5
descritte le differenze, a carattere teorico e metodologico, sottostanti alle diverse ricerche,
principalmente in relazione ai diversi sistemi di campionatura utilizzati negli studi svolti
sulla popolazione e tramite i registri nazionali. Vengono illustrati i principali strumenti
(interviste e questionari) impiegati nell’esplorazione del fenomeno, e proposte, quindi,
alcune considerazioni sulla situazione italiana.
Infine, il quarto ed ultimo capitolo riporta un’indagine svolta dal nostro gruppo di
ricerca, all’interno di un più ampio studio a carattere esplorativo sulla situazione del
maltrattamento infantile nel territorio fiorentino.
6
I. DEFINIZIONI TEORICHE INTERNAZIONALI
I.1. Il problema delle definizioni
Camminando lungo le strade delle nostre città capita sempre più frequentemente di
imbattersi in decine di negozi destinati alla vendita di prodotti per l’infanzia:
dall’abbigliamento agli articoli per l’igiene, dai giocattoli ai minuscoli servizi per la
pappa. Gli scaffali dei supermercati straripano di generi alimentari studiati apposta per i
bambini, le farmacie mettono a disposizione prodotti sempre più ricercati per le esigenze
dei loro piccoli clienti, i mezzi di comunicazione mediatica si rivolgono in maniera
intensa e continua a spettatori sempre più giovani. Eppure, accanto a questo pullulare di
interesse e concentrazione sul mondo dei bambini, contemporaneamente con la nascita di
servizi, strumenti e strutture per la cura e l’accudimento dei più piccoli, rimane forte e
intensa la richiesta di aiuto di tante giovani vittime di maltrattamenti e abusi.
I.1.1. Fattori storici, culturali, economici e sociali
Quella del bambino è una figura sociale scoperta solo recentemente. Più si retrocede nel
tempo, infatti, e più frequenti appaiono la trascuratezza e la mancanza di attenzione e di
interesse prestata al tema dell’infanzia. (De Mause 1983). Fino a pochi secoli fa, infatti, i
bambini erano considerati imperfetti, non godevano di diritti di alcun tipo ed erano
oggetto di autoritarismo e vessazioni di ogni genere da parte degli adulti. Studi storici e
cross culturali confermano tali situazioni, mettendo bene in evidenza come il fenomeno
del maltrattamento non sia un frutto del moderno mondo occidentale, quanto una realtà
sempre esistita, pur con caratteristiche diverse in relazione al contesto di appartenenza.
Volendo effettuare un breve excursus storico, possiamo notare, ad esempio, come il
codice di Hammurabi, in vigore a Babilonia nel XIX secolo a.C., non prevedesse alcuna
punizione per il padre infanticida, essendo il neonato privo di qualsiasi riconoscimento
giuridico, sia come individuo, che come membro della famiglia. A Sparta i bambini
deformi venivano gettati dalla rupe Tarpea, comportamento che lo stesso Platone nel V
libro della Repubblica incoraggiava e sosteneva; anche Aristotele nella Politica, esprimeva
il proprio consenso nei confronti dell’infanticidio, se effettuato allo scopo di evitare una
sottrazione di risorse alla famiglia e alla comunità. Nel diritto romano arcaico, i poteri del
pater familias erano assoluti: egli aveva diritto di vita e di morte sui figli (ius vitae et
necis),in quanto considerati sua proprietà. E ancora, fin dagli albori della storia, la sorte
dei bambini è stata quella di essere oggetto di violenza sessuale. All' epoca di Mosè, per
esempio, i costumi ebraici erano rigorosissimi verso la sodomia agita su ragazzi di età
superiore ai 9 anni, ma l'atto sessuale con bambini di età inferiore non veniva neppure
ritenuto tale. Nell'antica Atene le relazioni omosessuali con ragazzi facevano parte dei
costumi della città, in ragione dell’opinione secondo cui la relazione sessuale favoriva la
7
trasmissione di sapere dal docente al discente, usanza diffusa anche nell’antica Roma, ma
senza giustificazioni di tipo pedagogico e filosofico. Quello che sembra essere di rilievo,
in questa breve presentazione, è il fatto che nel contesto storico specifico nessuno dei
comportamenti citati era considerato un abuso, tanto dagli adulti quanto dai bambini. La
stessa cosa è vera per i comportamenti e le usanze del Medioevo, periodo che ha visto una
diffusa promiscuità tra adulti e bambini, i quali condividevano spesso il letto con i
genitori, altri parenti o servitori , finendo per diventare di frequente oggetto di attenzioni e
molestie. Questa abitudine rimase sino all'inizio del Seicento e oltre, tanto nelle famiglie
nobili quanto in quelle dei ceti meno abbienti, ed iniziò ad essere messa in discussione
solo a partire dalla seconda metà del XVII secolo (Oliviero Ferraris et al. 1999).
