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1. INTRODUZIONE GENERALE
1.1. Gli elementi in traccia nei corsi d’acqua
I corsi d’acqua superficiali contengono una frazione inorganica di soluti in
concentrazioni che variano da qualche decina o decimo di mg/l fino al µg/l o meno.
Tutti derivano per via naturale dalla dissoluzione delle rocce presenti nel bacino idrico,
dalle deposizioni atmosferiche solide (polveri) o liquide (precipitazioni) e dagli scambi
gassosi con l’aria. A questi veicoli di arricchimento naturale delle acque si aggiungono
le immissioni di origine antropica, che da qualche decennio rappresentano un
significativo fattore di alterazione ambientale. Le attività estrattive dei metalli ed il loro
impiego a livello industriale trasferiscono infatti notevoli masse di elementi dalla
litosfera, ove sono immobilizzati allo stato minerale, ad aria, acqua, suolo e biosfera.
Fra gli elementi chimici presenti in quantità maggiori nei corsi d’acqua vi sono metalli
alcalini come Na e K ed alcalino terrosi come Ca e Mg. Le loro concentrazioni, insieme
a quelle dei principali anioni disciolti, pH, conduttività, durezza ed alcalinità, sono i
parametri analitici fondamentali o accessori per la caratterizzazione chimica dell’acqua,
in quanto intimamente legati agli equilibri in soluzione e particolarmente a quelli di
saturazione dei carbonati e dissoluzione della CO
2
. Accanto ai metalli sopra citati,
solitamente presenti in concentrazioni determinabili (dell’ordine del mg/l) e costanti nel
tempo, vi sono molti altri elementi, soprattutto metalli e metalloidi, le cui
concentrazioni (dell’ordine del µg/l) possono presentare problemi di rilevabilità
strumentale oppure ampie variazioni nel tempo e nello spazio. Sono gli elementi in
traccia.
Nonostante l’aspetto quantitativo induca a ritenere questi elementi poco importanti, la
loro valenza ecologica e sanitaria è enorme. Molti elementi in traccia sono
micronutrienti fondamentali per piante ed animali, essendo costituenti di molecole
organiche quali vitamine od enzimi, ma la loro assunzione in concentrazioni superiori al
fabbisogno può determinare fenomeni di inibizione od intossicazione (ad esempio, Cu e
Se). Altri elementi, fra cui i tristemente noti “metalli pesanti” (Cd, Hg e Pb), non hanno
alcuna funzionalità utile all’organismo, ma al contrario, si legano alle molecole
funzionali come proteine ed acidi nucleici, denaturandole (Stryer, 1989).
La disponibilità biologica, o BIODISPONIBILITA’, di un elemento, cioè la frazione
assimilabile degli organismi viventi, è un fattore cruciale per la tossicità dell’elemento
stesso. La concentrazione totale nella matrice non è infatti molto predittiva dell’effetto
su un organismo, in quanto è solo la frazione assimilabile quella coinvolta nei processi
biologici: la biodisponibilità quindi è determinata dalla sua forma chimica, spesso
dipendente dal pH, dall’interazione con molecole organiche che fungono da ligandi ed
ovviamente dalla solubilità dei suoi composti (Wright e Welbourn, 2002).
Gli elementi chimici sono per loro natura non degradabili, quindi persistenti. Questo ha
delle ricadute molto serie a livello ecologico, in quanto le emissioni degli inquinanti
determinano un incremento poco reversibile delle loro concentrazioni in ambiente, ma
anche biologico, poiché diversi elementi possono essere accumulati dagli organismi ma
vengono rilasciati molto lentamente. La persistenza nell’organismo è un fattore cruciale
per la tossicità di un elemento.
Il fenomeno per cui la concentrazione di un elemento negli esseri viventi è superiore a
quella nel mezzo ambiente si definisce BIOCONCENTRAZIONE o BIOACCUMULO.
Esso non implica alcun meccanismo specifico di accumulo e la sua entità si misura
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generalmente attraverso i fattori di bioconcentrazione (BCF - Bio Concentration Factor)
e di bioaccumulo (BAF - Bio Accumulation Factor), ossia il rapporto fra la
concentrazione nel biota e la concentrazione nel mezzo, rilevate rispettivamente in
laboratorio (esposizione controllata) od in campo (ambiente naturale).
Quando l’accumulo di un elemento si verifica attraverso livelli trofici successivi e non
vi sono meccanismi efficienti di escrezione o di controllo, si ha il fenomeno della
BIOMAGNIFICAZIONE. Essa coinvolge la catena alimentare o la rete trofica nel loro
insieme. Mentre il bioaccumulo si osserva per numerosi elementi in diversi tipi di
organismi viventi, la biomagnificazione è stata finora dimostrata solo per il Hg.
La concentrazione degli elementi in traccia nell’ambiente è notevolmente aumentata
negli ultimi decenni in seguito allo sviluppo di attività umane quali ad esempio
l’estrazione mineraria, la lavorazione dei metalli, il consumo di combustibili fossili e la
sintesi di composti chimici. Le patologie direttamente collegate o riconducibili a questi
contaminanti sono in costante aumento, sia per la scoperta di nuove correlazioni fra
esposizione ed aumento del rischio, sia per la maggiore frequenza, durata od entità del
contatto. Ciò ha indotto un’attenzione sempre maggiore verso gli elementi in traccia,
tanto da spingere le autorità nazionali ed internazionali ad istituire gruppi di lavoro,
commissioni ed organizzazioni governative per lo studio ed il controllo di questi
contaminanti. Un esempio fra tutti è l’istituto per l’UNESCO “Trace Elements”, attivo
ufficialmente dal 1996.
Si riportano di seguito (Tabella 1) l’elenco degli elementi in traccia considerati nel
presente lavoro ed alcune informazioni su fonti d’inquinamento e tossicità per l’Uomo
(non si fa riferimento al dosaggio od allo stato chimico responsabile di tali effetti).
