Nicola Bellon – Bar Sport di provincia
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CAPITOLO 1
IL BAR SPORT NEL COSTUME ITALIANO
1.1 Dalle tabernae ai bar
Soprattutto riguardo alla storia, alla cultura e allo stile di vita dei suoi
abitanti, è innegabile che l’Italia abbia un debito consistente nei confronti
dell’antica Roma. Il bar, ai nostri giorni centro di aggregazione e
socializzazione sempre più rilevante, non fa eccezione a questa discendenza.
A sua volta, anche la chiacchiera sportiva – da sempre uno degli
argomenti più in voga nelle discussioni che si tengono all’interno dei locali –
vanta storiche origini. Tutto comincia nelle tabernae, dove il popolo discuteva
dei ludi corporali e delle epiche gesta di gladiatori ed atleti. Tra otri di vino e
clamori di scommettitori vincenti o delusi, i giochi circensi si chiudevano
sempre col banchetto (epulum), cui era affidato il compito di stemperare gli
animi degli accesi contendenti. Osterie, bettole e negozi di barbiere, sono stati
per lunghi secoli i luoghi deputati ad ospitare il rito della disputa verbale di
argomento sportivo.
Ad altre latitudini e in tempi più recenti, si è sviluppata un’altra forma di
aggregazione cui poter attribuire vincoli di paternità rispetto all’odierno bar.
Siamo in Inghilterra, verso la metà del XVIII secolo. Qui viene fondato il primo
club sportivo, il Jockey Club, cui fu affidato il controllo sull’organizzazione delle
corse ippiche
1
. Nato come pranzo tra gentlemen interessati alle corse di cavalli
di Newmarket, divenne il perno del vasto mondo che ruotava attorno al
binomio scommesse - pranzo fuori casa, dato che le gare su cui si puntava
erano organizzate proprio nei pressi delle trattorie. Non erano tavole calde nel
senso moderno che noi attribuiamo loro oggi. Così come i caffè letterari, erano
frequentate da nobiluomini e borghesi, non certo dal popolo. Ciò che però
distingueva le due categorie di club – il cui accesso era rigorosamente
riservato ai maschi – erano le occupazioni che vi si svolgevano all’interno.
1
Triani Giorgio, 1994, Bar sport Italia, Milano, Elèuthera, p. 9
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8
Come osserva Giorgio Triani
2
:
Se nei primi arte e libera conversazione, musica e lettura dei
giornali […] concorrevano alla formazione della moderna opinione
pubblica, nei secondi invece ogni connotazione di cortesia,
raffinatezza e cultura era persa, vanificata da una passione quasi
esclusiva per il tabacco, i giochi da tavolo e gli esercizi fisici.
Ancora troppo elitarie le condizioni di accesso ai club sportivi per parlare di
progenitori diretti del moderno bar sport, ma vista anche la fortuna di cui
godette nel resto d’Europa il modello del Jockey Club a partire dagli inizi del
XIX secolo, non si può almeno pensare ad una lontana parentela.
Il sodalizio tra circoli ricreativi e attività sportive si arricchì presto di un
nuovo, importante componente: l’informazione. L’istigazione a chiacchierare
tra loro veniva alimentata nei gentlemen dalla lettura dei giornali, attività
primaria nelle ore trascorse al club. Come detto, parte del tempo veniva spesa
anche per organizzare competizioni atletiche. Dalle singole gare si passò poi a
fondare le prime società sportive, che in molti casi avevano sede nei circoli
stessi. Anche solo considerando le squadre di calcio, si può notare come la
stragrande maggioranza di esse, soprattutto le più antiche e gloriose, abbia
visto la luce grazie all’associarsi dei membri di uno sport club. A conferma
dell’espandersi del modello anglosassone in ogni altra parte del vecchio
continente, basti sottolineare che tre delle quattro squadre più vecchie d’Italia
sono nate così.
Già all’epoca le gazzette avevano finalità commerciali e gli editori capirono
subito che un buon modo per aumentare le tirature era occuparsi di sport,
argomento che tanto appassionava nobili e soprattutto borghesi, ceto ormai in
irrefrenabile ascesa. Ecco allora nascere le prime competizioni sportive
organizzate direttamente dai giornali. Siamo già nel nuovo secolo,
precisamente nel 1909, quando in Italia si disputa la prima edizione del Giro
Ciclistico, sponsorizzato dalla Gazzetta dello Sport, che in tal modo volle
2
Ibidem, p. 10
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9
rispondere al francese L’Auto, che nel 1903 aveva lanciato il gemello Tour de
France.
