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Da qui nasce la nostalgia per la vita e la conseguente esasperazione che anima i suoi
protagonisti. Losers, “misfits”, persone allo sbando, perdenti senza alcuna speranza, eroi che
dell’epica non sanno cosa farsene. Da Gil Westrum e Steve Judd a Martin “Rubber Duck”
Craddock, passando per Amos Dundee, Pike Bishop, Junior Bonner, Bennie ed Elita. Unica
scappatoia, unica possibile via di fuga è la violenza, un rituale collettivo che non lascia
speranza, che porta alla purificazione in modo spregiudicato e furibondo. Il pessimismo
sembra essere senza ritorno: il senso della vita lo si raggiunge solo nella catarsi liberatoria
della morte. I personaggi che animano con disperazione un territorio senza alcuna speranza
vivono e pensano la morte. Ma non si tratta di puro autocompiacimento. C’è la precisa
volontà di recuperare l'istintualità, la natura animale dell'uomo che spesso ci si rifiuta di
riconoscere.
In questo senso l’ammirazione per l'etologo Robert Ardrey (e di riflesso i temi trattati
da Konrad Lorenz, nonché dalla scuola realista, naturalista e antiteologica di Jack London,
Frank Norris e Hamlin Garland) si rende palese e manifesta. Le opere di Ardrey (African
Genesis, The territorial imperative, The social contract), considerato dal regista “il solo
profeta vivente oggi”, concentrano l'attenzione su temi cari alla poetica peckinpahiana quali la
cogenza del territorio, la guerra “di evoluzione”, la lotta per la sopravvivenza. Una linea
sottile che porta dall'aggressività intra-specifica dell'uomo a quella della macchina da presa.
Traduzione filmica del determinismo biologico ripresa in sinuosi movimenti cinematografici.
È un gioco di rimandi che chiama in causa la stessa esperienza personale del regista ed
in particolare il suo combattuto rapporto con i produttori. Un duello continuo contro
l’establishment delle majors, ree di averlo ostacolato durante tutto l’arco della propria
carriera. Su quattordici film girati solo tre (La ballata di Cable Hogue, The ballad of Cable
Hogue, L'ultimo buscadero, Junior Bonner, Voglio la testa di Garcia, Bring me the head of
Alfredo Garcia) sono stati riconosciuti come propriamente suoi. Tutti gli altri sono incappati
in tagli e modifiche da parte di produttori e dirigenti affaristi. Pochi sono i nomi che si
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salvano, tanti quelli che annegano nel mare dell’idiozia. “Io ho una grande regola morale
nella vita: mantenere la parola data… tranne che col produttore!” affermerà il regista. Una
sorta di impegno simbolico che da personale diventa filmico e metafilmico, essenza ambigua
dell’immagine e della morale dei suoi protagonisti.
Seguendo tale percorso cercheremo dunque di inquadrare questi aspetti dell’opera di
Peckinpah all’interno di una cornice formale e concettuale. La serialità televisiva e la
conseguente composizione del linguaggio cinematografico, i conflitti vissuti e rappresentati,
la rabbia e la malinconia dei suoi personaggi, l’esaltazione istintuale del codice di lotta, la
libertà dai vincoli sociali ed il fascino del tempo perduto.
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Capitolo 1
Conflitti e antieroi gettati nella mischia
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- Da “La morte cavalca a Rio Bravo” a “Osterman weekend”: Peckinpah esprime
attraverso il suo cinema il disgusto e l’insofferenza verso un mondo in continua dissoluzione.
“A volte penso che Dio sia un sadico. Ma forse questo lui nemmeno lo sa”. Le parole
di Rolf Steiner/James Coburn in La croce di ferro (Cross of iron, 1977) sono emblematiche
per comprendere la vita e l’opera di Sam Peckinpah, l’ “ultimo buscadero” del cinema
americano. Autore controverso, vittima e carnefice, rivoluzionario dissacratore che ha
contribuito a rileggere i canoni classici del cinema hollywoodiano. Prima all’interno del film
di genere (o meglio, nel genere per eccellenza del cinema americano, il western), poi
ampliando i propri orizzonti e le proprie tematiche fino ai termini estremi (sintetizzabili nella
magnificenza oscura di Voglio la testa di Garcia, Bring me the head of Alfredo Garcia, 1974).
