L’uomo quindi “pensa” i propri animali; a tale proposito
sono significative le parole di Manganelli, uno tra gli scrittori
più recenti della nostra letteratura a dare un posto importante
alla presenza animale: “che un animale si vesta di selva, di
steppa, di autunno, di sole, di incendio, di ginestra, di pus: e
che questo animale conservi intatta la sua fame, e insieme la
distrazione della fame. Tutto ciò lo fa degno che lo pensi”
.
Cosa succede, quindi, allorché l’animale buono da
pensare entra nel testo di uno scrittore del nostro secolo? Per
comprendere il senso di questa presenza nella dimensione del
Novecento abbiamo scelto di analizzare le opere di tre scrittori
della nostra letteratura moderna, che hanno dato un posto
molto importante, nel contesto del loro immaginario letterario,
alla creatura animale, Landolfi Montale e Palazzeschi.
Importante è però analizzare la lezione che i nostri
autori hanno appreso dal secolo precedente. In particolare, un
contributo sicuramente di grande interesse in questo senso lo
hanno dato autori come Leopardi, Pascoli e D’Annunzio, i
quali, ognuno in maniera diversa, hanno contribuito a dare un
nuovo senso alla presenza animale all’interno del testo
letterario.
CAPITOLO I
SULLA “PRESENZA ANIMALE” NELLA LETTERATURA
DELL’OTTOCENTO
Le pagine della letteratura sono piene di “presenze animali” fin dai tempi del
mondo classico, greco e latino, se non addirittura prima nella tradizione orale. Gli animali
sono stati utilizzati come metafore dei vizi e delle virtù umane (vedi le favole di Esopo),
sono diventati gli animali fantastici della mitologia, capaci di indossare una parte
dell’immaginario e degli archetipi prodotti da una cultura: dai draghi celtici al cerbero
dantesco; o ancora, sotto il peso del simbolismo cristiano, hanno dato forma ai fantasiosi
Bestiari medioevali. Queste “presenze” sono giunte a noi fino ad oggi; il panorama
letterario del novecento è, infatti, ricchissimo di animali, protagonisti e non, di molte
opere. Ed è a partire dalla constatazione della vitalità e della persistenza di questo tema,
nella letteratura italiana del Novecento, che muove i propri passi questo lavoro, alla ricerca
della vera essenza della animale letterario moderno e del processo di trasformazione
profonda che ha condotto fino ad esso.
Abbiamo ricordato che la presenza dell’animale in letteratura affonda le radici in un
passato antichissimo e può essere posta in correlazione con quel momento della storia
dell’umanità in cui l’uomo ha scoperto che l’animale poteva essere non solo “buono da
mangiare” ma anche e soprattutto “buono da pensare”
1
, atto in pratica a fondare una
simbologia, a divenire personificazione di ciò che non è contenibile nella sfera del logos,
quindi anche di quelle paure derivate da tutto ciò che ancora non era possibile conoscere.
L’uomo quindi “pensa” i propri animali; a tale proposito sono significative le parole
di Manganelli, uno tra gli scrittori più recenti della nostra letteratura a dare un posto
importante alla presenza animale: “che un animale si vesta di selva, di steppa, di autunno,
1
Levi-Strauss Il pensiero selvaggio , 8a edizione, Milano, Il saggiatore, 1990.
La presenza animale nella letteratura dell’Ottocento
di sole, di incendio, di ginestra, di pus: e che questo animale conservi intatta la sua fame,
e insieme la distrazione della fame. Tutto ciò lo fa degno che lo pensi”.
2
Cosa succede, quindi, allorchè l’animale buono da pensare entra nel testo di uno
scrittore del nostro secolo? Per comprendre il senso di questa presenza nella dimensione
del Novecento ho scelto di analizzare le opere di tre scrittori della nostra letteratura
moderna, che hanno dato un posto molto importante, nel contesto del loro immaginario
letterario, alla creatura animale, Landolfi, Montale e Palazzeschi.
