l’Io progredito dal periodo successivo alla
latenza è indotto a sopportare, attraverso la regressione, i conflitti infantili, l’ ansia e la colpa
che l’Io debole e limitato dei primi anni non riusciva a risolvere, neutralizzare, o rendere
meno dannose. Questi compiti sono diventati impegno dell’ Io dell’adolescente. Possiamo
infatti dire che soltanto un Io che si sia misurato con tali compiti ha le qualità di quello
che definiamo un Io adolescente e che pertanto la regressione non è di natura difensiva ma
esercita una funzione adattiva” (Marini, Mameli, 2004, 63).
L’adolescente è tenuto ad affrontare le sfide che l’emancipazione dalla famiglia
comporta, riuscendo a far fronte ai propri impulsi e organizzando gli stimoli provenienti dall’
esterno, in questo percorso laddove la figura dell’ adulto invaderà lo spazio del soggetto
condizionandone lo sviluppo, laddove l’ aggressività espansiva sarà inibita, l’ adolescente
tenderà di risolvere il conflitto tra le sue esigenze da adulto e i suoi bisogni infantili,
entrando a far parte del gruppo dei pari.
6
Cfr. cap. 4. E’ il caso del cosiddetto bullo- vittima che assume un comportamento prepotente, per ottenere la
benevolenza del bullo attivo, solo per sopperire alla sua fragilità, derivatagli magari da uno stile educativo
eccessivamente punitivo o troppo permissivo.
7
Cfr. cap. 2 . Questo è lo stile educativo che in genere adottano le famiglie delle vittime di bullismo.
15
“L’aggressività distruttiva in adolescenza trova riscontro nel gruppo dei pari, che svolge
la funzione di contenitore dell’ angoscia e della rabbia del soggetto.”(Marini, Mameli,
2004,66).
Per questi motivi per affermare la sua autonomia, per confermare il suo status
sociale di adulto, e farsi accettare dal gruppo, l’ adolescente corre il rischio di entrare a far
parte delle cosiddette “baby-gang”, che altro non sono se non il concretizzarsi della
mancanza di dialogo, tra il mondo degli adulti e quello dei giovani, una rivincita verso
quella società che si disinteressa ai loro problemi, che si rifiuta di accettare le loro
8
esigenze, soprattutto quando l’ adolescente non può avere accesso ai gruppi normali.
In una società come quella attuale, caratterizzata dalla famiglia che delega il suo
compito alla scuola, che ha perso il suo ruolo prestigioso di depositaria della cultura, che è
rimasta inquadrata in un sistema eccessivamente nozionistico, che tra l’altro non prepara
adeguatamente al mondo del lavoro, con insegnanti che tendono a etichettare gli studenti
solo sulla base del loro rendimento scolastico, senza tenere conto della personalità globale
dello studente, il ruolo giocato dai mass media e dai new media, e soprattutto i coetanei
avranno maggiore presa sulla coscienza dell’individuo.
L’adolescente si trova solo e confuso, davanti alle sue aspirazioni e le sue tendenze
distruttive, senza riuscire ad amalgamare le due tendenze in modo adeguato, per investirle
nella realtà concreta.
Saremo allora di fronte ad una forma di “disadattamento sociale e di disorientamento
individuale” dell’ adolescente (Marini., Mameli, 2004, 66).
8
I ricercatori del COSPES, in una ricerca del 1995 sull’ impiego del tempo libero degli adolescenti, hanno
delineato varie profili di adolescenti:
gli organizzati: coloro che sanno strutturare il loro tempo con regolarità, sono quelli che praticano uno sport o
hanno un hobbie,
i dispersivi: coloro che prediligono il motorino, frequentano la discoteca, spendono facilmente i loro soldi,
curano molto l’ abbigliamento e il loro corpo seguendo la moda,
i solitari: preferiscono guardare i la TV, usare i videogiochi, non amano assumersi responsabilità, piuttosto
seguono le indicazioni degli altri,
gli impegnati: si dedicano al volontariato hanno l’ hobby della lettura, si interessano di politica e hanno fiducia
nel futuro,
i trasgressivi: adottano comportamenti anticonformisti, fanno uso di alcool e droghe, sono portati a soddisfare
esigenze di ordine fisico, sono impulsivi, appaiono insoddisfatti e di umore variabile.
16
1.4 Quando l’ aggressività sfocia nella devianza.
L’incapacità di gestire il conflitto, se non attraverso il ricorso alla forza, di sopportare
il sacrificio per periodi prolungati di tempo, di rimandare il soddisfacimento dei bisogni, è
alla base di quella Feshbach chiama aggressività “intenzionale” e strumentale, termine con
cui si vuole indicare un atto sociale volto a soddisfare il bisogno immediato (Caravita
2004,15 bis).
