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tradizionale; in secondo luogo, vengono presentate le proposte ritrovate in
letteratura per prevenire e contrastare il bullismo attraverso le nuove
tecnologie. Infine, vi è un accento su due realtà italiane che stanno tentando la
via dell’utilizzo della tecnologia in maniera positiva.
Il quarto capitolo presenta la ricerca che è stata svolta, soffermandosi su
obiettivi ed ipotesi, metodo utilizzato ed analisi quantitative e qualitative
svolte.
Il quinto capitolo presenta i risultati di tale ricerca, che vuole innanzitutto
esplorare la realtà delle classi di terza media del comune di Padova per cercare
di capire se il fenomeno del bullismo elettronico esiste, eventualmente quali
sono le sue relazioni col bullismo tradizionale e cosa pensano del tema ragazzi
ed insegnanti. Per fare ciò, sono stati utilizzati due questionari, uno per gli
insegnanti ed uno per i ragazzi.
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CAPITOLO 1
IL BULLISMO TRADIZIONALE
1.1. Cosa è il bullismo.
“Uno studente è oggetto di azioni di bullismo, ovvero è prevaricato o
vittimizzato, quando viene esposto, ripetutamente nel corso del tempo, alle
azioni offensive messe in atto da parte di uno o più compagni con l’intenzione
di ferire” (Olweus, 1991; 1993; 1996, p. 12). Di solito, si presenta una
differenza di forza tra il bullo e la vittima, che può essere reale, così come solo
percepita (Craig, 1998). Sinteticamente, il bullismo può quindi essere
considerato “un abuso sistematico di potere” (Sharp e Smith, 1994).
In questa definizione, troviamo dunque, degli elementi centrali che è
necessario incontrare per poter parlare di bullismo e non di altre forme di
aggressione, lotta o rivalità: il fenomeno si presenta quando vi è un’asimmetria
di forza, si ripete nel tempo ed è intenzionale (Olweus,2001). Ma vediamo
meglio i diversi aspetti.
In primo luogo, la dimensione del potere: nel bullismo, vi è sempre un
disuguaglianza di forza o di potere, tale per cui la vittima non riesce, o sente di
non riuscire, a difendersi o a controbattere in maniera paritaria (Olweus,
1993). La maggiore forza del bullo può presentarsi in diversi modi, ad
esempio una maggior forza fisica, o abilità socio-cognitive maggiori, o una
maggior bravura nello scoprire dei punti deboli della vittima, quali possono
essere capacità intellettive minori, difetti fisici o vulnerabilità psicologica
(Gini, 2005). “In altre parole, il bullo agisce pubblicamente comportamenti
aggressivi nel tentativo di conquistare la leadership e la dominanza nel gruppo.
10
Per aumentare la probabilità di successo in queste manifestazioni pubbliche di
potere, il bullo sceglie come vittime i coetanei più deboli fisicamente o
psicologicamente” (Gini, 2005, p. 17). Non si potrà parlare di bullismo quindi,
in tutti quei casi di lotta o aggressione in cui però gli attori dell’azione siano in
una condizione di parità, ovvero nei casi in cui chi viene aggredito riesce a
difendersi e la forza sia uguale.
Una seconda caratteristica, come già accennato in precedenza, necessaria per
poter parlare di bullismo, è la persistenza nel tempo della prepotenza, cioè non
devono presentarsi episodi isolati, ma deve essere presente una ripetizione
continua del fenomeno. Questo è anche un elemento che fa sì che si crei un
clima di terrore quotidiano, in quanto “parte della paura e della sofferenza del
bambino vittimizzato deriva dal fatto di aspettarsi che le prepotenze nei suoi
confronti si ripeteranno” (Gini, 2005, p. 18).
Infine, vi è la discriminante dell’intenzionalità: alla base di un episodio di
bullismo infatti, c’è la volontà di creare un danno alla vittima e di riuscire ad
avere il controllo sugli altri (Gini, 2005). Da ciò, deriva che non può essere
considerato bullismo né una reazione ad un’aggressione né un danno
provocato da un incidente non voluto.