E’ però a partire dai primi anni venti che nel nostro Paese prende
definitivamente corpo la mutazione in senso moderno di quella che, almeno
fino a due decenni fa, è stata l’idea di bar sport coltivata nell’immaginario
collettivo.
Due i grandi fattori che alimentarono il saldarsi del matrimonio tra luogo di
ricreazione e ritrovo, e discorsi centrati sullo sport. Da una parte, ancora una
volta, i mezzi di comunicazione. Stavolta grande protagonista è la radio, nuovo
grande focolare domestico attorno a cui si riunisce la famiglia in senso proprio
e quella allargata, composta di frequentatori dei bar.
Rispecchiando le finalità di ritrovo ereditate dai club dei secoli precedenti,
nei bar si formano delle vere e proprie comunità. Ci sono gli habitué e gli
occasionali, gli uomini (la stragrande maggioranza) e le donne. Tutti sono lì
per il medesimo scopo. Un caffè, un aperitivo, un gelato. Certo, ma c’è un
attrazione in più: la radiocronaca – e più tardi la trasmissione televisiva –
dell’evento sportivo. E’ Giuseppe Sabelli Fioretti la prima voce che i
radioascoltatori sentono. Siamo nel 1928, e la prima radiocronaca di una
partita di calcio racconta di un epico incontro Italia - Ungheria 4-3 giocato allo
stadio PnF di Roma. Il pallone non era l’unico sport di cui si narravano le gesta
e non fu neanche il primo in ordine di tempo. Lo precedettero, sempre in
quell’anno, la boxe e prima ancora il ciclismo. E’ così che la domenica non era
affatto inusuale osservare crocicchi di appassionati accalcarsi all’interno dei
bar per seguire con trepidazione le cronache di Nicolò Carosio, il match di
pugilato Bosisio - Jacovacci o il Gran Premio Milano di Galoppo, raccontato da
Alfredo Giannoli
3
.
Potrebbe stupire la facilità con cui questi assembramenti di persone
venivano tollerati, in un epoca che politicamente si potrebbe descrivere in tanti
modi, fuorché come esempio di democrazia e libertà di espressione.
Paradossalmente, il regime fascista non solo approvava, ma addirittura
incentivava tali riunioni. Le spiegazioni sono molteplici.
3
Monteleone F. , 1992, Storia della radio e della televisione in Italia, Venezia, Marsilio
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10
La più importante sembra essere un motivo di ordine pubblico e una soluzione
per irreggimentare le masse. A tal proposito Triani
4
afferma:
Lo sport per il regime fascista diventava un terreno ideale per
movimentare le masse, riconvertendo interessi, energie e passioni
potenzialmente investibili nelle attività politiche e dirottandoli in
ambiti neutri, non cruciali per il sistema, per quanto ad alto
coinvolgimento fisico e passionale.
Non si può tralasciare neanche lo spirito dell’epoca: la caffè society degli
anni ’20 vede installarsi ai vertici della piramide sociale i divi dello spettacolo. Il
fenomeno del divismo non risparmiava neanche gli sportivi. Anche qui, chiara
è l’impronta del regime fascista, che come noto puntava molto sulla disciplina
sportiva delle masse e, soprattutto da quando si cominciò a propagandare
l’autarchia, sugli atleti come simbolo dell’Italia vincente e dominante nei
confronti delle altre nazioni. I protagonisti delle gesta atletiche tanto glorificate
dal regime avevano anche un altro pregio: in origine erano persone comuni,
classici ragazzi della porta accanto che grazie allo sport diventavano eroi, miti.
Questo faceva sì che divenissero esempi da imitare. Ma produceva anche un
altro effetto, ossia parlare delle loro imprese e delle loro vite risultava più facile
per la gente, perché in essi ogni persona poteva riconoscere sé stessa e la
propria storia. Così, tutti si sentivano legittimati a poter dire la loro, senza tema
di smentita.