Certo è che Peckinpah occupa un posto di rilievo nella storia delle comunicazioni
visive, nonostante ci si dimentichi di lui sin troppo spesso. Nato in California ma con tracce
pellerossa nel sangue (una vantata e non del tutto certa discendenza Pajute…), sin dalla
gioventù (i racconti dei nonni sul Vecchio West, la rigida educazione paterna votata al rispetto
della legge, l’esperienza militare in Indocina) si destreggia tra discorsi su Giustizia, Bibbia e
Robert Ingersoll. Fino a quando non riprende gli studi e prima di cimentarsi dietro la
macchina da presa si divide tra teatro e televisione. Palestra fondamentale per la successiva
evoluzione narrativa e stilistica.
La prima collaborazione con Don Siegel risale al 1954, mentre fino al 1960 si dedica,
in televisione, all’ “adult western”, proprio in un periodo in cui il cinema americano vive una
delicata fase di trapasso. Iniziano infatti le prime contaminazioni con le tecnologie della
comunicazione in diretta, sul piano formale ed espressivo. La confusione è nell’aria ed i
conflitti vissuti e rappresentati portano ad una totale ridefinizione dell’etica che li sostiene.
L’armonia tra uomo e natura non è più possibile. Esplode la violenza, sociale quanto storica.
Ed è proprio in questo contesto che il cinema statunitense (e tutto l’apparato mitologico che lo
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sostiene) entra in crisi. Il cambiamento è dovuto alla fase di trapasso che vive l’intera società:
il nuovo cinema che si affaccia utilizza le vecchie mitologie per rispecchiare le problematiche
odierne (le inquietudini del dopoguerra, la fedeltà al liberalismo, il popolo come valore
positivo, gli ideali di pace e giustizia) e senza essere snaturato ne guadagna sul piano dei
contenuti morali e sociali. Il risultato è dunque una complessità di temi e di rappresentazioni
che rinfresca e rilancia i generi.
Peckinpah vive questa fase di transizione, ne assorbe scossoni e mutamenti, impianta
nuovi criteri sul classicismo della sua formazione. Tra nazionalismo culturale e guerra fredda
gli Stati Uniti vivono un periodo di evidenti contraddizioni: gli anni ’50 sono quelli del
maccartismo, della “caccia alle streghe”, della “sindrome della quinta colonna”. Ne fanno le
spese molti nomi noti o meno del panorama hollywoodiano (basti pensare a Dalton Trumbo,
Ring Lardner jr., Abraham Polonsky). Diretta conseguenza del mutamento dei rapporti sociali
è la scossa che smuove l’industria cinematografica. A subirne le conseguenze è soprattutto il
cinema di genere, il western in particolare.
Se John Ford a partire da Sentieri selvaggi (The Searchers, 1956) tratteggia un insieme
di eroi complessi, ricchi di tragica ambiguità (e rimasti perdenti, soli, unici possessori del
senso di solidarietà sociale), è il segno che i tempi ed il mondo stesso stanno cambiando. Si
sviluppa un nuovo modo di intendere il western, un modo decisamente moderno (che sarà
influenza fondamentale per lo stesso Peckinpah). Innovazioni che provengono da una schiera
di registi che a cavallo tra gli anni ’50 e ’60 riformulano e modificano l’universo narrativo ed
audiovisivo del genere. Da una parte ci sono infatti capisaldi quali John Ford, William
Wellman, King Vidor e Raoul Walsh (essenziale per Peckinpah stesso), dall’altra una nuova
ondata da cui emergono Nicholas Ray, Don Siegel, Robert Aldrich e Samuel Fuller. Tutti stili
e modi che avranno un certo peso nella crescita peckinpahiana.