Quest’ultima caratteristica non è condivisa da tutti gli autori. Buccoliero e
Maggi (2005), sostengono che non è possibile attribuire al ragazzo le
intenzioni che un adulto può immaginare dall’esterno, infatti, spesso nella
pratica pedagogica quotidiana si osserva come tutto il dolore provocato alla
vittima non trova un’adeguata consapevolezza nell’aggressore: anzi, la realtà
educativa affronta ogni giorno il problema di “promuovere la consapevolezza
delle proprie azioni e la capacità di sentire empaticamente le emozioni
dell’altro” (Buccoliero e Maggi, 2005, p. 19).
11
1.2. Le diverse tipologie di bullismo.
I comportamenti che ricadono nella categoria del bullismo, vengono
classificati generalmente, a secondo della forma attraverso cui si esprimono, in
prepotenza fisica, prepotenza verbale e prepotenza psicologica (Menesini,
2003); oppure in prepotenze dirette e prepotenze indirette (Arora, 1996; Fonzi,
1997; Hazler, 1996). Le prepotenze dirette si suddividono in fisiche e verbali.
Le prepotenze dirette fisiche sono quelle in cui il bullo crea un danno alla
vittima in modo diretto, appunto, e facendole del male fisicamente cioè
picchiandola, strattonandola, colpendola, rompendole oggetti personali; le
prepotenze dirette verbali sono quelle in cui il bullo crea un danno alla vittima
sempre in modo diretto, ma questa volta non fisico e cioè insultandola,
mettendola in ridicolo, minacciandola. La tipologia di prepotenze dirette è
quella che maggiormente si ritrova nelle scuole elementari e medie, in
particolare quella verbale, mentre la prepotenza fisica generalmente tende a
diminuire col crescere dell’età dei ragazzi (Gini, 2005; Bjorkqvist et al.,
2000).
Le prepotenze dirette, essendo molto più visibili, sono state per anni il
principale oggetto di studio del fenomeno del bullismo e ancor oggi sembrano
essere la preoccupazione principale degli educatori proprio per la loro maggior
facilità di individuazione (Gini, 2005).
La seconda tipologia di prepotenze, sebbene meno riconoscibile, è allo stesso
modo pericolosa per chi la subisce. Le prepotenze indirette, infatti, sono quelle
strategie di aggressione che si basano sul controllo sociale (ad esempio,
indurre altri ad attaccare la vittima, isolarla dal gruppo) o sulla svalutazione
della vittima in quanto persona, diminuendone l’autostima e assottigliando le
sue relazioni di amicizia (ad esempio, mettendo in giro maldicenze sul suo
12
conto). Per tutto ciò, possono essere anche chiamate prepotenze relazionali o
psicologiche (Gini, 2005; Espelage e Swearer, 2003; Crick et al., 2001).
Archer (2001) precisa che i termini relazionali e indirette non sono
propriamente dei sinonimi, nonostante il loro significato sia parzialmente
sovrapposto in considerazione del fatto che le prepotenze relazionali cercano
di minare l’idea che la persona ha di sé stessa, le sue amicizie e le sue
relazioni sociali, queste utilizzano più frequentemente una modalità indiretta,
come può essere l’esclusione, anche se vi sono comportamenti diretti di
natura relazionale, come una minaccia di cessazione dell’amicizia se non
vengono fatte alcune cose dalla vittima.
Nonostante questa differenziazione, spesso i tipi di prepotenza sono
contemporanei e non sempre riconducibili ad un’unica categoria (Raskauskas
e Stoltz, 2007).
Gini (2005) classifica le diverse tipologie di aggressione in base a due
dimensioni: la modalità di attacco e il target di attacco. La modalità di attacco
è il modo in cui il bullo aggredisce la vittima: possono essere attuate strategie
di attacco diretto, come il picchiare, o strategie non dirette, ma sempre volte a
provocare danno, come il danneggiare oggetti personali o diffondere
maldicenze. Il target dell’attacco è, invece, l’obiettivo verso cui l’attacco è
rivolto; può essere fisico, cioè la vittima stessa o i suoi oggetti, oppure
rappresentato da variabili di tipo psicologico o dalle relazioni sociali, cioè, ad
esempio, esclusione, riduzione dell’autostima.