Negli anni seguenti, l’impostazione caratteristica dei bar non subì ulteriori
cambiamenti radicali. Ci fu il grosso passaggio della sostituzione della radio
con la televisione. Ma allo stesso tempo, ancora oggi la Gazzetta dello Sport è
il quotidiano più venduto in Italia e non c’è bar sport che si rispetti che non ne
abbia una copia sul bancone o sopra al frigo dei gelati.
Di sicuro, rispetto ai club delle origini è cambiata la composizione sociale
degli avventori. Niente più selezione in base al ceto o alla ricchezza. La
fortuna della formula del bar come centro di aggregazione, è in gran parte
4
Ibidem, p. 15
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dovuta a questo. In una società i cui centri decisionali sono in mano a un
numero sempre più ristretto di eletti, che con le loro decisioni influenzano
pesantemente la vita di tutti noi, si avverte sempre più il bisogno di uno spazio
veramente “democratico”, in cui poter esternare le proprie idee senza
limitazioni di tempo, di argomento e di competenza.
Lo sport come oggetto principe dei discorsi da bar, è invece rimasto una
costante dai tempi di Roma antica ad oggi. Forse ciò sta a significare che la
materia non è così “plebea” come si vorrebbe far intendere. O forse è vero il
contrario e bisogna dar ragione a coloro i quali sostengono che se non ci
fossero il calcio e i motori, in Italia ci sarebbero 25 milioni di muti.
Probabilmente ciascuna delle affermazioni ha un fondo di verità. A
un’autentica discussione da bar sport, il compito di decretare quale delle due
sia la più fondata.
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1.2 Vita da bar
Rispetto al caffè, il bar aumenta le tipologie di consumo e la circolazione di
avventori. Il suo assurgere a luogo specifico dotato di una funzione autonoma,
comporta una modernizzazione delle pratiche e dei comportamenti. Accelera
la quantità delle consumazioni e anche lo scambio d’opinioni, che si fa sempre
più informale e coinvolge una clientela socialmente e culturalmente sempre più
eterogenea.
Se per alcuni il passaggio al bar ha la stessa valenza dell’attesa alla
fermata dell’autobus, altri invece vivono in modo molto differente il tempo
passato tra il bancone e i tavolini. Lungi dal considerarlo uno dei tanti «non
luoghi»
5
, - termine col quale Augè definisce quei luoghi non più identitari, di cui
ci si serve ma in cui non si può o non si riesce più a comunicare con gli altri -
molti frequentatori hanno eletto il bar a loro seconda casa, ripristinando
almeno in parte la funzione di centro di socializzazione detenuta un tempo da
caffè e sport club. Si forma così all’interno del punto di ristoro, una vera e
propria comunità, con tanto di appartenenti, ruoli e regole. I frequentatori sono
più o meno discontinui quanto a presenza. C’è l’abitudinario che arriva e se ne
va sempre alla stessa ora, non prima di aver ordinato la solita bevanda,
sorseggiata durante la solita partita a carte, giocata coi soliti compagni. C’è chi
sembra destinare un monte ore periodico al bar e di volta in volta sceglie come
distribuirlo: questa settimana due ore lunedì e un’ora venerdì, quella dopo
mezzora ogni giorno e così via. C’è chi ci capita di tanto in tanto, con orari e
permanenze variabili. C’è il cliente occasionale, immediatamente squadrato,
tenuto d’occhio e giudicato dagli habitué. Infine c’è chi al bar vive. E’ il tipo che
al mattino alza la saracinesca assieme al barista e alla sera lo aiuta a
chiuderla. Da quanta confidenza ha con l’ambiente e la clientela, può
benissimo proporsi di sostituire il titolare, nel caso questi fosse indisposto.
Ovviamente, egli tenta di sfruttare questa sue aderenze per acquisire un peso
maggiore, un plus di considerazione all’interno della cerchia dei conversatori.
