VIII
Dopo aver delimitato la categoria ed indicato la funzione che tale tipo di beni
è in grado di adempiere dal p.d.v. sia della Chiesa, in particolare quella
cattolica, che dello Stato è stata ricostruita, per sommi capi e senza pretese
di completezza, l’evoluzione della disciplina in materia, allo scopo di far
cogliere la reale dimensione di un problema giuridico che ha origine dalla
legislazione degli Stati preunitari e che si storicizza nello Stato liberale e nel
sistema fascista attraverso la graduale comprensione della necessità di
salvaguardare beni capaci di soddisfare attese socialmente rilevanti.
L’occasione per ulteriori riflessioni è stata data dalla recente modifica del
titolo V della Costituzione, attuata con la Legge costituzionale 3/2001, che ha
introdotto un nuovo riparto delle materie di competenza legislativa dello Stato
e delle Regioni.
In particolare, scorrendo gli elenchi delle materie riportati nei commi 2 e 3 del
nuovo art.117 della Costituzione viene subito da pensare che la disciplina dei
beni culturali di interesse religioso possa situarsi nei punti di intersezione di
almeno tre materie: i "rapporti tra la Repubblica e le confessioni religiose"
(art.117, c.2, lett.c); la "tutela dei beni culturali" (art.117, c.2, lett.s); la
"valorizzazione dei beni culturali" (art.117, c.3).
Le prime due sono assegnate alla legislazione esclusiva dello Stato; mentre
la terza appartiene alla competenza legislativa concorrente delle Regioni.
L'intreccio lo ritroviamo anche nel campo della distribuzione delle
competenze amministrative che possono svolgersi sui beni culturali di
interesse religioso. Anch'esse, destinate a subire un'ulteriore articolazione
secondo quanto disposto dal nuovo art.118 della Costituzione, ai sensi del
quale “le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per
assicurarne l'esercizio unitario, siano conferite a Province, Città
metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei princìpi di sussidiarietà,
differenziazione ed adeguatezza”.
In assenza, però, di quella “leale collaborazione” fra enti che dovrebbe
presiedere le relazioni fra le diverse articolazioni della Repubblica, in un
IX
quadro costituzionale che le pone tutte sullo stesso piano, si è creata una
situazione di stallo.
A ciò si è inteso rimediare redigendo un nuovo codice dei beni culturali,
(d.lg.41/2004 entrato in vigore il 1° maggio), allo scopo di chiarire una
situazione confusa, di risolvere i risorgenti conflitti di competenza e,
soprattutto, di aprire una nuova fase di collaborazione fra Stato, Regioni ed
enti locali in materia di beni culturali, da attuare a mezzo di intese, così come
auspicato dall’art.118 Cost.
Questa è stata la principale motivazione che ha indotto ad introdurre tale
nuovo codice, a meno di quattro anni dall’adozione del Testo unico delle
disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali
(d.lg.490/1999).
Non si poteva poi prescindere dal prestare attenzione alla normativa pattizia
in materia, che ha come parti, da un lato sempre, lo Stato e, dall’altro, varie
Confessioni religiose; e ai vari interventi di finanziamento.
Per, infine, terminare mettendo in risalto il valore economico dei beni culturali
di interesse religioso allo scopo di dimostrare che non ci si può limitare ad
una tutela statica di tale patrimonio, cioè limitata alla mera conservazione,
bensì, bisogna spingersi oltre verso la sua valorizzazione dato che
potenzialmente siamo di fronte ad una “azienda” dal futuro economico senza
confronti, in particolare nel settore del turismo.
1
CAPITOLO PRIMO
I BENI CULTURALI
SOMMARIO: 1. I beni culturali. – 2. I beni culturali di interesse religioso.
1. I beni culturali.
1.1. Introduzione della locuzione bene culturale nell’ordinamento italiano.
La locuzione beni culturali é entrata nel nostro ordinamento in seguito alla
ratifica di strumenti internazionali
1
e ha sostituito quelle vecchie: cose d’arte
e bellezze naturali, presenti nelle leggi regolatrici della materia
2
.
E’ stata usata, per la prima volta, in un documento ufficiale dello Stato dalla
c.d. Commissione Franceschini
3
, la quale ha identificato i beni culturali con
“qualsiasi testimonianza materiale avente valore di civiltà”.
1
Per primo la Convenzione dell’Aja del 1954 per la protezione dei beni culturali in caso di
conflitto armato.