Importante è però analizzare la lezione che i nostri autori hanno appreso dal secolo
precedente. In particolare, un contributo di grande interesse in questo senso lo hanno dato
autori come Leopardi, Pascoli e D’Annunzio, i quali, ognuno in maniera diversa, hanno
contribuito a dare un nuovo senso alla presenza animale nel testo letterario.
Il Romanticismo, nell’ansia di conoscenza del mondo naturale e soprattutto dei
suoi confini e dell’al di là di essi, nelle sue pressanti interrogazioni sull’assoluto, si lascia
alle spalle le certezze antropocentriche del passato e il suo orgoglio tassonomico per
schiudersi ad una nuova sensibilità nei confronti della natura, e ad un nuovo rapporto con
essa, non più armonico ma complesso, espressione della profondità e della dissonanza,
“supplizio dei moderni”
3
.
All’interno di quest’orizzonte possiamo collocare l’ansia interrogativa del giovane
Leopardi: egli riprende tale tensione e tali percorsi facendone materia della propria
meditazione, rivendicando la dimensione “poetica” della natura e guardando all’“altro”
animale in maniera diversa, nuova, attenta a disgregare il punto di vista dell’uomo e a
rivelarne la fragilità.
L’avvio è dato da quella che è la sua histoire des animaux con la quale per primo il
poeta recanatese prende le distanze dalle certezze di derivazione illuminista per allucinare
la soglia del distacco uomo-animale, fino ad allora incentrata sul contrasto tra corpo e
spirito, per ribaltare i termini del rapporto e spostare lo sguardo sull’animalità negata, su
quella “immensa rimozione umana che è il mondo animale”
4
. In questo senso per Leopardi
lo spazio della coscienza, della ragione, è lo spazio dell’infelicità in quanto distacco dalla
natura.
Ne è un esempio l’Elogio degli uccelli nel quale il filosofo Amelio tesse le lodi
delle creature alate il cui canto è espressione di quella pienezza e di quell’armonia ormai
estranee all’uomo; esse possono librarsi in volo, assaporare un po’ d’infinito e per questo
2
Manganelli G. Agli dèi ulteriori, Torino, Einaudi, 1972.
3
Prete A. Il pensiero poetante. Saggio su Leopardi.Milano, Feltrinelli, 3° edizione, 1997.
4
Ibidem.
La presenza animale nella letteratura dell’Ottocento
farsi quasi creature angeliche; mentre per l’essere umano “l’assenza del volo si declina
come impossibilità di dire l’infinito. Questa è la vera distanza dagli angeli-uccelli”
5
. E
all’uomo che rimane a terra non resta altro che continuare a dibattersi in un’eterna guerra
tra spirito e corpo, tormentato da un’ossessiva domanda di felicità.
In seguito, come rileva Prete, sarà Baudelaire a portare a compimento la corrosione
critica delle certezze illuministe, dispiegando ancora di più la forza simbolica
dell’animalità per dare voce all’inquietudine che consuma l’esistenza umana, contro ogni
tipo di rassicurante visione unitaria dell’universo.
Il motivo ornitologico assume un rilievo fondamentale anche nella poesia del
Pascoli nel quale, come in Leopardi, il nesso uomo-Natura rappresenta un punto molto
importante a livello di contenuto.
Uno dei testi leopardiani più amati dal poeta di San Mauro fu sicuramente Il
passero solitario
6
. Lo dimostra, infatti, la lirica pascoliana che ne riprende chiaramente il
motivo dell’uccello, intrecciandolo, però, con quello giovanile della monaca prigioniera, e
creando così un’atmosfera decadente di vuoto e abbandono che non apparteneva certo al
Leopardi: “da un ermo santuario/ che sa di morto incenso/ nelle grandi arche vuote/ di tra
un silenzio immenso/ mandi le tue tre note, / spirito solitario.”