Secondo Calabrese, - commissario capo della sezione minori della Direzione centrale
della polizia criminale - il quadro della delinquenza minorile in Italia è diventato più
complesso; i dati più preoccupanti riguardano l’aumento dei minori stranieri deviati, indice
di una mancata integrazione degli immigrati alla società italiana, e l’ arruolamento dei minori
9
in organizzazioni criminali e mafiose, per la loro non imputabilità.
In particolar modo, nella regione Campania, la camorra utilizza molti dodicenni e tredicenni.
10
Anche in altre regioni del Sud, in Sicilia e in Calabria, tale fenomeno è di entità
grave, soprattutto paesi con un degrado socio- economico più marcato, in cui per i genitori
dei ragazzi difficili, la scuola è una perdita di tempo, poiché il lavoro in organizzazioni
criminali, come pure il lavoro in nero permette guadagni facili, l’abbandono scolastico
anticipato è strettamente correlato alla politica del mercato del lavoro fallimentare, che
rende difficili l’ingresso ai giovani.
Vi è una differenza di fondo tra i minori stranieri e quelli italiani, i primi compiono
maggiormente reati legati al patrimonio, quali furti, scippi, rapine, i secondi invece
compiono maggiormente atti contro la persona.
11
Anche il prof. Gaetano De Leo sottolinea questa differenza, mentre per i minori
stranieri il comportamento antisociale è il più delle volte motivato da situazioni di grande
deprivazione materiale, tra gli adolescenti italiani aumentano le aggressioni.
La violenza è diventata il messaggio dei giovani per dimostrare agli adulti che
esistono, per uscire da una condizione di “invisibilità perenne”, dietro molti reati, ci sono
spinte ad avere di più per compensare vuoti affettivi e morali.
9
AA .VV., (2000), “Speciale – Devianza Minorile”, in PoliziaModerna,, n.11, pp. 14 - 41.
10
Emblematico è il caso del sacerdote Don Pino Puglisi, assassinato a Brancaccio, in provincia di Palermo.
Il parroco si era adoperato nella costruzione di un centro sociale, grazie al quale aveva tolto molti bambini
dalla strada affinché non diventassero manovali della mafia.
11
Il prof. Gaetano De Leo, è esperto sulla devianza minorile. Docente di psicologia giuridica presso l’università
“La Sapienza” di Roma.
17
Il vandalismo è la tipica forma in cui l’adolescente nell’ attacco alle istituzioni,
esprime il bisogno di attenzione e di educazione, inducendo il mondo adulto a riflettere
(Mariani, 2005, 98).
Il cosiddetto “disagio adolescenziale” racchiude le difficoltà evolutive che l’adolescente
vive nei confronti di se stesso e delle varie realtà che entrano in rapporto con lui. Tale
rapporto di reciprocità mette in atto notevoli e reali difficoltà di relazione, riconoscimento e
comunicazione (Marini, Mameli, 2004, 33).
Le difficoltà che l’ adolescente incontra nel passaggio verso l’ età adulta, di per sé
non sono segno di patologia, dato che si trova spinto tra tendenze opposte; questa fase
della vita dovrebbe risolversi in maniera armoniosa grazie al supporto delle agenzie
educative.
Spesso il disagio è sommerso, al punto tale che l’ adolescente soffre in silenzio,
mascherandone i sintomi, fino a quando esplode commettendo gesti eclatanti.
Si verifica sovente, una somma di inadempienze, ritardi tradimenti nei confronti dei giovani
e il disagio soggettivo evolutivo amplificandosi sfocia in disagio sociale. (Marini, Mameli,
2004, 34).
18
Capitolo II
Il bullismo: punta d’iceberg di un disagio profondo
2.1 Che cos’è il bullismo. Definizione, fenomenologia, diffusione del fenomeno
La principale definizione di bullismo da cui derivano gli studi successivi sia in ambito
12
internazionale sia nel contesto italiano si deve data da Dan Olweus “Uno studente è
oggetto di azioni di bullismo, ovvero prevaricato o vittimizzato quando viene esposto
ripetutamente nel corso del tempo alle azioni offensive messe in atto da parte di uno o più
13
compagni”.
Il termine italiano bullismo è la traduzione letterale della parola inglese “bullying”, termine
inglese usato nella letteratura internazionale per connotare il fenomeno delle prepotenze fra
pari in un contesto di gruppo. Originariamente nei paesi del Nord Europa sono stati usati i
14
termini “mobbing” ( Norvegia e Danimarca) e “mobbning” (Svezia e Finlandia).
L’etimologia della parola inglese “mob” si riferisce ad un gruppo di persone
coinvolte in azioni di molestie. E’ usato anche per indicare una persona che critica, molesta,
o picchia un’altra.
