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INTRODUZIONE
Negli ultimi anni più che mai, dopo l’avvento dei social e delle logiche comunicative ad essi
associate, è possibile notare la presenza di una serie di concetti quali la convergenza dei media,
la multimedialità e la comunicazione transmediale come strategie usate dalle corporations o
dallo stato per attirare l’attenzione o sponsorizzare determinati prodotti. Nello specifico, questa
tesi si propone di analizzare l’intersezione di tali concetti nel medium che per eccellenza ha
avuto un impatto sempre più rilevante negli ultimi anni, passando dall’essere visto come futile
e da “nerd” ad essere leader di mercato e pioniere di nuove tecnologie: il videogioco.
La cultura convergente è definita da Henry Jenkins come un processo dinamico attraverso il
quale vari media convergono ed interagiscono, integrandosi e dando origine a nuove forme di
espressione culturale. È possibile notare questo tipo di intersezione nei videogiochi che
utilizzano in modo sinergico elementi provenienti dal cinema, dalla letteratura, dalla musica e
dall’arte, affermandosi come un medium poliedrico ed interdisciplinare che più di tutti soddisfa
uno dei bisogni primari dell’uomo, quello del ‘ludus’.
Citando Baricco però, «un fatto non è niente senza narrazione, non è reale». Diventa realtà solo
se al fatto, che in questo caso è il videogioco, si aggiunge una narrazione, uno storytelling. Il
videogioco è divenuto realtà anche grazie alla sfida lanciata ai videogiocatori di riuscire a
completarlo, attestandone la propria bravura rispetto agli altri giocatori. Nel corso del tempo il
videogioco si è evoluto fino a farsi veicolo di messaggi più profondi in cui l’elemento cruciale
della narrazione rappresenta dunque una parte fondamentale dell’esperienza videoludica, in
quanto necessario per ricreare una realtà diversa dalla nostra e dare la possibilità di immersione
in mondi virtuali che consentano di fantasticare e di usare la creatività. Un “giocare a fare dio”
tramite un mezzo che di per sé incarna l’elemento ludico dei dadi di Einstein, eliminandone la
componente probabilistica.
In questa tesi si evidenzierà com’è possibile fare narrazione lasciando raccontare
esclusivamente l’ambiente di gioco, senza aggiungere alcuna parola. Un concetto espresso
tramite il visual storytelling, ampiamente utilizzato nei videogiochi moderni tramite l’uso del
level design, che sempre di più fa leva sulla cultura pregressa del videogiocatore per mandare
un messaggio fra le righe o promuovere un pezzo di storia che altrimenti andrebbe perduto in
un’era di continui cambi di moda e di linguaggio.
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1. IL POTENZIALE MULTIMEDIALE: DEFINIZIONE E CONTESTO
La multimedialità oggi rappresenta un concetto fondamentale nella comunicazione
contemporanea. Si riferisce alla capacità di integrare diversi tipi di media in un unico prodotto
comunicativo. Ma che cosa sono i media?
Lisa Gitelman, storica in ambito della comunicazione, li definisce come tecnologie che ci
consentono di comunicare, ma anche come quell’insieme di regole che crescono attorno ad una
data tecnologia e dove la comunicazione è intesa come pratica culturale (Gitelman, 2006). I
nuovi media però non sono privi di difetti ed è necessario, perciò, esserne a conoscenza. Uno
di essi è il digital divide, che porta ad un divario fra gli individui che possono effettivamente
accedere a queste tecnologie e chi non può. Certo è che se si va oltre questo aspetto, molti sono
i lati positivi dei nuovi media: innovativi, interattivi, quotidiani, partecipativi, generazionali,
internazionali. Un altro pericolo dei nuovi media da cui mettere in guardia, prima di entrare nel
merito della multimedialità e quindi di convergenza, è quella della “Fallacia della scatola
nera”, teorizzata da H. Jenkins in “Cultura Convergente”, per cui: «Presto o tardi, secondo
questa teoria, tutti i contenuti mediatici passeranno attraverso un’unica scatola nera situata
nei nostri soggiorni (oppure, in uno scenario mobile, attraverso scatole nere trasportabili).»
(Jenkins, "La fallacia della scatola nera", 2007). Questo concetto porta ad immaginare un futuro
in cui molti mercati moriranno perché rimpiazzati da un unico dispositivo capace di fare
qualsiasi cosa. Il concetto è attuale più che mai vista la rapida evoluzione delle intelligenze
artificiali, che rappresentano effettivamente una tecnologia in grado di essere integrata nella
‘scatola nera’ di cui parla Jenkins e che già adesso è in grado di generare dei medium (immagini,
audio, testi scritti) da un unico input.