La scuola primaria è molto più interessata da fenomeni di bullismo diretto, che
man mano decresce per lasciare il campo a quello relazionale (Woods e
Wolke, 2004). Una spiegazione di ciò può essere la mancanza nei bambini più
piccoli di capacità verbali e sociali sviluppate, che fanno avvenire le
13
aggressioni in maniera fisica; con l’acquisizione di queste capacità, i ragazzi
dimostrano metodi di aggressione più sofisticati (Bjorkqvist, 1994).
1.3. I modelli teorici.
In letteratura si ritrovano due modelli che cercano di spiegare il
comportamento del bullo, e che hanno poi aperto un dibattito tra gli studiosi
sull’argomento: il modello del deficit socio-cognitivo ed il modello dell’abile
manipolatore sociale.
1.3.1. Il modello del deficit cognitivo.
Il primo, il modello di Dodge (1980) è quello del deficit socio-cognitivo
(Social Skills Deficit Model). Questo modello considera l’elaborazione
dell’informazione sociale come un processo a sei stadi (codifica dello stimolo
sociale, interpretazione dello stesso, scelta degli obiettivi, generazione e scelta
della risposta e sua esecuzione). Secondo tale modello, gli individui aggressivi
avrebbero un deficit nella qualità della codifica dell’informazione, cioè, più
spesso degli individui non aggressivi, tenderebbero ad attribuire ostilità ad
eventi ambigui, soprattutto quando tale stimolo ambiguo è rivolto al soggetto.
A questo punto sembrerebbe che i bambini aggressivi hanno una visione del
mondo come ostile, e proprio in base all’aspettativa di un comportamento
ostile da parte degli altri, hanno un comportamento aggressivo, come reazione
all’ostilità esterna. Dodge, però, inizialmente si è occupato di bambini
aggressivi e non di bambini prepotenti. Il suo modello è stato applicato dopo al
fenomeno del bullismo; Slee (1993) ad esempio ha trovato una forte tendenza
nei bulli a sovrastimare il peso dei fattori situazionali nel comportamento
14
prepotente, e a sottostimare quello dei fattori individuali. Slee ipotizza che ciò
può essere dovuto o alla loro esperienza diretta che li rende più consapevoli
delle spinte situazionali ad agire, o a una giustificazione utilitaristica nelle
risposte per evitare una responsabilità personale.
Rispetto alle altre fasi del processo di elaborazione dell’informazione sociale,
non sono state trovate differenze significative con i bambini non aggressivi,
anche se sembrerebbe che in una situazione sociale problematica i bulli
avrebbero, confrontati con gli altri bambini, una gamma di risposte sociali
adeguate più limitata, soprattutto quando si trovano dinanzi ad un conflitto
interpersonale (Slee, 1993).
1.3.2. Il modello dell’abile manipolatore sociale.
Al polo opposto, si trova il modello dell’abile manipolatore sociale, che
sostiene una visione del bullo non più come un individuo con molta forza e
con poche capacità cognitive, ma piuttosto come un individuo socialmente
competente, ed anzi addirittura un manipolatore sociale, appunto (Sutton et al.,
1999a). I bulli sarebbero quindi capaci di interpretare il mondo circostante in
modo adeguato, di utilizzare le loro capacità al fine di ottenere vantaggi, e, al
contrario della teoria precedente, vengono visti come individui con una buona
teoria della mente
1
. Questa teoria ritiene infatti che il ruolo del bullo è un
ruolo sociale particolarmente rilevante, in cui è necessaria un’abilità
particolare di manipolazione psicologica delle vittime e di tutti gli altri
osservatori e che quindi non si possa sostenere che il bullo ha delle carenze
nelle abilità socio-cognitive: in una situazione di bullismo, “comprendere gli
stati mentali delle persone coinvolte, insieme con la capacità di manipolare i
1
La teoria della mente definisce le conoscenze e la consapevolezza che un individuo possiede
relativamente agli stati psicologici propri e altrui (Fava Vizziello, 2003).