2
Come ad es. la L.1089/1939 che parla di “cose, mobili e immobili, che presentano
interesse artistico, storico, archeologico o etnografico” o come la L.1497/1939 che disciplina
la categoria delle “bellezze naturali”.
2
L’introduzione di questa nuova espressione segna il momento in cui è stata
abbandonata la vecchia concezione estetizzante per adottare quella
moderna che fa riferimento al valore culturale.
1.2. La nozione unitaria di bene culturale.
L’impiego della locuzione beni culturali, in quanto selettiva e generale al
tempo stesso, è indice della volontà di far confluire in un insieme organico i
vari beni rientranti nel patrimonio storico-artistico.
In tale prospettiva, la dottrina successiva ha elaborato una nozione unitaria di
beni culturali che fa perno su due elementi: l’immaterialità e la pubblicità.
In particolare, secondo questa concezione ciò che accomuna e
contraddistingue tali beni, siano essi di proprietà pubblica o privata, è
l’essere “testimonianza materiale di civiltà”.
In altri termini, nel bene culturale coesistono, insieme alla cosa nella sua
materialità, un’entità immateriale, cioè il suo valore culturale
4
.
Il bene culturale non viene più solamente visto come un oggetto materiale da
conservare, ma ci si rende conto che svolge anche una funzione sociale
3
Tale commissione fu istituita dalla L.310/64 con il compito di accertare lo stato di tutto il
patrimonio storico, artistico e paesistico del Paese, e di indicare i possibili rimedi per evitare
che venisse offeso o messo in pericolo.
Nella sua relazione finale la Commissione ha evidenziato le lacune della normativa e
l’inefficacia del sistema protettivo.
In particolare ha segnalato un tendenziale aumento di furti e danneggiamenti dei beni
artistici mobili dovuto ad una scarsa catalogazione ed alla mancanza di un sistema di
controllo efficace.
4
G. CARCEA, La funzione economica dei beni culturali: profili giuridici, in Diritto pubblico
dell’economia, a cura di M. GIUSTI, Padova, Cedam, 1994, p.470.
3
perché è fattore di sviluppo intellettuale della collettività e elemento storico
attorno al quale si definisce l'identità delle collettività locali.
Questa nuova concezione provoca il rinnovamento del modo di concepire la
politica di tutela dei beni culturali.
Infatti, si passa da un'attività di tutela statica dello Stato finalizzata alla mera
conservazione fisica, perciò basata sostanzialmente sull’assoggettamento
del bene ad un rigoroso regime vincolistico, ad un intervento pubblico di
valorizzazione e gestione, diretto a favorire la fruizione collettiva del valore
culturale custodito nel bene.
Possiamo così arrivare ad affermare che “il bene culturale è pubblico non in
quanto bene di appartenenza, ma in quanto bene di fruizione”.
E questo spiega come l’oggetto possa rimanere in mano privata ed essere
sottoposto al dominio della pubblica amministrazione
5
.
La concezione in esame però è stata criticata: è apparso inopportuno il
riferimento al concetto di bene immateriale, almeno in senso proprio
6
, perché
il valore culturale non risulta essere un elemento autonomo rispetto alla res
dato che si presenta ad essa strettamente compenetrato, per cui non è
possibile prevedere una sua propria disciplina giuridica completamente
distinta da quella del bene nella sua estrinsecazione fisica
7
.
5
G. PITRUZZELLA, La nozione di bene culturale, in Aedon rivista di arte e diritto on line,
n°1/2000.
6
I beni immateriali sono una particolare categoria di beni non riconducibili tra le cose. Tali, le
c.d. idee inventive, rispetto alle quali l’immaterialità si riferisce all’idea, che poi si materializza
in cose suscettibili di formare oggetto, a propria volta, di diritti e di rapporti, ma con le quali
l’idea (cioè, il bene immateriale) non deve essere confusa.
7
G. CARCEA, op. cit., in Diritto cit., a cura di M. GIUSTI, p.470.
4
1.3. La smaterializzazione dei beni culturali.
In seguito, la locuzione beni culturali è entrata nella terminologia normativa
8
.
Negli anni ’70 la tendenza è stata quella di ampliare la categoria dei beni
culturali attraverso la loro smaterializzazione.
Infatti, il d.p.r.616/77 vi inserisce anche le attività di prosa, musicali, e
cinematografiche, introducendo così la nozione di bene culturale-attività, sia
nella legislazione regionale, che nei numerosi progetti di riforma della
disciplina di tutela da tempo pendenti in Parlamento.