«Me l’ha detto in confidenza Mario (nome tipico del barista, ndr), stamattina
quando abbiamo aperto…», il suo incipit preferito. E da lì parte con lo
5
Augè Marc, 1993, Non luoghi, Milano, Elèuthera
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sproloquio, millanta conoscenze, giura e spergiura sulla sua buona fede,
propone di portare prove certe a suffragio di quel che dice. Ma subito viene
rimbrottato e tacitato da un altro avventore, famoso per la sua scontrosità, che
a sua volta propone la sua versione. Così si può andare avanti teoricamente
all’infinito, ma non succede mai. Di solito quando si giunge al climax del
diverbio, arriva colui che ha la funzione del paciere o quello che “quando parla
lui, tutti gli altri zittiscono e non replicano”. Allora di botto il clima si stempera e,
magari dopo un rituale «Vaff…, non capisci niente, con te è inutile discutere»,
si passa come se niente fosse ad altro argomento.
Tutto questo fa parte della ritualità da bar, della rappresentazione che
quotidianamente avviene in esso e i cui attori sono, neanche a dirlo, gli
avventori. «Il bar come teatro: recita, messa in scena, gioco delle parti», per
dirla con Triani
6
. Ognuno ha una parte e la interpreta, seguendo un copione
standard e regole non scritte, che non si vedono, ma ci sono e si tramandano.
Marionette tirate da un filo invisibile, pupi manovrati da un puparo che resta
rigorosamente dietro al palcoscenico. Cosa spinge i clienti del bar a indossare
ogni volta la maschera che gli è stata attribuita? Cosa li porta a recitare
sempre meglio, sempre più calati nella parte, giorno dopo giorno? Perché
taluni si immedesimano così tanto nel personaggio che interpretano, tanto da
far combaciare questo sé situazionale che attivano quando varcano la porta
del bar, con quello che invece meglio li rappresenta nella vita di tutti i giorni,
fatta (speriamo) di altre cose, oltre che di vita baristica?
Voglia di protagonismo, spettacolarizzazione del privato e
dilatazione della dimensione chiacchierante, […] perché la «cultura
da bar» tradisce anche il desiderio di recuperare la dimensione del
vicinato, dell’appuntamento festivo in piazza. E’ la riconoscibilità
sociale e comunitaria che è in gioco e che viene ricercata. Ritrovarsi
tra amici e consumare non solo bevande ma degustare anche
rapporti, relazioni.
7
6
Triani Giorgio, 1994, op. cit. , p. 24
7
Ibidem, p.25
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14
Un senso di appartenenza, dunque, che consente anche al più comune
degli uomini di assurgere al rango di personaggio, dotato di soprannome e con
una storia personale da raccontare. Convivialità di gruppo, fatta di parole e
gesti in libertà, talvolta anche troppo, fino a scadere nel turpiloquio e nella
volgarità gestuale. Ma anche se la discussione si fa accesa e volano parole
grosse, tra i partecipanti non viene comunque meno il «consenso operativo».
Anche se le opinioni divergono nettamente e si arriva allo sfottò e al litigio,
tutto ciò non comporta mai la rottura definitiva, immediata e traumatica della
discussione. La chiacchiera da bar, qualsiasi sia l’argomento in oggetto,
essendo per definizione un esercizio collettivo, finisce con l’assomigliare ad
una soap opera di cui non si vede mai l’ultima puntata.
«L’asse attorno a cui ruota e si struttura la socialità da bar è indifferente
all’oggetto od argomento cui si applica. “Sportiva” nell’accezione più autentica,
nel suo concedere a tutti di parlare liberamente di tutto»
8
. Uno spettacolo, una
finzione. Non importa chi ha ragione o che alla fine ci sia o no un vincitore
della disputa verbale.
Quello che rende la discussione da bar magnetica, impossibile da non
partecipare, è proprio questa spudoratamente falsa mimesi della realtà. E’
tutto assolutamente falso, ma sembra totalmente vero. E in più è catartico.
Eccita enormemente gli animi, genera antagonismi. Ma all’interno di schemi
consensuali consolidati. Dà sfogo a istinti che giacciono sopiti ma pronti ad
esplodere dentro di noi, senza per questo minacciare l’ordine sociale
precostituito.