15
loro pensieri e le loro credenze, può essere cruciale per il bullo per sviluppare
e mantenere questo tipo di relazioni” (Sutton et al., 1999b, p. 437).
1.3.3. Il dibattito tra i due modelli.
La risposta di Crick e Dodge (1999) in sostegno del modello del deficit
dell’elaborazione dell’informazione sociale prospetta la possibilità che a
qualche livello ci possa essere anche nei bambini aggressivi una buona
elaborazione dell’informazione, ma che allora sarebbero deficitari in qualche
altro aspetto della cognizione sociale (ad esempio, la valutazione degli esiti);
infatti, gli autori non concepiscono l’idea che una buona teoria della mente si
concretizzi poi in un comportamento inadeguato.
Una ricerca di Benelli e colleghi (2001) mostra che “i bulli non sembrano
avere particolari difficoltà nella gestione dell’interazione col compagno, anzi
si sono dimostrati spesso attivi, prendendo l’iniziativa e tenendo a lungo la
parola” nelle situazioni strutturate proposte, a prova del fatto che il bullo possa
essere un bambino con abilità cognitive-sociali e comunicative-relazionali, “in
grado di gestire l’interazione col compagno in modo competente, almeno nelle
situazioni conosciute e codificate” (Benelli et al., 2001, p.18).
Gini (2005) ritiene che il fatto che i bulli agiscano in maniera prepotente, non
fa di loro degli individui incompetenti, dal momento che spesso il loro
comportamento è realmente utile per arrivare a degli scopi che si prefiggono;
ipotizza quindi che forse si tratta più di un problema di giudizio morale, quindi
di saper affermare ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.
I sostenitori di entrambe le teorie, ad ogni modo, sono concordi nell’affermare
che non si possono dare informazioni conclusive sulla natura del bullismo, in
quanto una buona teoria della mente può predire sia comportamenti prosociali
16
che comportamenti di prepotenza. Bisognerebbe quindi studiare non solo le
capacità cognitive, ma anche l’uso che è fatto di tale abilità (Gini, 2005).
1.4. I protagonisti del bullismo.
Ad un primo sguardo, potrebbe sembrare che gli attori che entrano in gioco nel
fenomeno del bullismo siano solo il bullo e la vittima. In realtà, è possibile
distinguere tra:
coloro che attuano le prepotenze (bullo leader, gregari, sostenitori);
coloro che subiscono la prepotenza (vittima passiva, vittima provocatrice);
coloro che assistono (gli spettatori neutrali, i difensori della vittima).
(Buccoliero e Maggi, 2005).
1.4.1. Caratteristiche di chi fa le prepotenze: il bullo.
La caratteristica principale del bullo è l’aggressività; questa è sia rivolta verso
i coetanei, sia diretta verso adulti, genitori ed insegnanti (Olweus, 1996).
Olweus (1996), descrive i bulli come bambini molto impulsivi, caratterizzati
da una tendenza a dominare, con una considerazione molto più positiva della
violenza rispetto ai loro coetanei, con un’opinione abbastanza positiva di sé
stessi, sia dal punto di vista fisico sia per quanto riguarda la loro popolarità tra
i pari, ma con una scarsa empatia, soprattutto nei confronti delle loro vittime.
Nonostante lo studioso abbia cercato le prove di un’insicurezza latente dei
bulli, anche con metodi di rilevazione fisiologica (rilevazione degli ormoni
legati allo stress) e con tecniche proiettive, nessuna di queste ricerche ha
confermato questa ipotesi, ma piuttosto esse danno un’immagine del bullo
17
come di un ragazzo con poca ansia ed insicurezza e che non ha problemi di
autostima.