Il rischio che si corre è di pervenire a una nozione troppo vasta di bene
culturale, destinata a perdere i suoi connotati distintivi, per cui nasce
l’esigenza di una riqualificazione di tale concetto.
Soprattutto occorre limitarlo nuovamente alla sola dimensione materiale, in
modo da distinguerlo dalle attività culturali che, pur svolgendo la stessa
funzione, richiedono un trattamento normativo peculiare.
A tal fine non sembra possibile adottare una definizione meramente
elencativa delle cose da riconoscere come beni culturali, né ritornare a una
concezione estetizzante, essendosi ormai modificato l’atteggiamento di fondo
nei confronti delle opere del passato.
8
E’ stata adottata nel linguaggio delle regioni, a partire dal 1972; introdotta a livello statuale
dal d.l.657/74, convertito nella L.5/75 istitutiva del Ministero per i beni culturali ed ambientali;
e costantemente usata nella successiva legislazione.
5
Inoltre è inevitabile mantenere un’ampia discrezionalità nell’individuazione
degli oggetti da tutelare se non si vuole ancorare la nozione di bene culturale
al momento storico in cui è stata adottata dal legislatore.
In più bisogna considerare il fatto che il campo dei beni culturali è comunque
destinato ad allargarsi (si pensi alla possibilità di estendere la tutela ai beni
culturali contemporanei, ora esclusi), per cui appare opportuno introdurre un
criterio selettivo, basato sul grado di rilevanza del bene da un punto di vista
artistico, scientifico o documentale
9
.
Alla fine degli anni ’90, l’ipotesi della smaterializzazione dei beni culturali si
ripropone. L'art.148, c.1, lett.a del d.lg.112/1998, sancisce che sono beni
culturali "quelli che compongono il patrimonio storico, artistico, monumentale,
demo-etno-antropologico, archeologico, archivistico e librario e gli altri che
costituiscono testimonianza avente valore di civiltà così individuati in base
alla legge".
L'inciso finale “altri beni che costituiscono testimonianza avente valore di
civiltà” (categoria residuale e per ciò stesso aperta), attribuisce alla
definizione quella elasticità necessaria ad evitare un naturale irrigidimento
presente in re ipsa in ogni definizione.
La definizione di beni culturali data in questo articolo si ispira, ma anche si
differenzia da quella della Commissione Franceschini, anzitutto per la
mancata riproposizione dell'aggettivo "materiale" nell'espressione
"testimonianza avente valore di civiltà" ed inoltre per la predisposizione (in
9
G. CARCEA, op. cit., in Diritto cit., a cura di M. GIUSTI, p.472.
6
precedenza assente) di una riserva di legge circa l'individuazione di questa
tipologia di beni culturali.
Delle due considerazioni quella maggiormente problematica è la prima:
specie se da ciò se ne voglia dedurre la volontà del legislatore di far venir
meno l'obbligo della materialità del bene culturale. Ipotesi che se accertata
permetterebbe di ricondurre all’interno della categoria dei beni culturali anche
gli eventi (mostre) e gli itinerari turistici (compresi quelli religiosi).
Da un lato, ogni dubbio sembra venir meno se si dà un significato congruo
agli elementi proposti nell’art.148, c.1, lett.a dato che in nessuno di essi può
essere rinvenuto un limite (esplicito o implicito) all’eventuale riconoscimento
dell’esistenza di beni culturali immateriali.
Dall’altro però, il legislatore sembra non voler far riferimento alle attività
culturali, sia perché prevede un'autonoma definizione di attività culturale alla
lettera f dell'art. 148, sia perché una lettura sistematica del capo V del titolo
IV del d.lg. 112/98 e della L.59/1997 conferma con certezza la volontà di
distinguere tra attività e beni culturali.
Inoltre, non bisogna dimenticare quanto dettato dall'art.152, c.3, lett. h., che
includendo tra le attività da ricondurre ai compiti di valorizzazione (art. 148,
lett. e) dei beni culturali "l'organizzazione di itinerari culturali, individuati
mediante la connessione fra beni culturali e ambientali diversi", sembrerebbe
escludere una loro diretta configurazione come beni, preferendo ad essa una
loro classificazione tra le attività culturali.
7
Però una simile interpretazione sarebbe frutto di un mero equivoco letterale
perché è necessario tenere distinto il momento della individuazione-disegno
dell'itinerario, dal risultato di questa attività.