Elemento
chimico
Valenza
nutrizionale
Fonti
d’inquinamento
Effetti
tossici per l’Uomo
Al - alluminio nessuna estrazione mineraria, lavorazione dei
metalli, acidificazione delle acque,
trattamento acque reflue
demenza, perdita della
memoria, indebolimento,
tremore, danni al SNC
As - arsenico nessuna combustibili fossili e cromature (60%);
inoltre, produzione di acciaio e fonderie
in genere, produzione di vetro,
termodistruzione rifiuti, lavorazione
cemento, disinfettanti, pesticidi,
farmaci, conservanti per legno,
coloranti, decoloranti, tinture,
componenti elettronici
avvelenamento
Cd - cadmio nessuna accumulatori (75%), pigmenti,
stabilizzanti nel PVC (25%); inoltre
leghe metalliche in gioielleria,
placcatura, mordenti, pneumatici, oli
lubrificanti, miniere, combustibili
diesel, concimi, antiparassitari, fumo di
sigaretta
accumulo in reni ed ossa
(sindrome di “itai-itai”),
riduzione longevità,
ipertensione, aumento
incidenza malattie cardio-
vascolari
Co - cobalto componente
della vitamina
B
12
estrazione mineraria, isotopo
radioattivo (
60
Co) per chemioterapia,
radioterapia o sterilizzazione alimenti,
produzione leghe e magneti, porcellana,
ceramica, vetro macchiato, mattonelle e
smalti per gioielleria, placcature
cancerogenesi, vomito e
nausea, problemi a vista e
cuore, danni alla tiroide
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Cr - cromo micronutriente
(Cr III)
cofattore
dell’insulina
produzione acciaio inox e leghe,
industria galvanica (Cr VI), industria
conciaria e tessile (Cr III)
cancerogenesi (Cr VI),
eruzioni cutanee, ulcere,
danni a vie respiratorie e
polmoni
Cu - rame micronutriente
componente
di molti
enzimi
produzione materiale elettrico, leghe,
pigmenti, insetticidi, anticrittogamici,
placcature
irritazioni a naso, bocca e
occhi, emicranie, dolori di
stomaco, stordimento,
vomito e diarrea, malattie
professionali (morbo di
Wilson e morbo di Menkes)
Fe - ferro micronutriente
componente
di emoglobina
ed altre
molecole
industrie di lavorazione dei metalli,
smaltimento o corrosione oggetti
ferrosi
emocromatosi
Hg - mercurio nessuna industria cloro-soda, vernici, materiale
elettrico, plastiche, cellulosa,
catalizzatori, amalgame, luci
fluorescenti
accumulo in fegato e reni,
danni al SNC (sindrome di
Minamata)
Mn - manganese micronutriente produzione acciaio inox e leghe,
coloranti e decoloranti, disinfettanti
disturbi metabolici, ematici
e neurologici, fattore di
rischio per morbo di
Parkinson in operai metal-
meccanici
Ni - nichel micronutriente
componente
di enzimi, fra
cui le
idrogenasi
produzione acciaio inox e leghe,
industria galvanica, additivi per
carburanti, pitture e inchiostri, magneti,
elettrodi catalizzatori per l’idrogenaz.
degli olii, cosmetici, tubazioni, monete
e corazze, vetro colorato, combustibili
cancerogenesi, reazioni
allergiche, disfunzioni renali
e cardiache
Pb - piombo nessuna combustibili raffinati (ora non più),
accumulatori, munizioni, tubature,
materiali fonoassorbenti e scudi per
radiazioni, vernici e pitture, cristallo e
vetro per lenti, leghe per saldature,
fertilizzanti chimici, fonderie
disturbi al SNC e
saturnismo, accumulo in
reni, midollo osseo, ossa e
denti (sostituisce il Ca)
Pd - palladio nessuna leghe per materiale elettrico e gioielli,
catalizzatori
cancerogenesi, irritazioni
Pt - platino nessuna leghe per materiale elettrico e gioielli,
catalizzatori
cancerogenesi, allergie
Sb - antimonio nessuna produzione leghe a basso attrito, leghe
per la produzione di caratteri
tipografici, proiettili traccianti, guaine
per cavi, fiammiferi, farmaci, tubature
senza piombo, composti ignifughi,
smalti, vetri, ceramiche, semiconduttori
avvelenamento simile a
quello da As
Se - selenio micronutriente
componente
della seleno-
cisteina
produzione cellule fotoelettriche e
fotovoltaiche, decoloranti, gomma
vulcanizzata, fotocopie e fotografie
avvelenamento simile a
quello da As, selenosi
V - vanadio micronutriente
componente
di enzimi
(metabolismo
zuccheri)
produzione di acciaio e leghe,
superconduttori, magneti, ceramiche e
vetro, combustibili fossili
cancerogenesi, disturbi
neurologici, ai muscoli, a
fegato e reni, irritazioni
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Zn - zinco micronutriente
componente
di insulina e
molti enzimi
(produzione
dello sperma)
produzione della gomma, leghe,
accumulatori, disinfestanti, pitture,
cosmetici, farmaci, vernici, adesivi
industria galvanica e cartaria,
raffinazione del petrolio
disturbi neurologici,
alimentari ed alla pelle
Tabella 1 Alcune informazioni sugli elementi in traccia citati nel lavoro (Fonti: Adani et
al., 2002; http://www.lenntech.com/italiano/tavola-periodica, http://it.wikipedia.org).
In riferimento alla tematica delle sostanze pericolose, la direttiva quadro 2000/60/CE
del Parlamento Europeo prevede l’impiego di elementi biologici per la classificazione
dello stato ecologico delle acque, da utilizzarsi in azioni di monitoraggio operativo e di
sorveglianza, per supplire ai limiti delle metodiche chimiche finora adottate. In
particolare, se sono disponibili dati sulla persistenza e sul bioaccumulo, questi sono
presi in considerazione nel derivare il valore finale dello standard di qualità ambientale.
In taluni casi può essere necessario istituire anche programmi di monitoraggio
d’indagine.
1.2. Metodologie di monitoraggio
Il monitoraggio degli elementi in traccia nelle acque è stato sino ad oggi effettuato
innanzitutto con metodi non biologici. Il prelievo di CAMPIONI D’ACQUA
estemporanei o, più raramente, in continuo è programmato dalle autorità competenti e
svolto con cadenza periodica in siti strategici. Il Servizio Acque Interne di ARPAV, ad
esempio, effettua la misura delle concentrazioni di una decina di elementi in traccia nei
campioni d’acqua prelevati con cadenza da mensile a semestrale presso gli oltre 200
punti dislocati sul territorio regionale del Veneto. L’efficacia di questo tipo di
sorveglianza è assai limitata: la rappresentatività di un campione estemporaneo è
praticamente nulla quando le concentrazioni dell’elemento ricercato subiscono
fluttuazioni anche repentine, come ad esempio in siti interessati da contaminazione
intermittente. Il metodo si rivela utile piuttosto nella segnalazione di eventi cronici od
estesi, come ad esempio la contaminazione da cromo in Fratta-Gorzone. Soprattutto il
campione è fortemente deperibile e va sottoposto ad analisi rapidamente; per alcuni
parametri subito.