7
Il rapporto uomo–Natura è però vissuto dal Pascoli in maniera diversa, anche
perché diverso è il sostrato culturale che lo caratterizza, intriso di Positivismo e
Simbolismo insieme; ne deriva un modo di concepire la Natura ambiguo, doppio: da un
lato l’aspirazione fiduciosa a ricercare in essa, e quindi nelle sue forme tanto animali
quanto vegetali, un rifugio idillico, dall’altro però c’è incombente il trauma del lutto che
egli non riuscirà mai ad esorcizzare del tutto. A questo proposito celebre è la lirica
L’assiuolo contenuta in Myricae, in cui il canto di questo uccello notturno (un piccolo
rapace simile ad un gufo), diviene la guida per mezzo della quale è possibile risalire,
attraverso un pulviscolo di sensazioni, al significato ultimo dell’esistenza. Il chiù
dell’uccello da semplice “voce dei campi” diventa dapprima un “singulto” e infine “un
pianto di morte”, l’impressione cioè si fa simbolo, e la natura così si fa vicina al dramma
del poeta per il lutto paterno che incombe sull’intera opera.
5
Prete A. “Lo sguardo animale” in Prosodia della natura Milano, Feltrinelli, 1993.
6
Leopardi G. Canti Milano, Rizzoli, 1981.
7
Pascoli G. Poesie Milano, Mondatori, 1978.
La presenza animale nella letteratura dell’Ottocento
Questa lirica è per altro perfetta espressione del geniale modo attraverso il quale
Pascoli introduce nei suoi componimenti le creature animali, e in particolare gli uccelli: mi
riferisco all’insistenza onomatopeica che li caratterizza, volta a creare quasi un linguaggio
della natura contiguo a quello della poesia, un linguaggio oracolare, che si fa eco di
significati riposti: come il “si” del passero dal cipresso, il “finch…finchè nel cielo volai”
del fringuello cieco, il “c’è c’è, lode a Dio” dell’allodola, il “tac tac” della capinera o il
“virb” della rondine che chiama il giorno. Nel caso dell’assiuolo, il verso dell’uccello si fa
quasi voce che richiama al mondo del’oltretomba, regno del silenzio per eccellenza, in cui
non è più possibile la parola. L’elemento animale si fa portavoce del desiderio del poeta di
ricongiungersi ai suoi cari.
Queste creature, inoltre, spesso fanno vibrare il loro canto da rovine antiche e
solitarie, erigendosi a simbolo di una poesia che vuole vincere il tempo e la morte. La
trascrizione del grido animale, secondo la spiegazione di Barberi Squarotti, risponderebbe
ad un “tentativo di spiegazione oracolare, di cogliere la struttura vera e profonda delle cose
al di là della loro disorganizzazione di fronte agli sforzi della ragione fallita”
8
. Per questo i
richiami ornitologici presenti nella poesia del Pascoli non solo risponderebbero
all’esigenza del poeta di innalzarsi al di sopra delle brutture terrene in una specie di utopia
simbolica ma, anche per l’influsso di una certa tradizione classica (i presagi colti nel volo
degli uccelli o il loro magico intervento nelle vicende degli uomini), apparirebbero come il
tentativo di affidare agli uccelli la funzione rivelatrice del linguaggio metarazionale della
natura, o pregrammaticale, come è stato definito nel famoso saggio continiano
9
,
permettendo così all’io del poeta e alla Natura di entrare in contatto. Come il saltimpalo
che col suo “sicceccè” è “il primo a cantare d’amore” quando ancora “non si vede un
boccio di fiore”; o come lo scricciolo che annuncia il freddo, il cui trillo “sembra la brina/
che sgrigiola, il vetro che inclina…/ trr trr trr terit tirit…” : frammenti di una realtà segreta
e ignota che il poeta cerca di decifrare.