Il primo afferisce inequivocabilmente al disposto dell'art. 152, c.3, lett. h; il
secondo, cioè l'itinerario in sé, potrà rimanere uno strumento di
valorizzazione di un bene culturale o ambientale e allora anch'esso sarà
regolato da questa norma. In alcuni casi, però, l'itinerario potrebbe proporsi
con una autonomia concettuale tale da richiedere un ulteriore sforzo
ermeneutico, per verificare se esso stesso non possa essere interessato da
quanto previsto dall'art. 148, lett. a, ultima parte.
La norma stessa, peraltro, riservando espressamente questo tipo di
riconoscimento alla legge pone chiari limiti ad un eccessivo ricorso alla
categoria delle testimonianze aventi valore di civiltà.
Manca comunque una indicazione chiara circa il procedimento da utilizzare e
l'unica certezza sembra essere racchiusa nel necessario ricorso allo
strumento legislativo.
Un’ultima riflessione da fare è che la scelta di rigettare un’interpretazione
favorevole al superamento della obbligatoria materialità del bene culturale,
per interpretare restrittivamente la definizione di bene culturale data
nell’art.148, potrebbe dimostrare tutti i suoi limiti al primo impatto con
dimensioni quali la "virtualità", carattere imprescindibile della società attuale
e futura, dal quale il settore dei beni culturali è già ampiamente
"contaminato"
10
.
10
A. CHIZZONITI, Gli itinerari turistico-religiosi giubilari tra turismo e cultura, in Aedon rivista
di arte e diritto on line, n°1/1999.
8
1.4. La nozione di bene culturale adottata dal Testo Unico delle disposizioni
legislative in materia di beni culturali e ambientali (d.lg.490/1999).
Il Testo Unico (ora abrogato) si occupa della tutela dei beni culturali e
ambientali che consiste in ogni attività diretta a riconoscere, conservare e
proteggere tali beni (art.3, d.lg.41/2004).
I redattori del Testo Unico per individuare l'oggetto della tutela, si sono trovati
davanti un’alternativa: accogliere la definizione unitaria di bene culturale
oppure fare riferimento ai singoli beni disciplinati dalla legislazione vigente e
quindi oggetto di differenti norme di tutela.
Alla fine hanno deciso di non usare la definizione unitaria (infatti, gli artt.2 e 3
del Testo Unico non codificano una nozione unitaria, ma fanno riferimento
alle singole specie di bene culturale già riconosciute dalla legislazione
vigente), e di optare per quella che, nel parere del Consiglio di Stato sullo
schema di decreto legislativo, è stata chiamata una definizione normativa di
bene culturale, in quanto assume come suo nucleo centrale le cose regolate
dalla L.1089/1939, ma sottopone al regime dei beni culturali anche altre
categorie di cose oggetto di diversa disciplina.
Questa scelta del legislatore delegato è stata criticata dal Parlamento.
Nel parere sullo schema di decreto legislativo reso dalla VII Commissione
della Camera dei deputati si è affermato che sarebbe stata "preferibile la
definizione introdotta dal d.lg.112/98, che indirizza verso un concetto
giuridico nuovo di bene culturale e quindi offre la possibilità di un intervento
unitario sul patrimonio culturale e ambientale".
9
Lo stesso parere delineava anche una "soluzione di compromesso",
consistente, da un lato, nell’elencare negli artt.2 e 3 del T.U. i beni da
sottoporre alla tutela e, dall’altro, nell’affidare agli istituti della dichiarazione e
degli elenchi (previsti in altre disposizioni del T.U.) il compito di identificare
altri beni da sottoporre alla tutela. Tuttavia, queste indicazioni non sono state
recepite dal legislatore delegato, che è stato mosso da alcune, peraltro
fondate, preoccupazioni.
In primo luogo, si sono volute evitare le accuse di genericità e di
"espansionismo" che avrebbero potuto essere sollevate se si fosse usata
una definizione onnicomprensiva quale quella di "testimonianza avente
valore di civiltà" prevista nel d.lg.112/98.
In secondo luogo, l’impiego di una definizione di tal tipo avrebbe espanso
oltremodo le ipotesi in cui i privati proprietari, interessati ad un uso
particolaristico del bene, si sarebbero trovati sottoposti alle ingerenze da
parte dei poteri pubblici.
Questo problema non si è posto in sede di elaborazione del d.lg.112/1998
(che invece ha adottato la definizione unitaria) perché si è limitato a ripartire
le competenze tra centro e periferia, per cui le sue norme non coinvolgono gli
interessi di soggetti privati; mentre il Testo Unico riguarda la tutela dei beni
culturali, quindi coinvolge gli interessi dei privati proprietari di tali beni.