Un supporto non biologico abbondantemente utilizzato per il monitoraggio di elementi
in traccia sono i SEDIMENTI. Essi sono considerati il ricettacolo ultimo dei
microcontaminanti, i quali tendono ad associarsi alla materia in sospensione e quindi
precipitare verso il fondo. I sedimenti presentano una forte capacità di assorbimento dei
contaminanti e forniscono un’indicazione cumulativa della contaminazione in un certo
periodo di tempo. Purtroppo, la loro estrema diversificazione dal punto di vista della
granulometria, composizione e quantità disponibile per il campionamento, rende arduo
il confronto fra i risultati ottenuti in punti diversi anche dello stesso corso d’acqua. A
ciò si aggiunge il problema della rappresentatività del campione, sia temporale (come
riferirlo ad un periodo di tempo) sia spaziale (il sedimento può essere trasportato molto
più a valle del punto di contaminazione durante le piene).
Il monitoraggio può essere effettuato però anche attraverso metodi biologici,
impiegando cioè organismi indicatori (non verranno trattati qui) o più frequentemente
accumulatori. Questi, a differenza dei sedimenti, forniscono un’indicazione media
integrata nel tempo. I PESCI possono concentrare in alcuni organi del corpo (soprattutto
fegato e reni) gli elementi in traccia che assumono con la dieta, ma presentano alcune
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caratteristiche che rendono il loro utilizzo poco adatto a questo scopo. Essi non sono
sedentari, quindi le misure analitiche non possono essere riferite a tratti ristretti di un
corso d’acqua, la loro cattura può essere delicata e costosa, non resistono a
concentrazioni elevate di elementi tossici ed infine presentano una grande variabilità a
seconda della specie, l’età, il sesso o l’organo considerato.
L’utilizzo di MOLLUSCHI, soprattutto bivalvi, sembra promettente alla luce della loro
capacità di accumulo per alcuni elementi, ma le differenze fra classi d’età oppure fra le
diverse parti molli analizzate o le conchiglie, comportano un lungo lavoro di cernita e
preparazione dei campioni. Inoltre, anche questi organismi sono poco resistenti alle
sostanze tossiche. Altri INVERTEBRATI come nematodi, oligocheti, aracnidi,
efemerotteri, plecotteri, coleotteri, megalotteri, tricotteri e ditteri presentano evidenze di
bioaccumulo, ma la loro sensibilità alle concentrazioni elevate rende difficile stabilire
una correlazione fra il contenuto nell’organismo e la contaminazione dell’acqua.
Esistono inoltre meccanismi di arresto dell’accumulo dei metalli pesanti e delle
variazioni importanti nella risposta legate allo stadio di sviluppo.
Gli svantaggi legati all’uso di animali acquatici nel monitoraggio degli elementi in
traccia non consentono di soddisfare i criteri di un buon bioaccumulatore, che per
definizione dev’essere resistente all’inquinamento e presentare concentrazioni
proporzionali a quelle nel mezzo ambiente. E’ raccomandabile inoltre che esso sia
stanziale e la sua risposta poco influenzabile dallo stato fisiologico o dall’età.
Un’alternativa all’uso di animali è rappresentata dai vegetali acquatici, che però non
sempre offrono migliori prestazioni. Il FITOPLANCTON ad esempio è abbondante,
ubiquitario e caratterizzato da elevati fattori di concentrazione, ha però uno sviluppo
stagionale, presenta deriva spaziale, inoltre è molto sensibile agli agenti tossici, delicato
da prelevare ed indissociabile dal particolato minerale.
Le FANEROGAME, sono essenzialmente stanziali, facili da determinare e semplici da
prelevare, ma crescono solo in ambienti poco alterati, presentano forti differenze di
accumulo interindividuali ed interspecifiche, oppure in funzione dell’organo analizzato,
e relazioni complesse e variabili a seconda dell’elemento fra la concentrazione nella
pianta e quella nel sedimento o nell’acqua.
Le ALGHE MACROSCOPICHE offrono numerosi vantaggi, come l’identificazione
semplice, la stanzialità, elevati fattori di concentrazione, abbondanza ed ubiquitarietà,
resistenza all’inquinamento e presenza in ambienti molto degradati, corrispondenza fra
le concentrazioni nell’organismo e quelle in acqua, ma il loro sviluppo è molto
stagionale e sono sensibili alle condizioni idrologiche.
Gli organismi migliori oggi a disposizione sono le BRIOFITE acquatiche, in quanto
presentano tutti i vantaggi in termini di semplicità di identificazione, abbondanza ed
ubiquitarietà anche in ambienti degradati, resistenza agli agenti tossici, stanzialità,
risposta d’accumulo e correlazione con le concentrazioni in acqua. In certi casi (Mersch
e Johansson, 1993) l’utilizzo combinato di briofite come Fontinalis antipyretica e
molluschi come Dreissena polymorpha ha rivelato una complementarietà dei due
biomonitor per il rilevamento di alcuni metalli come il cromo (Cr trivalente si presenta
come catione ed è accumulabile dal muschio, Cr esavalente si presenta come anione ed
è accumulabile solo dal mollusco).
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1.3. Le briofite acquatiche
Gli studi dedicati alle briofite acquatiche quali bioaccumulatori di elementi in traccia
sono oltre 300. Il loro censimento è stato da ma effettuato dopo un paziente lavoro di
trascrizione dei riferimenti bibliografici presentati nelle pubblicazioni scientifiche che
ho consultato dal 2002 ad oggi. Un elenco dettagliato è disponibile all’indirizzo internet
www.infinito.it/utenti/moss-bags/references.
Si riportano di seguito alcune informazioni per inquadrare le briofite acquatiche e le
loro potenzialità nel settore dell’ecologia applicata.
Caratteristiche biologiche e fisiologiche
Tradizionalmente, la divisione Bryophyta (briofite) viene suddivisa in tre classi:
Bryopsida, a cui appartengono tutte le specie di muschi, Anthocerotopsida, che include
le antocerote, e Marchantiopsida, le epatiche. Recenti scoperte biomolecolari hanno
provato che il gruppo Bryophyta è parafiletico. Per questo motivo le tre classi sono state
elevate ciascuna al rango di divisione: Bryophita (nel nuovo senso), Anthocerotophyta e
Marchantiophyta. Quindi, secondo la moderna classificazione, la divisione Bryophyta è
costituita dalle sole specie di muschi e la classe Bryopsida ne rappresenta oggi solo una
parte e non più la totalità.