8
Ibidem, p.26
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15
1.3 Il cantore del Bar Sport
Oggetto di infinite critiche da parte di molti detrattori, il bar sport ha invece
trovato in uno scrittore bolognese il suo cantore. Parliamo di Stefano Benni,
che all’argomento ha dedicato due fortunatissimi libri: «Bar Sport» e «Bar
Sport 2000», che come già suggerisce il titolo, costituisce un aggiornamento
rispetto alla versione edita nel 1976. Giustapponendo una serie di quadri,
ironici ma spietatamente realistici, l’autore descrive il variopinto mondo del bar
italiano, indagando esistenze e modi di fare di tutta la fauna di personaggi
caratteristici che lo popolano. Non vengono esclusi dalla trattazione nemmeno
elementi d’arredamento apparentemente insignificanti, quali il bancone o
l’insegna. Questo, perché tutto contribuisce a dare un senso particolare
all’insieme. Non stiamo parlando di un bar sport con tutti gli attributi se non c’è
almeno una sporca vetrinetta contenente paste vecchie di anni, un telefono in
fondo a destra, un bagno introvabile e un biliardino che mangia i gettoni. Così
come non possono mancare il nonno che sputa per terra, il garzone di bottega
specializzato in corse spericolate sotto i portici, il bambino rompiscatole che
con modica spesa e tanto mestiere riesce a portarsi via una quantità enorme
di gelato.
Ma soprattutto – veri animatori delle giornate passate in quel luogo – non
possono non esserci i conversatori da bar. Veri tuttologi, capaci di districarsi
con uguale disinvoltura tra una disputa sulle previsioni del tempo e una
dissertazione sulla situazione mediorientale. Ovviamente, convinti di essere
sempre i detentori della verità assoluta ed inattaccabile. In venti anni, ci fa
notare Benni, è cambiata un po’ la forma ma non la sostanza. Il maniaco del
telefono è passato dal rannicchiarsi dentro la cabina della SIP al «DDT»,
ovvero drogato da telefonino che si fonde con l’inseparabile cellulare. Se prima
il playboy da strapazzo raccontava di epiche spedizioni al night club di
Modena, ora punta sulle «disco» della riviera romagnola. Resistono le
vecchiette sedute al tavolino d’angolo, pure loro con qualche modernizzazione:
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Rispetto alle protovecchiette, che parlavano di malattie con
approssimazione, inquadrandole nella più vasta categoria delle
Disgrazie e Punizioni Divine, le neovecchiette hanno dalla loro ore
di letture e di trasmissioni televisive specializzate, nonché di
frequentazioni ambulatoriali.
9
Tutto sommato, quindi, la varia e colorita umanità che affolla quel caratteristico
bar che tutti possiamo trovare ancora oggi nelle nostre città – anche se forse
un po’ più nascosto rispetto a qualche decennio fa – sembra essersi fermata
nel tempo, cristallizzata nella forma e anche nella sostanza. Sembrano
confermarlo anche i temi di cui si discute più frequentemente. In rigoroso
disordine: politica, sport e sesso
10
. Considerando da dove siamo partiti, sarà il
caso che ci limitiamo al secondo tema.
Gli opinionisti da bar, l’abbiamo detto, possono vantare su un’enciclopedica
conoscenza di tutti i fenomeni dello scibile. In particolare, alcuni di loro si
caratterizzano in mezzo a tutti gli altri “cittadini della repubblica baristica”,
specializzandosi su certi temi o arroccandosi testardamente su posizioni
difficilmente difendibili in un contesto altro rispetto a quello che si consuma tra
un aperitivo e la lettura dei quotidiani sportivi. Benni si sofferma specialmente
su un paio di categorie, i cui rappresentanti sono ovviamente da ricercarsi
nella schiera dei frequentatori abituali. L’interprete principale della diatriba di
argomento sportivo e calcistico in particolare, è il «tecnico, più comunemente
chiamato “tennico” o anche “professore”»
11
. Di cosa parla un tecnico? «Di
calcio, di sport in genere, di politica, di morale, di macchine, di agricoltura […]
In una parola, di tutto. Quale che sia l’argomento trattato, il tecnico lo conosce
almeno 10 volte meglio dell’occasionale interlocutore». Come parla il tecnico?
«Parla un italiano leggermente modificato […] cita largamente dal latino: sine
qua non (siamo qua noi) o fiat lux (faccia lei)»
12
.