Un’importante conseguenza pratica della scelta di non adottare una nozione
unitaria di bene culturale è che si è mantenuta la distinzione tra beni culturali
appartenenti alla mano pubblica e quelli appartenenti ai privati.
In terzo luogo, l'accoglimento di una nozione unitaria di bene culturale
avrebbe portato il grave sospetto di un "eccesso di delega", perché la legge
di delega autorizzava il governo solo al "coordinamento formale e
10
sostanziale" delle norme vigenti (alla data di entrata in vigore della legge), e
di quelle che sarebbero entrate in vigore nei sei mesi successivi.
L'estensione del coordinamento dal piano formale a quello sostanziale ha
consentito di attribuire la qualifica di bene culturale a tutti quei beni che erano
già oggetto di una disposizione normativa basata sul loro valore culturale e
quindi ha giustificato l'unificazione, nel Testo Unico, della disciplina di una
serie di beni che prima erano sottoposti a discipline diverse.
Invece, l'adozione di una definizione unitaria di bene culturale, non
conosciuta dalla normativa precedente, probabilmente sarebbe andata ben
oltre il confine del "coordinamento sostanziale" per invadere il terreno delle
scelte normative completamente innovative.
11
1.5. La nozione di bene culturale adottata dal Nuovo Codice dei beni
culturali e del paesaggio (d.lg.41/2004).
1.5.1. Art.2: “Patrimonio culturale”.
Il patrimonio culturale è costituito da beni culturali e da beni paesaggistici
(c.1).
Per beni culturali si intende sia le cose indicate negli artt. 10 e 11 aventi
interesse storico, artistico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e
bibliografico, che le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge
quali testimonianze aventi valore di civiltà (c.2).
Questo articolo rende omaggio alla definizione unitaria di bene culturale
inteso quale "testimonianza avente valore di civiltà", ma la formula non ha
un'immediata efficacia operativa che consenta di qualificare una cosa come
bene culturale, infatti, i beni non ricompresi nelle elencazioni degli artt. 10 e
11 dovranno essere comunque individuati da apposite leggi.
Perciò siamo in presenza di una specie di norma di chiusura del sistema di
individuazione dei beni culturali che, da una parte conferma che le singole
specie di beni culturali devono essere espressamente individuate da una
norma di legge, dall'altra consacra, ove ce ne fosse ancora bisogno, il
definitivo tramonto della concezione estetizzante dei beni culturali a favore di
una più ampia visione degli stessi e delle politiche pubbliche che li
riguardano.
12
1.5.2. Art.10: “Beni culturali”.
I redattori del Nuovo Codice hanno previsto un regime giuridico unitario di
tutela per tutti i beni culturali elencati nell’art.10.
Tale disposizione include i beni culturali già disciplinati dal T.U. e alcuni
nuovi.
In particolare, sono beni culturali le cose, immobili e mobili, appartenenti allo
Stato, alle regioni, agli altri enti pubblici territoriali, nonché ad ogni altro ente
ed istituto pubblico e a persone giuridiche private senza fine di lucro (per cui
anche enti ed istituti ecclesiastici) che presentano interesse artistico, storico,
archeologico o antropologico (c.1).
Le medesime cose
11
, quando appartengono a soggetti diversi da quelli
appena indicati, sono beni culturali a condizione che sia intervenuta la
dichiarazione dell’interesse culturale, la quale accerta la sussistenza, nella
cosa che ne forma oggetto, di un interesse particolarmente importante dal
p.d.v. artistico, storico, ecc. (c.3, lett.a).
11
Andando nel dettaglio si tratta di:
a. cose che interessano la paleontologia, la preistoria, e le primitive civiltà;
b. cose di interesse numismatico;
c. manoscritti, autografi, carteggi, incunaboli, nonché libri, stampe e incisioni con
relative matrici, aventi carattere di rarità e di pregio;
d. carte geografiche e spartiti musicali aventi carattere di rarità e di pregio;
e. fotografie, con relativi negativi e matrici, pellicole cinematografiche e supporti
audiovisivi in genere, aventi carattere di rarità e di pregio;
f. ville, parchi e giardini che abbiano interesse artistico o storico;
g. pubbliche piazze, vie, strade, a altri spazi urbani di interesse artistico o storico;
h. siti minerari di interesse storico o etnoantropologico;
i. navi e galleggianti aventi interesse artistico, storico o etnoantropologico;
j. tipologie di architettura rurale aventi interesse storico o etnoantropologico quali
testimonianze dell’economia rurale tradizionale (art.10, c.4).