In questo lavoro si farà riferimento prevalentemente a muschi e marginalmente ad
alcune epatiche fogliose, entrambi utilizzati come bioaccumulatori in ambiente
acquatico, perciò il termine briofite verrà utilizzato nel vecchio senso. Questi organismi
hanno una struttura anatomica in apparenza molto simile alle piante superiori: il tallo si
sviluppa in fusticini, i cauloidi, che si ancorano al substrato per mezzo di rizoidi
filamentosi e presentano strutture laminari, i filloidi, costituite da uno o pochi strati di
cellule deputate allo scambio di gas ed elementi nutritivi. Si riproducono sia per via
sessuata, il cui successo è fortemente limitato dalla dispersione dei gameti nell’acqua
corrente, sia per via asessuata, mediante propaguli. (Strasburger, 1995).
Le briofite acquatiche sono incapaci di utilizzare i bicarbonati come fonte di
CARBONIO per la fotosintesi, perciò si avvalgono solamente della CO
2
disciolta
(Steemann Nielsen, 1947; Ruttner, 1948; Lowenhaupt, 1956). La presenza di gruppi
protonati sulla parete cellulare dei muschi consente di abbassare localmente il pH del
mezzo provocando una dissociazione dei bicarbonati ed un gradiente di CO
2
, che quindi
permette la vita di questi organismi anche a pH > 8.3.
La TEMPERATURA è un fattore influente sulla crescita delle briofite acquatiche, che
presentano un optimum fra 10 e 20 °C (Dilks e Proctor, 1975; Empain, 1977; Fornwall e
Glime, 1982; Glime e Acton, 1979). Esse sono sensibili alle temperature elevate perché
la velocità della respirazione aumenta più della fotosintesi (Jackson e Volk, 1970),
alcuni enzimi importanti vengono denaturati (Fornwall e Glime, 1982) e la crescita di
periphyton sul tallo può essere nociva (Glime e Carr, 1974). Ciononostante, Carballeira
et al. (1998) hanno osservato che le risposte fisiologiche all’innalzamento della
temperatura (dalla sorgente a 16 o 34 °C) in esemplari di Fontinalis antipyretica
trapiantati per 25 giorni in fiume, pur indicando uno stress termico, sono indipendenti
dalla temperatura; il recupero dei parametri fisiologici è comunque buono dopo 10
giorni di recupero in acque più fresche.
Le basse temperature presentano meno problemi, in quanto il gelo funge da isolante e
mantiene la temperatura prossima a 0 °C: ciò consente alle cellule di mantenere una
concentrazione di ioni sufficiente ad abbassare il punto di congelamento (Glime e Vitt,
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1984). Quanto riportato si riferisce ovviamente alla condizione in cui l’organismo si
trova immerso nell’acqua, non esposto all’aria.
Le briofite acquatiche non presentano esigenze particolari per quanto riguarda la LUCE.
Contro un forte irraggiamento ultravioletto esse dispongono di pigmenti rossi che
proteggono la clorofilla e le proteine dalla distruzione (Glime, 1984), mentre la loro
adattabilità ad ambienti poco luminosi si deve alla possibilità di inibire la
fotorespirazione (Jackson e Volk, 1970).
La CONTAMINAZIONE dell’acqua è invece un fattore verso cui le briofite si rivelano
sensibili. Martinez et al. (1993) hanno osservato che la contaminazione organica
determina una diminuzione del contenuto di clorofille nei trapianti di Fontinalis
antipyretica e Brachythecium rivulare nel fiume Iregua (Spagna), confermando che in
regime di scarsità di ossigeno questi pigmenti vengono degradati a feopigmenti. Anche
l’attività sintetica e la respirazione sono risultate alterate. Ciò potrebbe dipendere anche
dallo stress fisiologico conseguente al trapianto, che è stato osservato sia nei controlli
(trapianti in acque non contaminate) che negli esposti.
La contaminazione metallica determina invece due tipi di risposta fisiologica. Il primo è
l’alterazione dei parametri di vitalità legati alla fotosintesi, come il quoziente
D665/D665a (rapporto fra le densità ottiche dell’estratto di pigmenti a 665 nm, prima e
dopo l’acidificazione con HCl) in Rhynchostegium riparioides e Fontinalis antipyretica
(Lopez e Carballeira, 1993b) oppure la concentrazione di clorofille a e b in F.
antipyretica (Yurukova e Gecheva, 2003). Il secondo tipo di risposta è la produzione di
fitochelatine e loro precursori (come il glutatione), osservata più volte in F. antipyretica
(Bruns et al., 1995; Bruns et al., 1997; Bruns et al., 2000; Bleuel et al., 2005).
L’utilizzo di alcuni parametri di attività fotosintetica, quali la percentuale di clorofille a
e b sulla massa secca, il rapporto delle clorofille a/b ed i rapporti D665/D665a e
D430/D665, è stato sperimentato da Lopez e Carballeira (1991) per definire 4 classi di
qualità “ecofisiologica” di alcune briofite. Questa si è rivelata indicatrice del grado di
contaminazione organica e/o metallica dell’acqua.
La sensibilità delle briofite verso alcuni fattori chimici o fisici di alterazione ambientale
può dunque essere sfruttata come principio di bioindicazione, anche con un approccio
floristico. Esiste a questo proposito una serie di studi condotti principalmente in Belgio
(Thiebaut et al., 1998; Vanderpoorten e Palm, 1998; Vanderpoorten, 1999;
Vanderpoorten e Klein, 2000; Vanderpoorten e Palm, 2001; Thiebaut et al., 2002).
Altri fattori responsabili di alterazioni fisiologiche delle briofite sono le radiazioni UV-
B, che determinano un decremento della concentrazione di clorofille e carotenoidi, del
rapporto delle clorofille a/b, del tasso clorofille/feopigmenti e dell’attività fotosintetica
in Fontinalis antipyretica (Martinez et al., 2003), a differenza delle UV-A che non
hanno effetti biologici. I solfati hanno un effetto tossico su Fontinalis antipyretica,
determinando una diminuzione della lunghezza degli apici vegetativi, del peso e delle
concentrazioni di clorofilla a e b (Davies, 2007).