Tradurre in italiano il termine “bullying” ha comportato delle difficoltà, poiché il
termine “to bully”, significa proprio usare prepotenza. In italiano non esiste un’ espressione
che traduca esattamente questo concetto, pertanto si è dovuto coniare un termine nuovo.
Nella nostra cultura la figura del bullo è interpretata come “sbruffone o spavaldo” (Carovita,
Ardino, 1998 citato da Civita, 2006, 32).
“In particolare il termine italiano prepotenze spesso usato per tradurre l’inglese
“bullying” ha un’area semantica costituita prevalentemente da episodi di tipo verbale e
psicologico, mentre risulta più limitato il peso delle forme fisiche che sono invece rilevanti
15
per il termine inglese”.
Heinemann, ad esempio, è stato uno dei primi nel 1972 ad utilizzare il termine
norvegese mobbning per riferirsi ad una violenza di gruppo esercitata contro un singolo,
prendendo a prestito il termine dalla letteratura etologica che lo utilizzava per definire un
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Dan Olweus è Professore di Psicologia all’ Università di Bergen, in Norevegia. E’ stato Fellow presso il
Center for Advanced Studies in the Behavioral Sciences di Stanford e ricopre attualmente la carica di
Presidente dell’Iternational Society for Research on Aggression. E’ la massima autorità a livello mondiale
relativamente agli studi in tema di aggressività e bullismo.
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Dan Olweus, Bullismo a scuola. Ragazzi oppressi, ragazzi che opprimono, Giunti, Firenze, 1996.
14
Menesini E., Bullismo che fare? Prevenzione e strategie d’ intervento nelle scuola, Giunti, Firenze, 2000, p. 24.
15
Menesini E., “Il bullismo a scuola”, In Rassegna bibliografica, n.4/2003, pp. 5-26.
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attacco collettivo da parte di un gruppo di animali verso un individuo di specie diversa.
(Menesini, 2003, 7).
Olweus nei suoi lavori pionieristici, risalenti agli anni ’70 ha utilizzato una
definizione più ampia, assumendo che il bullismo fosse riferibile sia al gruppo sia all’
individuo.
In queste prime definizioni l’enfasi veniva posta in particolare sulle modalità fisiche
e verbali, solo successivamente si è riconosciuta l’importanza delle modalità di
prevaricazione indirette o psicologiche.
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Successivamente Peter K. Smith, ha ampliato la definizione di Olweus ponendo
l’accento sull’intenzionalità del fenomeno “Un comportamento da bullo è un tipo di azione
che mira deliberatamente a far del male o danneggiare; spesso è persistente, talvolta dura
per settimane, mesi e persino anni ed è difficile difendersi per coloro che ne sono vittime.
Alla base della maggior parte dei comportamenti sopraffattori c’è un abuso di potere e un
desiderio di intimidire e dominare” (Smith, 1995, 11).
Infine la definizione di Menesini, “Diciamo che un ragazzo subisce delle prepotenze,
quando un altro ragazzo, o un gruppo di ragazzi gli dicono cose cattive e spiacevoli. E’
sempre prepotenza quando un ragazzo riceve colpi, pugni, calci e minacce, quando viene
rinchiuso in una stanza, riceve bigliettini con offese o parolacce, quando nessuno gli rivolge
mai la parola e altre cose di questo genere. Questi fatti capitano spesso e chi subisce non
riesce a difendersi. S i tratta sempre di prepotenze anche quando un ragazzo viene preso in
giro ripetutamente e con cattiveria. Non si tratta di prepotenze quando due ragazzi, all’
incirca della stessa forza fisica, litigano fra loro o fanno la lotta” (Menesini,2000).
Da queste definizioni si evincono le peculiarità distintive del fenomeno, che riguardano:
• l’intenzionalità: il bullo, mette in atto dei comportamenti provocatori e aggressivi con
l’intenzione esclusiva di danneggiare e offendere la vittima da lui designata,
• l’asimmetria: un disequilibrio di forze tra la vittima e il prevaricatore; non si parla,
infatti, di bullismo quando due individui della stessa forza (fisica e psicologica),
litigano o discutono; è necessario che ci sia un’ asimmetria nella relazione, che può
essere legata al carattere, all’ età, alla forza fisica o al genere (ad es. maschi contro
femmine). Lo studente vittimizzato sperimenta una sensazione di impotenza contro il
singolo o il gruppo che lo perseguita,
• la persistenza: un singolo episodio di prepotenza, non costituisce un atto di
bullismo, perché se ne possa parlare è necessario che l’azione perduri nel tempo.
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Peter K. Smith è professore di Psicologia al Dipartimento di Psicologia dell’ Università di Sheffield.
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