Altre ricerche, come quella di O’Moore e Kirham (2001), però, sostengono
l’ipotesi secondo cui i bulli presenterebbero bassa autostima e senso di
inferiorità rispetto ai loro coetanei. Salmivalli (1998) attribuisce queste
discrepanze ai metodi di rilevazione che vengono utilizzati in ricerche diverse.
La ricercatrice stessa ha trovato nei bulli un’alta autostima per quanto riguarda
la popolarità e l’attrazione fisica, ed una bassa autostima per quanto riguarda
l’ambito scolastico, quello familiare, quello del comportamento e quello delle
emozioni.
“Ciò che caratterizza i bulli è un modello reattivo aggressivo associato alla
forza fisica”(Olweus, 1996, p. 37). La forza e la violenza vengono utilizzate
per raggiungere i loro scopi o per affrontare la maggior parte delle situazioni
sociali: credono che il loro utilizzo li possa aiutare per dare un’immagine
positiva di sé stessi. In effetti, alcune ricerche hanno dimostrato che i bulli
godono di una certa popolarità (Ciucci e Smorti, 1999; Espelage e Holt, 2002).
Questa popolarità però decresce con l’aumentare dell’età perché, come
ipotizza Ross (1996), crescendo si vanno ad apprezzare altre proprietà
dell’amicizia, oltre alla semplice forza fisica che attrae i più piccoli.
Importante risulta la distinzione tra aggressività reattiva ed aggressività
proattiva (Camodeca et al., 2002; Pellegrini et al., 1999). La prima è una
reazione difensiva di collera causata da una provocazione o da una
frustrazione; i bambini aggressivi reattivi hanno difficoltà di regolazione delle
emozioni, spesso assumono comportamenti di acting out, con forte scoppio di
rabbia, di solito non hanno molta popolarità, vengono eccitati anche da
comportamenti non troppo rilevanti, agiscono sulla base di ciò che credono
siano state le intenzioni degli altri, compiendo così una valutazione morale. La
18
seconda riguarda quei comportamenti controllati da rinforzi esterni, tipo il
raggiungimento del proprio scopo, in cui è molto più semplice trovare ragazzi
con alta probabilità di essere considerati leader, che riferiscano emozioni
positive dopo le aggressioni, con alto livello di autoefficacia, bassi livelli di
empatia, sono motivati ad agire in base all’aspettativa di conseguenze positive,
non sembrano badare alle intenzioni degli altri, non utilizzano i giudizi morali.
I primi sembrano più avvicinarsi al modello del processo delle elaborazioni
delle informazioni (Dodge et al., 1997), mentre i secondi, per le loro
caratteristiche, sembrerebbero avvicinarsi più al modello del bullo come abile
manipolatore sociale (Sutton et al.,1999a; 1999b).
E’ importante quindi, distinguere il bullismo dall’aggressività: pur avendo in
comune i comportamenti aggressivi, i bulli differiscono per molti altri aspetti.
Bisogna inoltre stare attenti perché probabilmente non tutti i bambini che a
scuola vengono classificati come bulli lo saranno veramente; alcuni
apparterranno alla categoria dei bambini aggressivi reattivi.
Molto di meno sono conosciute le caratteristiche dei bambini implicati nel
bullismo relazionale, dei quali emerge un profilo inconsistente (Woods e
Wolke, 2004). Alcune ricerche hanno mostrato che sono meno scelti dai
compagni (Crick e Grotpeter, 1996), e che le aggressioni relazionali sono
correlate con disadattamento sociale in termini di depressione, solitudine,
ansia e isolamento sociale (Crick et al., 1999); altre invece hanno rilevato che i
bulli relazionali non hanno problemi di questo tipo, amano andare a scuola,
hanno bassi livelli di assenteismo, hanno pochi problemi di comportamento in
termini di iperattività e di problemi di condotta, ma presentano anche bassi
livelli di comportamento prosociale (Wolke et al., 2000; Wolke et al., 2001).