Caratteristiche ecologiche
Le briofite acquatiche crescono in biotopi alquanto diversificati dal punto di vista
chimico, poiché le loro limitate esigenze fisiologiche consentono di tollerare condizioni
di inquinamento di varia natura. Sono infatti fra gli organismi acquatici più tolleranti
per quanto riguarda i nutrienti ma anche le sostanze tossiche, sebbene alcune specie
siano più sensibili di altre. Ciò contribuisce largamente all’ampiezza ecologica di questi
vegetali. La loro sopravvivenza dipende però da alcuni fattori fisici, che possono
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diventare limitanti. Il primo di questi è la presenza di un SUBSTRATO stabile su cui
svilupparsi: questo può essere rappresentato da rocce o sassi, radici di alberi e
manufatti, ma non da supporti d’acciaio, calcestruzzo integro, rive terrose o ghiaiose di
corsi d’acqua (Mouvet, 1986).
La velocità della CORRENTE non è un fattore limitante di per sè, in quanto si trovano
muschi acquatici tanto nei fiumi quanto nei laghi, ma può provocare l’abrasione del
tallo od incrementare la torbidità dell’acqua riducendo la disponibilità luce (Lewis,
1973). Le fluttuazioni di LIVELLO dell’acqua influenzano la ripartizione ecologica
delle briofite acquatiche, che si distribuiscono essenzialmente nella zona di battente,
fino ad una profondità di 60 cm.
Le briofite offrono inoltre la straordinaria possibilità di essere facilmente trapiantate da
un corso d’acqua all’altro (vd. paragrafo 1.6).
1.4. Bioaccumulo nelle briofite acquatiche
Le briofite sono praticamente prive di sistemi vascolari di conduzione e prelevano i
nutrienti dal mezzo acquoso per assorbimento attraverso la superficie del tallo. Le loro
pareti cellulari sono ricche di cellulosa, pectine, emicellulose, proteine, fenoli, ed
espongono gruppi chimici carichi negativamente che si legano ai micronutrienti in
forma di cationi. Anche l’ossigeno, l’azoto e lo zolfo delle proteine contribuiscono alla
complessazione dei cationi (Clymo, 1963; Breuer e Melzer, 1990; Brown e Bates,
1990). Questi siti di legame non sono né quantitativamente né qualitativamente selettivi,
perciò non distinguono elementi essenziali da elementi tossici (Haseloff e Winkler,
1980; Mouvet, 1984b; Brown e Wells, 1990), verso cui le briofite sono estremamente
resistenti.
Meccanismi e cinetiche di accumulo
L’accumulo di un elemento è funzione innanzitutto della sua concentrazione nel mezzo
e dell’affinità per i siti di legame del bioaccumulatore. Le interazioni elettrostatiche che
si generano fra cationi e siti di legame sono però reversibili, quindi si può avere la
sostituzione di un elemento con un altro. Ecco perché si parla anche di SITI DI
SCAMBIO ionico (Clymo, 1963).
Il bioaccumulo avviene attraverso due diversi meccanismi, che coinvolgono altrettanti
comparti cellulari ben distinti (Mouvet e Claveri, 1999; Vazquez et al., 1999b; Martins
e Boaventura, 2002; Bleuel et al., 2005; Fernandez et al., 2006). Il primo di essi è
l’ADSORBIMENTO, ovvero un fenomeno rapido e passivo di adesione che si verifica
sulla superficie esterna della parete cellulare Lo stato fisiologico della pianta sembra
non avere rilevanza significativa sulla capacità di accumulo in questa fase.
Dopo un periodo variabile da qualche ora a qualche giorno viene raggiunto un plateau
d’equilibrio che determina un forte rallentamento dell’accumulo, ma non il suo arresto.
Ciò indica l’attivazione del secondo meccanismo di accumulo, l’ABSORBIMENTO,
per cui gli elementi migrano lentamente all’interno della cellula grazie a sistemi di
trasporto attivo. In questa fase la fisiologia della briofita e la tossicità di ciascun
elemento giocano un ruolo chiave.
Vi è poi un terzo meccanismo di accumulo, anch’esso passivo, rappresentato dalla
PRECIPITAZIONE di elementi come Al, Fe e Mn come composti ossigenati sulla
superficie esterna della parete cellulare. Questi si presentano come depositi circolari
distribuiti in modo irregolare sulla superficie della foglia, secondo quanto osservato da
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Sergio et al. (1992, 2000) mediante microscopia elettronica a scansione (SEM). Il
deposito di questi composti, poco o per nulla reversibile, incrementerebbe anche
l’accumulo di altri elementi innescando fenomeni cumulativi di coprecipitazione. La
formazione progressiva di queste concrezioni è probabilmente responsabile
dell’aumento di concentrazione dagli apici, più giovani, alle parti basali del tallo, più
vecchie. (Wehr e Whitton, 1983a; Wehr et al., 1983; Bruns et al., 1995; Siebert et al.,
1996).
Variabili influenti
La concentrazione di un elemento in acqua ed il tempo di contatto del bioaccumulatore
con il mezzo ambiente non sono gli unici fattori determinanti l’entità dell’accumulo.
Poiché i siti di scambio sono caratterizzati dalla reversibilità dei legami, l’equilibrio che
si instaura è il frutto delle interazioni di numerosi elementi (ciascuno con le proprie
affinità e concentrazione) e dell’influenza di alcuni fattori chimici o fisiologici. I
risultati di diversi studi hanno fatto supporre oppure dimostrato l’esistenza di tali
fenomeni. I fattori che possono o potrebbero influire sulla capacità di accumulo delle
briofite sono:
• posizione del muschio autoctono rispetto al centro del fiume, che si riflette in una
maggiore o minore esposizione ai contaminanti in acqua nel periodi di magra
(Nimis et al., 2002)
• variazioni periodiche riconducibili al ciclo vegetativo del gametofito, a fluttuazioni
della composizione chimica dell’acqua (Nunez et al., 2001), oppure ad eventi non
stagionali (Wehr e Whitton, 1983b)
• temperatura, a volte responsabile di effetti significativi sull’accumulo di metalli in
laboratorio (Pickering and Puia 1969; Vray et al. 1992), a volte no (Claveri and
Mouvet 1995)
• durezza dell’acqua (Gagnon et al., 1998), salinità (Rasmussen e Andersen, 1999) e
concentrazione di altri cationi od agenti chelanti (Wehr et al. 1987)
• fosfati, ammoni, nitrati e solfati nell’acqua (Wehr e Whitton, 1983a: R. riparioides
in 105 siti in Inghilterra; Lopez e Carballeira, 1991: 170 campioni di cinque briofite
in Spagna)
• pH, in quanto da esso dipendono la speciazione chimica di alcuni metalli (come Al),
la loro mobilizzazione da suolo e sedimenti, la loro biodisponibilità, infine la
concentrazione di protoni che possono competere per i siti di legame della parete
cellulare (Claveri et al., 1993; Mersch et al., 1993c; Claveri et al., 1995; Engleman
e McDiffett, 1996; Cenci, 2000; Vazquez et al., 2000; Fernandez et al., 2006);
l’abbassamento del pH determina variazioni della capacità di accumulo sia in
positivo che in negativo, a seconda dell’elemento
L’influenza del pH sulla concentrazione di Cd, in particolare, è stata sfruttata per
monitorare episodi di acidificazione sporadica secondo il principio seguente: il rilascio
di Cd nel muschio Fontinalis antipyretica, saturato con soluzioni standard di metallo in
laboratorio, è direttamente proporzionale all’acidità dell’acqua ed indipendente dalla
concentrazione di Al, un metallo tipicamente mobilizzato in queste circostanze
(Carballeira et al., 2001).