Ray rivisita i miti del West in chiave amara e malinconica, facendo emergere sulle
ceneri dell’idealismo della Frontiera lo squallore della realtà e una galleria di personaggi
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romantici e perdenti, ribelli ed anticonformisti (Il temerario, The lusty man, 1952, il cui eroe
Jeff McCloud/Robert Mitchum somiglia tanto e non a caso al Junior Bonner/Steve McQueen
di L’ultimo buscadero, o La vera storia di Jesse il bandito, The true story of Jesse James,
1957). Walsh fornisce una rappresentazione lucida della violenza mettendo in scena la lotta
contro il destino, la malinconia e la tragedia di perdenti ante litteram in western onirici e dal
grande impatto visivo (Notte senza fine, Pursued, 1947, Gli amanti della città sepolta,
Colorado territory, 1949, Sabbie rosse, Along the great divide, 1951, Tamburi lontani, Distant
drums, 1951, Sotto il sole rovente, Lawless breed, 1952, Il suo onore gridava vendetta -
Duello all’ultimo sangue, Gun fury, 1953, Gli implacabili, The tall men, 1955, Un re per
quattro regine, The king and four queens, 1956).
Collaboratore di Walsh alla Warner fu proprio Donald Siegel, maestro di Sam
Peckinpah e tra i registi chiave nel mutamento strutturale avvenuto negli anni ’50 e ’60. Pur
non trovandosi mai pienamente a proprio agio con il western ed avendo attraversato tutto il
campo dei generi, Siegel si impone per il suo stile teso, rigoroso, emozionante. L’analisi che
porta avanti sulla complessità umana si tramuta in un cinema fatto di suspense, azione, sintesi,
movimento, gamma di varianti che rappresentano uno snodo imprescindibile per i giovani
cineasti del periodo. Ma dallo stesso sostrato emergono anche Robert Aldrich e Samuel
Fuller, l’ala dirompente, radicale, trasgressiva dell’universo cinematografico statunitense,
veterani di guerra ancora in lotta, pronti alla distruzione delle convenzioni narrative e formali.
Aldrich si muove tra paesaggi insoliti ed un gusto picaresco per l’avventura,
descrivendo situazioni atipiche nelle quali si agitano eroi perdenti in cerca di riscatto. La
riflessione critica sulla Storia accompagna Vera Cruz (id., 1954) e L’ultimo apache (Apache,
1954); L’occhio caldo del cielo (The last sunset, 1961) spiazza per la sua estraneità ai canoni
classici del genere; successivamente Non è più tempo di eroi (Too late the hero, 1970)
sintetizza la sua poetica con un duro apologo sulla guerra; L’imperatore del Nord (Emperor of
the north, 1973) pone un sigillo sul mito americano dell’individualismo scoprendone
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contraddizioni e crisi esistenziali (non a caso lo stesso Peckinpah si complimentò con il
regista scrivendogli una lettera ricca di elogi).
Su un terreno simile opera anche Samuel Fuller, spirito anarchico, pragmatico e
ribelle, soldato valoroso con un passato da reporter di cronaca. Il suo cinema sottolinea spesso
come la violenza sia l’elemento integrante della comunità culturale americana, specie contro il
finto perbenismo che domina l’America post-trumaniana. “Il cinema è come un campo di
battaglia. Amore, odio, azione, violenza. In una parola: emozione”1. Una delle massime più
celebri di Fuller, esemplificazione perfetta di opere barocche e tormentate quali Quaranta
pistole (Forty guns, 1957) e La tortura della freccia (Run of the arrow, 1957), sempre per
rimanere in ambito western.
I fermenti che animano il cinema statunitense del periodo trovano perfetto
compimento nella svolta decisiva sul piano sociale e culturale che avviene negli anni ’60. Il
mutamento è presente sia dal punto di vista produttivo e narrativo (salta una precisa
codificazione dei generi, la produzione non domina più incontrastata), sia da quello
dell’immaginario e del consumo. È il livello delle contraddizioni della società americana a
richiedere uno sguardo diverso, critico, sulla propria storia passata. Crollano i valori cardine
del western classico (la libertà e l’individuo, il canto dei grandi spazi aperti, il mito di una
frontiera sempre nuova), i fermenti che provengono dall’esterno scuotono l’apparato creativo
hollywoodiano.