La multimedialità è quindi il termine generale da cui parte tutto il resto, se si usano più media
per veicolare un messaggio comune, si converge verso quel significato e lo si diffonde il più
possibile utilizzando tecniche che funzionano particolarmente bene in quest’ottica, come la
narrazione transmediale, attivatore culturale dell’intelligenza collettiva.
1.1. La convergenza come attivatore culturale
La convergenza è prima di tutto un processo discendente perché guidato dalle aziende verso i
consumatori, ma allo stesso tempo ha una dinamica ascendente perché guidata dai consumatori
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verso le aziende. Un esempio pratico di questo processo è il programma “Grande Fratello”,
progettato appositamente per essere discusso dai consumatori e che stimola la convergenza
mediante l’uso del ‘gossip’ su riviste specializzate, programmi tv e social media.
Questa dinamica può essere vista come “l’azienda che accende la miccia” ed è il consumatore
che decide se alimentarne o spegnerne il fuoco. Ciò che determina una scelta rispetto all’altra è
l’impatto del prodotto sul consumatore (come categoria) ad un livello emotivo. Il modo migliore
per fare ciò è la creazione di una community, ovvero di un gruppo di persone che condividono
interessi comuni e che discutono di un dato argomento. Questa discussione stimola un processo
sociale che è quello dell’acquisizione e della condivisione di informazioni.
Pierre Levy, filosofo francese specializzato nella cybercultura, distingue fra sapere condiviso
in cui l’informazione singola è ritenuta attendibile dalla community ed intelligenza condivisa
ossia la somma delle informazioni individuali di una community (Levy, 2002). Nell’accezione
latina del termine ‘communis’, il legame che si stabilisce tra più persone di una comunità
avviene attraverso un vincolo spirituale che le unisce. Infatti, molto spesso, esistono dei veri e
propri rituali condivisi che sono fondamentali per definire il senso di appartenenza al gruppo.
Un esempio tangibile di fandom culture è la vasta community di fan di One Piece
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, organizzata
per ruoli (leakers
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, lurkers
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…) e con l’obiettivo comune di discutere dell’argomento filosofico
di one piece, fare theorycrafting
4
e trovare i numerosi foreshadowing
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lasciati dall’autore nel
corso della storia. I fan più accaniti riescono ad acquisire informazioni da fonti dirette prima
che vengano rese pubbliche, sobbarcandosi il rischio legale che ne comporta, per il solo scopo
di diffonderle nella community. L’effetto dello spoiling
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è però odiato da una parte del gruppo
che vuole arrivare a scoprire quelle informazioni con le proprie forze e che vive la lettura del
capitolo come un momento personale con l’opera, ma contemporaneamente può essere
apprezzato dall’altra parte della community che lo vede come una gratificazione immediata che
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One piece: è un manga scritto e disegnato da Eiichirō Oda, serializzato sulla rivista Weekly Shōnen Jump di
Shūeisha dal 22 luglio 1997[1].
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Leakers: infiltrato, chi consente che informazioni segrete diventino di dominio pubblico.
3
Lurkers: chi partecipa ad una community, senza però interagire. Horowitz nota come il 90% delle persone che
non producono rientrano in questa categoria di ‘guardoni’ che danno comunque valore a chi condivide un
commento.
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Theorycrafting: fare speculazioni relative ad un argomento basandosi sulle informazioni attualmente disponibili
al pubblico.
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Foreshadowing: tecnica usata nello storytelling per cui si lasciano degli accenni di informazioni nella storia che
fungono da presagi per il futuro.
6
Spoiling: anticipazione non richiesta di una storia.
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consente loro di sentirsi più vicini all’autore.
Ad un livello corporate, questa idea di community ha portato il marketing aziendale a definire
il concetto di ‘economia affettiva’, una teoria che evidenzia come la motivazione centrale nelle
scelte di acquisto dei consumatori sia il coinvolgimento emotivo nei confronti della marca. Un
coinvolgimento che però non si ferma solo alla forma del rispetto, ma nel far breccia nei cuori
dei consumatori trasformando il marchio in un “lovemark” (Roberts, 2004). La costruzione di
questo rapporto di fiducia diventa fondamentale se si considera l’applicazione al settore delle
vendite della legge di Pareto
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, per cui l’80% degli acquisti è effettuato dal 20% dei consumatori,
che non sono altro che gli apostoli della marca, distinguendosi dagli zappers e dagli occasionali.