Sebbene la contaminazione metallica induca spesso stress fisiologico in diverse specie
di briofite (paragrafo 1.3), questa alterazione della vitalità non sembra influire sulla
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capacità di accumulo di Cinclidotus danubicus, Fontinalis antipiretica e
Rhynchostegium riparioides (Mersch e Reichard, 1998).
Significato dell’indicazione
Mentre negli studi di laboratorio la concentrazione nella pianta è strettamente correlata a
quella nel mezzo, in quanto diversi fattori sperimentali sono mantenuti costanti nel
corso di ciascuna prova, in campo la briofita è esposta a condizioni mutevoli ed
incontrollabili: la stessa concentrazione degli elementi in traccia o la loro
biodisponibilità possono fluttuare enormemente. In queste situazioni, fra pianta ed
acqua si instaura un equilibrio dinamico che oscilla tra fasi di accumulo e di rilascio.
Nel momento in cui l’operatore preleva la briofita, interviene in corrispondenza di una
di queste fasi, necessariamente sconosciuta, ricavando non tanto una misura oggettiva
(strumentale), bensì un’INDICAZIONE del fenomeno (Mouvet, 1986).
Il rischio di perdere l’indicazione di un fenomeno verificatosi precocemente rispetto al
momento del prelievo, a causa del totale rilascio dell’elemento dopo l’accumulo
iniziale, esiste ma è contrastato dall’EFFETTO MEMORIA della cellula (Mouvet e
Claveri, 1999). Questa traccia indelebile è costituita dalla frazione intracellulare di
metallo, accumulata durante l’evento di contaminazione e rilasciata in fase di
depurazione con una cinetica molto lenta e non del tutto reversibile. La risposta delle
briofite è dunque integrata nel tempo e contraddistinta da una notevole inerzia. Questo
le rende ottimi indicatori dello stato d’alterazione medio dei corsi d’acqua.
1.5. Biomonitoraggio con briofite acquatiche
Dopo le prime esperienze con muschi acquatici condotte in Belgio da Empain (1973a-b,
1976, 1977, 1978), l’Università francese di Metz ha avviato importanti collaborazioni
con il Ministero dell’Ambiente ed alcune Agenzie dell’Acqua (o di Bacino) per
formulare delle linee guida sull’utilizzo di briofite autoctone e trapiantate come
biomonitor della contaminazione da metalli in traccia, radionuclidi e composti organici
nelle acque superficiali. Le attività di ricerca nell’ambito di questa collaborazione, così
come in contesti indipendenti, hanno prodotto una quantità rilevante di pubblicazioni in
forma di rapporti tecnici, tesi accademiche ed articoli scientifici (Kirchmann e
Lambinon, 1973; Mouvet, 1978; Mouvet, 1979; Empain et al., 1980; Mouvet, 1980;
Mouvet, 1983a-b; Mouvet, 1984a-b-c; Mouvet, 1985; Mouvet et al., 1985a-b-c-d;
Mouvet, 1986; Mouvet et al., 1986a-b-c; André e Lascombe, 1987; Mouvet, 1987;
Mouvet, 1989; Baudin et al., 1991; Mersch e Johansson, 1993; Mersch e Pihan, 1993;
Mersch et al., 1993a-b-c; Mouvet et al., 1993; Claveri et al., 1994; Mouvet, 1994;
Mersch e Kass, 1994; Claveri, 1995; Claveri e Mouvet, 1995; Claveri et al., 1995;
Claveri e Mersch, 1997; Mersch e Claveri, 1998; Mersch e Reichard, 1998; Delépée e
Pouliquen, 2002). Si tratta di studi condotti sia in laboratorio che in campo utilizzando
briofite autoctone o trapiantate.
In particolare, le citazioni marcate con sottolineatura si riferiscono a preziose sintesi
metodologiche delle fasi procedurali, analitiche ed applicative del metodo, basate sulle
conoscenze prodotte dai ricercatori di tutto il mondo. Questi lavori propongono le prime
ed uniche griglie di qualità per l’interpretazione di indici di contaminazione basati
sull’utilizzo di briofite come bioaccumulatori di elementi in traccia. Esse fanno però
riferimento a concentrazioni misurate in talli interi di diverse specie di muschi autoctoni
e questi dati provengono da campagne di raccolta effettuate in diversi Paesi, come
Belgio (Descy e Empain, 1981), Inghilterra settentrionale (Wehr, 1983) e Francia
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(Mouvet, 1983a, 1984c; Mouvet et al., 1986b). Possono comunque servire agli studi di
monitoraggio con trapianti, se questi sono condotti nelle medesime aree di studio.