È l’epoca dell’iperrealismo, della nostalgia per i tempi passati, del rimpianto per l’età
perduta, della vecchiaia e della fine di ogni percorso. Se la riflessione critica e la rivisitazione
del mito sono nell’aria, la consapevolezza politica e la presa di coscienza delle contraddizioni
insanabili radicate nella società americana fanno il resto. Così come gli sconvolgimenti
formali derivanti dalle contaminazioni tra linguaggio cinematografico e tecnologie della
comunicazione in diretta. “Ormai il mondo del vecchio West può essere rivissuto solo come
1
Valerio Caprara Samuel Fuller, Il Castoro, Firenze, 1984
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nostalgia, come coscienza amara di un declino. Non per nulla i suoi eroi sono invecchiati, e
nessuno è venuto a sostituirli, sopravvivono sperduti in un’epoca diversa, sradicati in attesa
della morte”2.
Tra l’avvento della televisione, la crisi dello star system, il mutamento del pubblico e
le perdite economiche delle case produttive nasce un nuovo cinema. Un cinema di
movimento, organico, che sottolinea ambiguità e contraddizioni emotive. Un cinema opera di
registi che toccano apertamente i nervi scoperti della società statunitense (le menzogne del
governo, le istituzioni asfittiche, l’artificiosità dei mass media).
Deleuze inquadra l’evoluzione del western nel passaggio dell’immagine-azione dalla
“Grande Forma” (il vortice situazione - azione - situazione) alla “Piccola Forma”,
“l’immagine-azione che va da un’azione, un comportamento o da un habitus ad una
situazione parzialmente svelata”3 per poi giungere ad una seconda azione. L’ellisse, il fuori
campo, la frenesia del montaggio, l’esplosione della violenza segnano un nuovo campo
espressivo. “Se l’istante è il differenziale dell’azione, è in ciascuno degli istanti che l’azione
può ribaltarsi, volgersi in una situazione del tutto diversa o opposta. Niente è mai acquisito.
[…] Non vi è più affatto azione grandiosa, anche se l’eroe ha conservato straordinarie
qualità tecniche. Al limite fa parte di quei “Losers” così come li presenta Peckinpah”.4
Peckinpah, appunto. Snodo cruciale del cinema americano, tra i pochi in grado di far sentire le
pulsazioni del proprio corpo alla macchina da presa. È attraverso la sua vita e le sue
esperienze sul set, attraverso il suo universo filmico, attraverso i suoi eroi alla rovescia che
riesce a farsi portavoce di un mondo che scivola via, fuori da ogni controllo. Discorso che
tutto (o quasi tutto) il cinema hollywoodiano degli anni ’60 e ’70 cerca di mettere in scena.
Ma se altrove è una certa “retorica dell’anti-retorica” a farsi strada (basta mettere a
confronto I professionisti, The professionals, 1966, di Richard Brooks e Il mucchio selvaggio,
2
Gianni Volpi L’ultima Frontiera, in Il Western, Feltrinelli, Milano, 1973
3
Gilles Deleuze L’immagine-movimento, Ubu Libri, Milano, 1984
4
Gilles Deleuze op. cit.
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The wild bunch, 1969), il mondo che viene fuori da opere quali Sfida nell’Alta Sierra (Ride
the High Country, 1962) o La ballata di Cable Hogue (The ballad of Cable Hogue, 1970) è
del tutto in dissoluzione. Le caratteristiche che avevano fatto grandi storie ed eroi del passato
sono ormai messe in discussione. Il nuovo duello è quello tra passato e presente, sconfitta e
riscatto, fatalismo e ribellione, senilità e giovinezza. Unico modo per sopravvivere al
mutamento dei tempi è l’affermazione di se stessi, uno schietto individualismo libertario che
tra sarcasmo e stoicismo caratterizza il mondo dei personaggi peckipahiani.
La violenza è quella delle convenzioni sociali, dei doveri imposti, del potere coercitivo
messo in atto da arroganti generali prussiani, allevatori capitalisti e fazenderi messicani. Alla
violenza imposta si risponde con la violenza per la vita, per la sopravvivenza, per la propria
libertà. Una sfida che si affronta con consapevolezza, a muso duro, con cosciente coerenza
rispetto al reale. La violenza è ormai parte di esso e la sua rappresentazione è spia del disagio,
del trauma, dei cambiamenti radicati nella nuova epoca. La poetica che la rappresenta nasce
dalla sfiducia nelle istituzioni e nei valori tradizionali, sia della società che del cinema
americano del passato. I conflitti sono quelli profondi che caratterizzano la cultura ed il
tessuto metropolitani. La necessità è quella di ancorare il presente (e la sua
negazione/riaffermazione) alle radici mitologiche del passato.