9
Benni Stefano, 1997, Bar Sport 2000, Milano, Feltrinelli, p. 58
10
Farnè R., Un questionario sul bar, alcune considerazioni, in Farnè R, Frabboni F. (a cura di), 1987, Al
bar e oltre, Bologna, Cappelli, p. 65-7
11
Benni Stefano, 1976, Bar Sport, Milano, Feltrinelli, 1997, p. 25
12
Ibidem, p. 26
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17
In eterna opposizione rispetto al tecnico, vive «l’uomo col cappello», la cui
funzione sembra di essere quella di intervenire con tremende eresie, facendo
saltare i nervi all’interlocutore, che si fa forza della sue oceaniche conoscenze,
frutto di anni ed anni di giornaliere ed appassionate letture dei maggiori
quotidiani sportivi. Prima dell’avvento della televisione, infatti, per godere dello
status di intenditore sportivo insito nella figura del tecnico da bar «era
sufficiente frequentare lo stadio, parlare un italiano medio e leggere almeno un
quotidiano sportivo». Ma con l’avvento del piccolo schermo, «il tecnico fu
costretto ad allargare l’area geografica di competenza, nonché la precisione
delle informazioni e la conoscenza delle lingue»
13
. Il neotecnico è
computerizzato e satellitare, segue il campionato finlandese e cita a memoria
statistiche di quello salvadoregno. Anche lui con gli anni ha perso qualcosa.
Per esempio, non può più lanciare la sua invettiva più celebre contro
l’oppositore di turno. Oggi infatti, accusare qualcuno di essere un «tecnico di
serie C» più che un offesa è un complimento, visto il giro di denaro che
coinvolge ormai anche la terza serie.
Fortunatamente per lui, c’è un altro personaggio da bar che assicura grandi
quantitativi di carne da far cuocere nel fuoco eterno della polemica. E’
«l’incazzato, prodotto di due diffuse malattie moderne: il protagonismo e
l’intossicazione da chiacchiere»
14
. Blando l’avvio della polemica, ma dopo una
pausa atta a individuare l’interlocutore adatto, essa esplode in tutto il suo
fragore. Ce l’ha un po’ con tutti il nostro polemista. «La sua incazzatura è così
globale e pervasiva che può passare da un obiettivo all’altro nella stessa
espirazione di fiato», nota Benni. Riuscire ad interloquire con lui è assai
difficile, perché egli ama soprattutto il suono della sua voce e perché è
realmente difficile star dietro a qualcuno che sostiene posizioni opposte nel
giro di pochi secondi.
In mezzo a tal vaniloquio, sembra impossibile che qualcuno riesca a farsi
ascoltare senza essere controbattuto. Eppure c’è. Non è per una questione
d’età, perché allora i nonni da bar riuscirebbero ad ascoltare la televisione
senza essere soverchiati dalle urla di coloro che si stanno accalorando sulle
13
Benni Stefano, 1997, op cit. , p. 92
14
Ibidem, p. 37
Nicola Bellon – Bar Sport di provincia
18
caratteristiche dell’ultimo “colpo di mercato” dell’Inter. Forse, proprio nel luogo
dove la cultura intesa come conoscenza è alla portata di tutti e ognuno aspira
ad esserne il detentore assoluto, è una forma di rispetto per chi ha alle spalle
qualche anno in più di fatiche sui libri, rispetto alla media dei frequentatori.
«L’ha detto il professore», è la frase che pone fine ad ogni diatriba. Già, il
Professore, simpatico ometto un po’ avanti con l’età, insegnante in pensione di
greco e latino, distinto e pacato, tranne quando sente pronunciare frasi
sgrammaticate. «Quando col suo bell’accento partenopeo racconta con la
stessa enfasi il suicidio di Seneca e l’atterramento in area di Savoldi, dentro al
bar non si sente volare una mosca»
15
. Anche quando divaga, dissertando di
filosofia e morale - ciò è spesso dovuto «all’ingestione di modeste quantità di
alcool etilico» - è tenuto in gran considerazione. Anche i più irrefrenabili
parolai, di fronte alla sua cultura, tacciono, fanno la faccia triste e tirano dei
gran sospiri. Non si sa se per condiscendenza o per consapevolezza di
manifesta inferiorità.