Altre campagne di raccolta ed analisi di briofite autoctone, finalizzate al monitoraggio
degli elementi in traccia oppure all’approfondimento di alcuni aspetti fisiologici del
muschio, si sono svolte in Bulgaria (Yurukova e Gecheva, 2003; Yurukova e Gecheva,
2004), Francia - Germania - Svizzera (Siebert et al., 1996; Samecka-Cymerman e
Kempers, 1998; Samecka-Cymerman e Kempers, 1999; Samecka-Cymerman et al.,
2002), Inghilterra (Wehr e Whitton, 1983a-b), Italia (Nimis et al., 2002), Polonia -
Repubblica Ceca (Žáková e Kočková, 1999; Samecka-Cymerman et al., 2000; Vazquez
et al., 2004; Samecka-Cymerman et al., 2005; Samecka-Cymerman et al., 2007) Spagna
(Lopez e Carballeira, 1991; Lopez e Carballeira, 1993a-b; Carballeira e Lopez, 1997;
Garcia et al., 2000; Nunez et al., 2001), talvolta in contesti particolari, come corsi
d’acqua acidificati in Giappone (Satake, 2000), Inghilterra (Vincent et al., 2001), Nuova
Zelanda (Winterbourn et al., 2000), USA (Engleman e McDiffett, 1996), Svezia
(Lithner et al., 1995). Esistono inoltre alcune review che riassumono i contenuti dei
principali lavori in letteratura (Burton, 1990; Tyler, 1990; Whitton, comunicazione
personale).
I limiti dell’utilizzo di esemplari autoctoni evidenziati dagli autori sono
• l’inapplicabilità ai tratti di fiume in cui la specie o le specie ricercate sono assenti
oppure si presentano non adatte alle analisi (deteriorate, emerse dall’acqua, etc.)
• un’esposizione ai contaminanti non riferibile ad un tempo certo (quindi
l’impossibilità di distinguere fra eventi recenti o pregressi, cronici od intermittenti)
• problemi di comparazione dei dati ottenuti da specie differenti (con diverse capacità
di accumulo)
• concentrazioni non riferite a porzioni standard di tallo (come ad esempio gli apici,
più giovani e maggiormente indicativi di episodi di contaminazione recenti) ma
all’intero esemplare (comprese quindi le porzioni più vecchie, soggette a
deposizione di composti metallici ossigenati)
1.6. La tecnica dei moss bags
Una soluzione a questi problemi è rappresentata dall’utilizzo di MOSS BAGS, cioè
muschi trapiantati da un corso d’acqua non contaminato all’area di studio mediante
appositi sacchetti. In questo modo
• è possibile monitorare anche i corsi d’acqua privi di briofite autoctone, purché vi sia
la possibilità di ancorare il supporto per il mantenimento dei sacchetti in
immersione
• la risposta del muschio è riferita ad un tempo di esposizione certo, con la possibilità
di caratterizzare eventi di contaminazione cronici, sporadici od intermittenti
• viene utilizzata un’unica specie di briofita, solitamente un muschio acquatico del
genere Rhynchostegium o Fontinalis, con la possibilità di comparare dati ottenuti in
tempi e luoghi diversi
• è convenzione utilizzare solo le parti apicali del tallo, ossia le più giovani, le cui
concentrazioni sono maggiormente correlabili a quelle in acqua
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Gli oneri per la realizzazione di uno studio di biomonitoraggio con briofite acquatiche,
siano esse autoctone (sorveglianza passiva) che trapiantate (sorveglianza attiva), non
sono significativamente superiori a quelli di una tradizionale campagna di raccolta ed
analisi dei campioni d’acqua, in quanto:
• il costo del materiale per la realizzazione di una stazione moss bags è irrisorio
(all’incirca 2-3 Euro)
• gli operatori sul campo ed i mezzi di trasporto impegnati sono gli stessi (basta una
sola persona automunita)
• le spese connesse agli spostamenti (carburante, vitto ed eventualmente alloggio) ed
il tempo impiegato a realizzare gli interventi sono le stesse
• il muschio da sottoporre ad analisi, a differenza del campione d’acqua, richiede
alcuni trattamenti preliminari, come pulizia, spuntatura, essiccamento, pesatura e
mineralizzazione (capitolo 2) che incidono relativamente poco sul tempo ed i costi
• l’analisi del campione d’acqua o di muschio mineralizzato si esegue negli stessi
tempi e con le stesse metodiche (assorbimento atomico); non necessariamente con
le stesse tecniche strumentali, proprio perché le elevate concentrazioni accumulate
possono essere rilevate con strumentazioni disponibili in ogni laboratorio.
L’elaborazione dei dati ottenuti con i moss bags può essere invece un’operazione
impegnativa, ma ciò è legato alla mole di informazioni ricavabili: non più valori
prossimi od inferiori alla soglia di rilevabilità, come nel caso dei campioni d’acqua, ma
dati ad alto contenuto d’informazione.
La tecnica dei moss bags è stata utilizzata con successo in diversi Paesi del mondo, per
studi di monitoraggio ambientale ed investigazioni presso siti inquinati (Kelly et al.,
1987; Mersch e Johansson, 1993; Mersch e Reichard, 1998; Rasmussen e Andersen,
1999; Cenci, 2000; Lee et al., 2002; Yurukova e Gecheva, 2003; Figueira e Ribeiro,
2005; Samecka-Cymerman et al., 2005; Cesa et al., 2006; Cesa et al., in stampa 2), per
monitorare la presenza e biodisponibilità di metalli in corsi d’acqua acidificati (Claveri
et al., 1993; Mersch et al., 1993c; Claveri et al., 1995; Vazquez et al., 2000; Fernandez
et al., 2006) e per studi sulle cinetiche d’accumulo e la fisiologia del muschio in campo
(Wehr et al., 1987; Lopez e Carballeira, 1993b; Martinez et al., 1993; Bruns et al.,
1995; Bruns et al., 1997; Carballeira et al., 2001; Yurukova e Gecheva, 2004) oppure in
laboratorio (Claveri e Mouvet, 1995; Carballeira et al., 1998; Gagnon et al., 1998;
Mouvet e Claveri, 1999; Vazquez et al., 1999a-b; Cenci, 2000; Martins e Boaventura,
2002; Martinez et al., 2003; Nunez et al., 2004; Bleuel et al., 2005; Davies, 2007).
Trapianti di briofite sono stati anche utilizzati per il monitoraggio di radionuclidi
(Mersch e Kass, 1994) ed idrocarburi policiclici aromatici (Roy et al., 1994, 1996).
Il filone anglo-francese si è dedicato principalmente allo studio delle cinetiche di
accumulo in laboratorio ed in campo, spesso con azioni di sorveglianza ambientale che,
per quanto riguarda i muschi autoctoni, hanno assunto una portata notevole. Un
approccio simile è seguito tuttora nell’Europa dell’est. La scuola iberica, pur
mantenendo un certo interesse per il monitoraggio ambientale e per i meccanismi di
bioaccumulo, si è recentemente specializzato sulla fisiologia dei muschi e sui fattori
biologici connessi all’assorbimento o rilascio di metalli. In quest’ultimo ambito si sono
mossi anche diversi autori tedeschi.