Il western in questo senso mette in mostra la volontà di resistere alla vecchiaia del
West, al brusco interrompersi della sua conflittualità selvaggia. Come afferma lo stesso
Peckinpah: “Io faccio western che riflettono qualcosa di altro, che pongono un certo numero
di domande con cui l’America e il mondo in generale devono oggi confrontarsi. Credo, anzi
spero, che i miei film possano soprattutto riflettere la cattiva coscienza dell’America”5.
Ma non è solo Peckinpah, è tutto un cinema che si ridesta e si rivolta, alimentando il
Mito di nuovi stimoli. È la difesa della dignità e la costruzione di una morale personale in un
paesaggio umano ma senza valori umani che caratterizza il cinema di Budd Boetticher (che
5
Guy Braucourt Entretien avec Sam Peckinpah, “Cinéma 69”, n. 141, dicembre 1969
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per altro non ha parole tenere verso Peckinpah: “Mi piaceva il suo lavoro ma lo trovavo
detestabile. ‘Il mucchio selvaggio’ era un grande film ma poi ne ha fatto uno che parlava di
donne di cui non sapeva niente, quello con Stella Stevens… Il suo problema era che non era
una bella persona. Hanno scritto che ha rubato tutto da me. Non è vero. Ma lui lo ha letto e,
da allora, mi ha odiato. L'ultima volta che ci siamo visti mi ha detto ‘Budd tu e tutti gli altri
dite che faccio film violenti perché mi piace la violenza. Invece io li faccio per mostrare al
mondo quanto è orribile’. ‘Cazzate Sam’ gli ho risposto. È l'ultima cosa che ci siamo detti. I
suoi erano film bellissimi, ma quando giro uno che muore, non mi va di vedere il suo naso
che vola via in aria.”6). Sono le lotte, i duelli tra lealtà e cinismo, amicizia e avidità che
toccano il mondo articolato e crudele di Delmer Daves. Sono i toni crepuscolari, l’antieroismo
dei personaggi ed il rifiuto di ogni mitologia presenti nelle tematiche civili di Tom Gries
(fondamentale il suo Costretto ad uccidere, Will Penny, 1968). È la violenza naturale e
storico-sociale di La sparatoria (The shooting, 1966) e Le colline blu (Ride in the Whirlwind,
1966) di Monte Hellman (altro punto cardine molto vicino al cinema di Peckinpah).
Anche i “classici” prendono le distanze dal genere e propongono eroi fuori da ogni
logica sociale (Nevada Smith, id., 1966, e Il Grinta, True Grit, 1969, di Henry Hathaway). Ma
il progressivo senso di vuoto è ormai proprio di tutti, dal Butch Cassidy (Butch Cassidy and
the Sundance Kid, 1969) di George Roy Hill (la cui libertà anarchica non è mai sfiorata dal
concetto sociale) al Jeremiah Johnson di Sidney Pollack (Corvo rosso non avrai il mio scalpo,
1972), il cui abbandono della civiltà è una vera e propria fuga dalla Storia. Passando
attraverso gli archetipi della cultura americana, la sua tradizione letteraria ed il suo rimosso
(Ucciderò Willie Kid, Tell them Willie Boy is here, 1969, di Abraham Polonsky). E
giungendo alla solitudine drammatica (Uomo bianco, va’ col tuo dio, Man in the wilderness,
1971, di Richard Sarafian) e alla completa destrutturazione del Mito (Un uomo chiamato
cavallo, A man called horse, 1970, di Elliott Silverstein).