Di questi e di tanti altri strani tipi, così simili a tante persone che nella vita
reale conosciamo davvero, ci parla Benni. Lo fa intrecciando le loro
caratterizzazioni, spostando repentinamente il focus dalle vecchiette al
tecnico, dall’insegna traballante alla storia del ragioniere innamorato della
cassiera, dal nonno campione di videogame all’elencazione dei vari tipi di
bancone. Questo metodo narrativo ben rispecchia l’andamento delle
discussioni da bar, capaci di concentrare su un argomento la foga oratoria di
tutti i convenuti, per poi altrettanto repentinamente sviarla verso un tema
totalmente differente.
Tutto questo con la più assoluta naturalezza, senza mai dare l’impressione di
aver lasciato una conversazione a metà, ma anzi facendo sembrare il tutto un
unicum omogeneo e indissolubile. Un ascoltatore sprovveduto o neofita in fatto
di cose da bar, se richiesto di un commento sulla natura di tali discorsi,
probabilmente li paragonerebbe a un flusso di coscienza, a un sogno. In effetti,
la velocità con cui analisi di fatti diversi e opinioni contrastanti si fondono e si
frammischiano, è pari a quella che il subconscio adopera per accostare
15
Benni Stefano, 1976, op. cit. , p. 29
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19
immagini a casaccio, che danno poi vita ai nostri film onirici. Ma provate a
chiedere a un «tecnico» o a un «professore», che di sicuro ne sapranno più di
voi. Presumibilmente, la loro risposta sarà: “Lei non capisce niente!”.
Dopodiché, con la lodevole intenzione di mettervi a parte della verità assoluta,
cioè quella detenuta in esclusiva da loro, vi impegneranno in una discussione
che durerà un paio d’ore. Alla fine vi ritroverete a dissertare sulle targhe
alterne. Non capirete come siete potuti arrivare fin lì, ma pur di farli tacere,
darete loro ragione. Decretando così, la loro ennesima vittoria.
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1.4 Fortuna e orizzonti della chiacchiera sportiva
Parlare, almeno in certe situazioni comunicative, è meno impegnativo
rispetto allo scrivere. Lo è ancora di più quando il tema è lo sport in generale e
il calcio in particolare. L’Italia è famosa per essere una nazione composta di 56
milioni di allenatori. La palla, poi, è sempre rotonda. Dunque, si può dire tutto e
il contrario di tutto, senza peraltro che di ciò rimanga traccia: questa volatilità
della parola è un gran incentivo ad esprimere un parere globale e onnisciente,
senza remore né ritegno. Anche perché l’importante in fondo è apparire, farsi
vedere, esistere. Per farlo, basta articolare dei suoni, che non devono
necessariamente formare enunciati di senso compiuto, anzi, più sono tronchi e
pieni di sottointesi, più vengono tenuti in considerazione. Se poi al cocktail
aggiungiamo anche un tono di voce elevato, quasi al limite del grido isterico,
otterremo, almeno per pochi secondi, l’attenzione degli astanti.
Superficialità ed autoreferenzialità sono due caratteristiche importanti del
discorso sportivo. Parodia dello pratica sportiva vera, che genera benessere e
stimola l’autocontrollo in chi la pratica, «il parlar di sport dà luogo solo ad uno
sterile esercizio verbale in cui al limite il gioco vero, lo spettacolo reale, la
contesa agonistica potrebbero anche non esistere, considerando che spesso
si parla di fatti nemmeno visti in prima persona ma addirittura letti»
16
.
Chi pratica la chiacchiera sportiva, stempera in essa ardori ed energie
fisiche e mentali che egli ritiene così impiegate bene e che, in assenza di
questa, rivolgerebbe verso altri obiettivi. Lo sport ha infatti il pregio di
configurarsi come un conflitto reale, pur rimanendo in una dimensione ludica.
Per quanto vacue possano apparire le infinite diatribe tra juventini e
antijuventini, tra sostenitori di questo e di quel campione, esse assolvono ad
un’importante funzione di valvola di sfogo. In assenza di esse, tutti quelli che in
questo modo scaricano la loro aggressività, si troverebbero a doverla rivolgere
verso altri campi. Privati del ruolo di onorevoli e senatori nel parlamento delle
parole che si riunisce in seduta perenne al bar, finirebbero probabilmente per
reclamare uno spazio di espressione a livello politico. Se, unendo gli iscritti di
tante sezioni (le migliaia di bar sparsi per la penisola), il partito della
16
Triani Giorgio, 1994, op. cit. , p. 28