L’influsso della cultura classica sarebbe all’origine anche d’altre immagini di
questo tipo frequenti nella sua poesia: il grido di malaugurio di certi uccelli notturni, gli
anni di vita contati sul canto del cuculo, creature che si fanno messaggere di vita e di
morte, che sembrano quasi creare un punto di contatto col mondo dei defunti.
Abbiamo detto quindi che la simbologia ornitologica nel Pascoli risente fortemente
della sua esperienza di vita privata, ed ha nell’immagine del “nido” la sua espressione più
8
Barberi Squarotti “ Interpretazione della simbologia pascoliana” in Lettere italiane, 1963, anno XV.
9
Contini G “Il linguaggio del Pascoli” in Varianti e altra linguistica, Torino, Einaudi, 1970.
La presenza animale nella letteratura dell’Ottocento
lampante. Allo stesso modo dei molteplici temi fitomorfi,
10
anche molte presenze animali
nei versi del Pascoli possono essere ricondotte ad un processo simbolico che nasce dalla
rielaborazione del “vissuto” personale del poeta insieme con i suoi interessi naturali, di
matrice positivistica, congiuntamente ad influssi della letteratura romantica europea.
Celebre è la “rondine” paterna che tornava dai suoi “rondinini”, o i “farlotti” scacciati dalla
loro casa. Attorno a queste immagini Pascoli costruisce il suo personale “mito” familiare,
che nasce dai ricordi di un passato dal quale il poeta non riuscì mai a liberarsi. In questo
senso il nido, e le metafore ornitologiche ad esso legate, si prefigurano come espressioni
del legame familiare avvertito come luogo chiuso ed esclusivo che però è stato usurpato
dalla violenza della realtà esterna.
Al di fuori dell’ambito simbolico ornitologico, ma sempre strettamente correlata
allo psicologismo pascoliano, quindi al suo dramma personale, è la celebre “cavallina
storna”. La critica recente ha teso a liberare sempre più questa creatura dal valore oracolare
attribuitogli da molti,
11
per rilevarne invece la particolare umanità. Essa, infatti, è legata
all’altra figura femminile del testo poetico, la madre, da un profondo legame di
condivisione dello stesso dolore. Entrambe sanno, conoscono la verità legata alla morte del
padre, ma a nessuna è dato di pronunciarla. “Il nitrito della cavalla diffonde un’eco
dolorosa nel suo essere un messaggio vuoto e impotente”
12
, facendosi simbolo del tabù
sociale, dell’impossibilità, che lega uomini e animali, di pronunziare il nome
dell’assassino.
Nei Canti di Castelvecchio inoltre, ricorre con una certa frequenza un motivo,
quello delle farfalle notturne, che sarà accolto da molti scrittori a lui successivi: falene,
sfingi, atropi, macroglosse, sono aspetti, percezioni di una natura che il poeta tenta di
ricondurre a una sostanza psichica, in un continuo tentativo di riportare l’infinitamente
piccolo all’infinitamente grande. Come nel canto secondo de Il ciocco, in cui
l’osservazione riguardante le“atropi ossute” che ruotano intorno alla lanterna portata da un
bambino nell’oscurità notturna, lo conduce ad un accostamento tra gli astri e gli insetti alati
che raggiunge poi le dimensioni di una rivelazione, di una scoperta: il macrocosmo si
riflette nel microcosmo e l’astro forma una cosa sola con l’insetto.
10
A proposito del fitomorfismo pascoliano, vedi Nava G., “Temi fitomorfi nella poesia del Pascoli” in Testi
ed esegesi pascoliana. Atti del convegno di studi pascoliani, San Mauro Pascoli, 23-24 Maggio 1987.
Editrice Bologna
11
Barberi Squarotti aveva infatti parlato di “animale oracolo”, come il Lonardi che, muovendosi anch’egli
all’interno dell’interpretazione ritualistico-oracolare del colloquio tra la madre e l’animale, la definisce
“cavallina-strega”.
12
Santagata M. Per l’opposta balza. La cavalla storna e il commiato dell’Alcyone, Milano, Garzanti, 2001.