Di conseguenza, oggi nel misurare la forza della marca, oltre ai tre parametri classici di brand
identity, brand image e brand equity, bisogna considerare in modo più attento quanto la propria
marca produca “brand evangelism
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”, ovvero degli apostoli della marca che siano fedeli e
promuovano in modo entusiastico i prodotti. Per ispirare gli apostoli è necessario che vengano
incuriositi e motivati ad esserlo e per farlo bisogna saper dosare i contenuti da condividere con
il pubblico e farlo in maniera accattivante usando lo storytelling.
1.2. Se converge si diffonde; se si diffonde ti coinvolge
Nel momento in cui le corporation condividono del materiale, si innesca il processo di
convergenza culturale ed inizia la fase in cui il pubblico riceve le informazioni e partecipa più
o meno attivamente alla loro diffusione. Il motivo della partecipazione è da ricercarsi
nell’economia affettiva sopracitata, mentre la cultura partecipativa vera e propria porta a
ragionare su tre concetti che hanno iniziato a verificarsi con molta più intensità negli ultimi
decenni, grazie all’avvento dei social. Prima di ciò era impossibile condividere contenuti
tramite intermediari grassroot
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a causa della natura broadcast dei media caldi
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di un tempo,
dove non c’era convergenza culturale.
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Legge di Pareto: teoria sviluppata nel 1896 da Vilfredo Pareto, un’economista italiano. È conosciuta anche con
il nome di “Regola 80/20”.
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Brand evangelism: il primo a parlare di evangelismo come concetto associabile al marketing della marca è Guy
Kawasaki nel 1984, quando lavorava come responsabile marketing alla divisione Macintosh di Apple, definendosi
lui stesso un evangelista di Apple. Oggi lavora come ‘chief evangelist’ presso Canva.
9
Intermediari Grassroot: partecipanti indipendenti che dal basso direzionano il flusso di contenuti.
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Media caldi: si riferisce alla definizione data da H. M. Mcluhan in "Capire i media. Gli strumenti del
comunicare".
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Il primo concetto è quello della diffondibilità, che si riferisce a quegli strumenti tecnici che
facilitano la distribuzione di specifici tipi di materiali. Le caratteristiche della diffondibilità
sono:
➢ la partecipazione aperta (intesa come cultura partecipativa),
➢ facilità di condivisione,
➢ una collaborazione indipendente in cui produttori e audience si confondono,
➢ la possibilità per attori non ufficiali di diventare alfieri della marca.
La particolarità è che la diffondibilità non avviene esclusivamente su larga scala, ma può
verificarsi anche nelle nicchie grazie all’esperienza diversificata. Lo scambio fra i media crea
relazione, per questo le aziende devono creare degli spazi autentici e trasparenti in cui far
avvenire questo scambio.
Il secondo concetto è quello della ‘stickness’ (o fattore presa), teorizzato dall’autore e
giornalista canadese M. Gladwell, che si riferisce alla necessità di creare contenuti che attirino
l’attenzione dell’audience: «Esiste un modo semplice di confezionare l’informazione che, sotto
le giuste circostanze, può renderla irresistibile. Tutto ciò che bisogna fare è trovarlo.»
(Gladwell, 2000). La ‘stickness’ è uno dei ‘tre agenti del cambiamento’ teorizzati da Gladwell.
Gli altri due sono il potere del contesto, cioè la capacità di usare la pressione sociale di un
gruppo al fine di far comportare le persone in un certo modo, e la legge dei pochi: «Il successo
di un qualunque genere di epidemia sociale dipende dal coinvolgimento di persone che
dispongono di un insieme di qualità sociali estremamente particolare e raro.» (Gladwell, 2000).
Da questa citazione si evince come il coinvolgimento delle persone ritorni come l’elemento
cardine di tutta la questione della diffusione.
Il terzo concetto invece è quella della viralità. Il termine ‘virale’ restituisce l’idea di una velocità
di diffusione e di informazioni autoreplicanti, come ad esempio leggende metropolitane o
meme. Il biologo britannico Richard Dawkins introduce il termine meme associandolo all’unità
evolutiva più piccola, il gene: «Lo scambio culturale è analogo allo scambio genetico.»
(Dawkins, 1976). Lo scambio di cui parla Dawkins avviene per imitazione rendendo l’idea di
meme persuasiva ed autoreplicante. Alcuni anni dopo (1989,2006) ritornerà sulla questione
notando come l’idea stessa di meme si sia propagata in un modo “memelike” (Jenkins, Ford, &
Green, "Spreadable Media: Creating Value and Meaning in a Networked Culture", 2013). I
meme sono poi la massima espressione della “Remix Culture”, la cui caratteristica distintiva,
che sta alla base della natura stessa dei meme, è quella di poter essere continuamente