Fra tutti i lavori svolti con briofite trapiantate non esistono ad oggi né piani di
biomonitoraggio su larga scala (10-15 stazioni al massimo), né indici di alterazione
ambientale specifici per moss bags.
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1.7. Obiettivi del lavoro
Il Veneto è una regione caratterizzata da notevoli variazioni dell’ambiente fisico, dalle
Alpi al mare, ed interessata da un notevole sviluppo urbano ed industriale. La regione
presenta criticità ambientali, per quanto riguarda i metalli ed altri elementi in traccia
nelle acque, rappresentate dalla distribuzione sparsa e spesso non censita delle fonti di
emissione (scarichi), dalla promiscuità del tessuto urbano (fenomeno della città diffusa,
ossia compresenza di abitazioni, piccole industrie e campagne) e da una cultura di tutela
dell’ambiente e della salute ancora poco sviluppata. Tali criticità hanno determinato e
tuttora determinano episodi di contaminazione del suolo, dei corsi d’acqua e persino
delle falde.
Negli ultimi anni, i risultati di alcune esperienze con briofite acquatiche nel bacino del
fiume Brenta (Nimis et al., 2002; Cesa, 2003) hanno motivato la Provincia di Vicenza,
l’Agenzia per la Prevenzione e Protezione Ambientale del Veneto (ARPAV) e le
Autorità d’Ambito Territoriale Ottimale (AATO) di Bacchiglione e Brenta a stipulare
una convenzione (Università di Trieste, 2005) con il Dipartimento di Biologia
dell’Università di Trieste per finanziare il presente dottorato di ricerca.
Si è potuto così pianificare e realizzare il Progetto Vicenza Moss Bags, i cui obiettivi
sono qui di seguito riportati:
I. individuazione di buone pratiche per l’utilizzo ed il trattamento dei muschi,
l’analisi dei campioni e l’elaborazione dei dati
II. valutazione del ruolo di alcune variabili chimiche e fisiche che condizionano i
processi di accumulo nel muschio
III. messa appunto di un sistema di raccolta e trapianto del muschio,
predisposizione e svolgimento di un piano di monitoraggio ambientale per i
principali corsi d’acqua dell’area di studio
IV. definizione e calibrazione di un indice di contaminazione da elementi in
traccia ed elaborazione di mappe di alterazione ambientale
Sede operativa e di coordinamento di tutte le attività: il laboratorio ARPAV di Bassano
del Grappa in via Cereria n° 15.
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2. ASPETTI METODOLOGICI
Lo sviluppo dell’obiettivo I ha occupato l’intero periodo di lavoro (3 anni), con l’intento
di apportare continui miglioramenti ai protocolli di utilizzo dei muschi e di trattamento
e analisi dei campioni. Le scelte dei materiali e metodi migliori, fra quelli a
disposizione, è stata fatta sulla base di quanto consigliato dagli specialisti più autorevoli
in materia ed attraverso esperienze personali. La verifica della qualità del dato è stata
invece affidata ad un sistema di controllo certificato. Gran parte delle metodiche qui
discusse fanno riferimento alle linee guida francesi per l’utilizzo di briofite acquatiche
(Mouvet, 1986; Mersch e Claveri, 1998).
2.1. Protocollo di utilizzo dei muschi
Questo primo paragrafo è dedicato alla ricerca di materiali e metodi propedeutici alle
sperimentazioni.
Scelta della specie
L’individuazione di una precisa specie di muschio da utilizzare negli studi di
biomonitoraggio in campo, così come nei test di bioaccumulo in laboratorio, è questione
delicata e di enorme importanza. Poiché i risultati di uno studio devono essere
comparabili fra loro nello spazio e nel tempo, è ovvio che lo sperimentatore dovrà
utilizzare la stessa specie di muschio per i lavori che intende porre a confronto, pur
ammettendo l’ampia variabilità di risposta che presenta uno stesso organismo in diversi
ambienti di permanenza. E’ noto infatti che specie differenti di briofite presentano
differenti capacità di accumulo, sia in campo che in laboratorio (Kelly et al., 1987;
Lopez e Carballeira, 1993a-b; Carballeira e Lopez, 1997; Mersch e Reichard, 1998;
Vazquez et al., 1999b; Samecka-Cymerman et al., 2002; Bleuel et al., 2005).
Un altro fattore che orienta la scelta della specie è la sua reperibilità ed abbondanza. Lo
sperimentatore deve poter trovare muschio adatto ai propri studi in quantità sufficienti
ed in un luogo (preferibilmente sempre lo stesso) agevole da raggiungere.
Un ulteriore fattore è la disponibilità di dati in letteratura, quindi la possibilità di
confrontarsi con altri autori. I muschi acquatici maggiormente studiati ed impiegati
come bioaccumulatori di elementi in traccia sono Rhynchostegium riparioides e
Fontinalis antipyretica. Essi presentano un’ampia distribuzione geografica, una capacità
di accumulo abbastanza simile e sono semplici da identificare (Empain et al., 1980;
Wehr et al., 1983; Lopez e Carballeira, 1993a; André e Lascombe, 1987). Le specie del
genere Cinclidotus possono rappresentare un’alternativa in mancanza delle specie
precedentemente citate, poiché sono abbastanza diffuse, ma si tratta di muschi più
difficili da determinare a livello di specie e dotati di capacità d’accumulo più limitata
(Mouvet, 1987; Lopez e Carballeira, 1993a; Mersch e Reichard, 1998).
Si riportano di seguito alcune informazioni ecologiche e sistematiche di queste specie,
tratte dalla lista dei muschi italiani secondo Cortini Pedrotti (1986, 1996):
• Rhynchostegium riparioides (Hedw.) C. E. O. Jensen è una specie igro-idrofila della
famiglia Brachytheciaceae, sassicola, da mediamente acidofila a neutrofila e diffusa
ampiamente nelle zone temperate (Figura 1). Sinonimi: Hypnum riparioides Hedw.;
Hypnum rusciforme Weiss ex Brid.; Oxyrrhynchium rusciforme (Neck.) Warnst.;
Platyhypnidium riparioides (Hedw.) Dix.; Platyhypnidium rusciforme (Hedw.)
Podp.; Rhynchostegium rusciforme (Neck.) Br. eur.