6
Giulia D’Agnolo Vallan, Steve Della Casa 18° Torino Film Festival - Intervista a Budd Boetticher,
“Sentieri selvaggi”
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Nei nuovi western si trova dunque un diverso senso della storia, emergono coni
d’ombra sulle origini di una civiltà che modificano e abbattono il mito della conquista
dell’Ovest. Le vicende passate sono metafora dei conflitti odierni, dal profondo vengono fuori
crisi e mutamento, storie di violenza e decadenza. L’identificazione con l’altro (oppressi,
minoranza sterminata o antieroe anarchico che sia) costituisce così un rapporto attivo con il
presente.
È la contraddizione, classica nel pensiero americano, tra natura e cultura, tra un
ambiente colonizzato, percepito sempre come distinto, come altro, e una civiltà che
nonostante tutto non riesce a rifiutare l’idea di un recupero dell’Eden (problematica che
investe molto cinema di Peckinpah).
I protagonisti dei suoi film rientrano pienamente in questo novero di malinconici
emarginati, emblema di una incapacità di adattamento che abbatte e sprona, distrugge e fa
lottare. “Nel West non ci sono eroi. C’è solo gente che ha paura della vita. Per questo spara,
ammazza, rapina. Ed è per questo che li chiamano desperados”7.
- L’angoscia dei rapporti sociali e l’angustia verso tutto ciò che è prestabilito:
l’ascesa verso il basso dei suoi eroi alla deriva.
Protagonisti animosi dunque, che popolano il mondo di Peckinpah tra malinconia e
ribellione. D’altronde la figura dell’antieroe, del “born loser”, è mediata dal romanzo
americano (basti pensare alla narrativa classica o alla figura dello “shlemiel” nella letteratura
d’origine ebraica). Ma in questa nuova, sordida dimensione il pericolo che corrono è sempre
quello di restare immobili, passivi dinanzi al destino che compie il suo corso. La reazione è
però forte, tesa, votata alla lotta, anche se la sconfitta è in agguato, implacabile. Gli eroi di
Peckinpah sono uomini alla deriva, persone che non hanno nulla da perdere se non la propria
7
Gian Luigi Rondi Sette domande a Sam Peckinpah, “Il Tempo”, 12 settembre 1974
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vita. Perché il mondo in cui si muovono non è più quello di un tempo, è un universo
putrescente all’interno del quale i rapporti umani sono stati brutalizzati e sostituiti da quelli
economici.
Chi rimane ancorato al passato è un sopravvissuto, un illuso, un testardo ostinato che
per amore dell’avventura o per semplice spirito di conservazione non rinuncia ai propri ideali,
non si tira indietro quando si tratta di agire. “Non hanno nessuna facciata, non rimane più
loro nessuna illusione, e allora rappresentano l’avventura disinteressata, quella da cui non si
ricava nessun vantaggio, se non la pura soddisfazione di vivere ancora. Non hanno
conservato nulla del sogno americano, hanno soltanto conservata la vita, ma, a ogni istante
critico, la situazione che la loro azione suscita può rivolgersi contro di essi, e fargli perdere
questa sola cosa che gli restava”8.
L’eroe accoglie la morte senza scossoni, già preparato, perché la sua esistenza era già
non-vita, limbo dannato, continuato stato comatoso. Nonostante tutto, disillusione ed
inadeguatezza fanno da stimoli ed innescano la reazione, ostinata quando disperata. Il cui
unico risultato è la determinazione a sopravvivere. Di fronte ad una realtà squallida che li ha
(ab)battuti, non resta altro da fare che cogliere il momento opportuno ed agire. Gli scenari
mutano, si evolvono, ma il sogno che li alimenta rimane lo stesso.
Per Peckinpah il West non è la radice dalla quale la società statunitense deve
affrancarsi per crescere. L’idea del progresso è al contempo vicina e lontana. Ciò che anima i
suoi personaggi è l’utopia, il bisogno e la riaffermazione di quei principi etici che dominavano
il vero Eden, il vecchio West. Ciò che precede la Storia e l’idea stessa di progresso. Ma
l’America muta più velocemente di quanto si possa immaginare. Opporsi alla frenesia del
mutamento è difficile, non impossibile. “Le cose sono cambiate, io no”, dirà Billy the
Kid/Kris Kristofferson rimasto solo a combattere contro chi nega terra e libertà. Libertà e
anarchia contro doveri ed imposizioni.
8
Gilles Deleuze op. cit.
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