19
1.4.2. Caratteristiche di chi subisce le prepotenze: la vittima.
Le vittime sono di solito descritte come più giovani, più piccole, più deboli dei
loro compagni, e Olweus (1996) ha ipotizzato che la loro piccola statura e il
loro sviluppo emozionale meno avanzato le renda un target attraente per i bulli
che cercano una dominanza sociale. Ad ogni modo, anche se la minutezza e la
debolezza fisica caratterizzano molte vittime, i ricercatori hanno individuato
due sottotipi di vittime: le vittime passive e le vittime provocatrici (Olweus,
1996). Le vittime provocatrici sono quelle che in genere hanno dei
comportamenti o degli atteggiamenti di disturbo, ma parleremo in maniera più
puntuale di questa tipologia nel prossimo paragrafo.
La vittima passiva o sottomessa, è così chiamata perché subisce senza opporsi
le angherie dei compagni e senza dimostrare alcun tipo di aggressività; di
solito questi bambini reagiscono piangendo o divenendo chiusi in sé stessi,
non si riescono a difendere, non iniziano quasi mai gli scontri. Sono individui
significativamente più insicuri, chiusi, inibiti, introversi, con minore autostima
e un senso di inferiorità rispetto ai compagni (Olweus, 1996); non hanno,
inoltre, molte relazioni di aiuto, di conforto, di amicizia e molte interazioni
positive da parte dei compagni (Crick e Grotpeter, 1996).
Attraverso lo studio dei sociogrammi, è stato rilevato che in genere la vittima
passiva tende ad essere rifiutata dai pari (Fonzi et al., 1996; Tomada e Tassi,
1999); ha delle relazioni amicali, ma in genere sono vittime stesse (Tomada e
Tassi, 1999), ed il loro gruppo è numericamente minore rispetto a quello dei
bulli (Salmivalli et al., 1997); anche in situazioni di interazione normale,
quindi non in situazione di vittimizzazione, tendono ad interagire con i
compagni in maniera differente (Benelli et al., 2001). Di solito utilizzano
strategie di difesa di indifferenza o di impotenza (Salmivalli et al., 1996).
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Sembra quindi che vi siano dei bambini che, per le loro caratteristiche, siano
più a rischio di vittimizzazione e che quindi la scelta della vittima da parte del
bullo non sia casuale. Sono state avanzate diverse ipotesi sull’argomento.
La prima risale ad Olweus (1984, citato in Gini, 2005) ed afferma che il
comportamento di questi bambini, “da vittima” appunto, li faccia diventare il
target del bullismo. Ma, come afferma Gini (2005), è una tesi debole, in
quanto non sappiamo se questo comportamento precede o segue la reale
vittimizzazione. La seconda, quella della differenza, afferma che il bullo
sceglie ragazzi che hanno caratteristiche esteriori diverse dagli altri (Pearce,
1989; Phillips, 1989, citati in Gini 2005). Ma anche questa sembra un’ipotesi
debole; “un’alternativa possibile, che nasce dalla consapevolezza della
complessità del fenomeno, è quella di considerare le caratteristiche personali
del bambino solo come una delle variabili implicate, mentre altri fattori
importanti nel contribuire alla scelta della vittima da parte del bullo non
possono essere esclusi” (per esempio, le variabili del contesto, le aspettative di
riuscita del bullo, la presenza di amicizie, ecc) (Gini, 2005, p. 48).
Anche per le vittime, così come per i bulli, sono stati ipotizzati deficit socio-
cognitivi, come il bias attribuzionale che porta questi bambini ad interpretare
eventi neutri come minacciosi e un deficit a carico della codifica dei segnali
sociali, soprattutto per quanto riguarda il riconoscimento di alcune emozioni
(Fonzi et al., 1996). Sembrerebbe però che le vittime (ed anche i bulli), se
messi in situazioni organizzate non facciano fatica a mantenere i loro ruoli,
almeno in parte, disconfermando l’ipotesi secondo cui avrebbero difficoltà di
tipo cognitivo-rappresentazionale (Benelli et al., 2001). Piuttosto, emerge una
difficoltà maggiore nella “negoziazione della regolazione con il partner, anche
quando questi non rappresenta il potenziale aggressore” (Benelli et al., 2001).