Le differenze rilevate tra le molteplici forme di maltrattamento messe in atto nei
confronti dei bambini, sono dunque ascrivibili ai diversi contesti storici nei quali
avvenivano. Un altro elemento di diversificazione è costituito dal contesto culturale e
sociale. In alcuni Paesi dell’America Latina, per esempio, la forte struttura patriarcale dà
potere al padre di esercitare un autoritarismo assoluto sul resto della famiglia; in alcuni
territori africani, invece, vengono ammessi e consumati regolarmente rapporti sessuali con
bambini all’interno di pratiche religiose e curative (Busoni 2000). Troviamo inoltre
significative differenze tra Ovest ed Est del mondo: mentre gli effetti dell’abuso ed i
pattern comportamentali delle vittime rimangono pressoché invariati, riscontriamo infatti
una minor incidenza di violenze di tipo fisico e delle forme più invasive di abuso sessuale
(con penetrazione) nei Paesi orientali (Chen et al. 2004). E ancora, esiste una sostanziale
differenza tra le tipologie di abuso agite nei paesi occidentali, prevalentemente di tipo
intrafamiliare, e quelle presenti nei paesi in via di sviluppo, principalmente ad opera di
persone estranee alla famiglia (Di Blasio 2000). Queste differenze possono essere
attribuite alle diverse problematiche di genere economico e sociale proprie di queste
realtà, che indirizzano il comportamento di adulti verso atti delinquenziali e tristemente
lucrosi quali lo sfruttamento lavorativo, il traffico e la vendita di minori e la prostituzione
infantile (Doek 1991). Alcuni autori mettono, inoltre, in luce come molto spesso gli stessi
cambiamenti nella struttura di società più tradizionali possano essere all’origine di
attenzioni particolari e fino ad allora sconosciute nei confronti dell’infanzia; è il caso, per
esempio dell’incremento di abusi sessuali su bambini nell’Africa Sub Sahariana, seguiti,
secondo Fraser et al. (1980), alla disintegrazione delle autorità dei clan e al repentino
tracollo della società tradizionale.
Nella nostra cultura le diverse forme di maltrattamento nei confronti dei bambini sono
state per secoli tollerate, se non approvate e ben accolte, in ragione di una società che
rimandava dell’infanzia un’immagine negativa, e che descriveva il fanciullo come una
creatura dotata di impulsi egoistici, da contrastare e modellare al fine di adattarlo alle
richieste del mondo adulto (Di Blasio 2000). Con l’Età Moderna iniziarono a farsi strada
sempre di più, nella coscienza collettiva, attenzione ed interesse nei confronti
dell’infanzia; nonostante ciò le condizioni dei bambini non migliorarono in modo
significativo. La rivoluzione industriale, in particolar modo, fu responsabile di uno
sfruttamento su larga scala del lavoro minorile, nonché dell’abbandono di migliaia di
neonati a causa dell’impegno massiccio delle donne nelle fabbriche. Nel XIX secolo, poi,
si diffusero in Europa numerosi istituti per orfani e bambini abbandonati, accolti e allevati
in condizioni di grave disagio psichico e fisico. E’ necessario aspettare gli anni Sessanta
perché il concetto di maltrattamento e abuso all’infanzia venga riconosciuto. In particolar
8
modo la descrizione della Battered Child Syndrome, proposta da Kempe nel 1962, che
illustra l’insieme dei traumi fisici, ripetuti e non accidentali, che in genere colpisce
bambini al di sotto dei 3 anni (Gulotta 2002), indirizzò ufficialmente l’attenzione verso un
problema sempre esistito, ma fino ad allora ignorato
I.1.2.Verso una definizione di maltrattamento all’infanzia
Nel corso degli ultimi cinquant’anni il fenomeno del maltrattamento e dell’abuso è
stato accolto e riconosciuto con flessibilità e interesse sempre maggiore. Da un primo
momento di negazione della dimensione del problema, ad una prima accettazione delle
forme più eclatanti della Battered Child Syndrome; dal riconoscimento di forme più sottili
quali la trascuratezza fisica, all’attenzione per quella emozionale, la deprivazione ed il
rifiuto, nonché in ultima analisi all’abuso sessuale: si è poco a poco arrivati a sostenere la
necessità di garantire che ogni bambino sia oggetto di cure fisiche ed affettive adeguate.
Se è vero che quest’ultima affermazione ha segnato il punto di partenza per la
concettualizzazione del fenomeno, bisogna tuttavia sottolineare come il punto di arrivo sia
stato raggiunto dopo anni di dissertazioni. I lunghi dibattiti che si sono susseguiti nel
corso degli ultimi decenni, infatti, evidenziano lo sforzo prodotto al fine di formulare una
definizione universalmente valida di maltrattamento all’infanzia. Un primo problema
riguarda il variare di tale definizione in rapporto al contesto di riferimento: prospettive
legali, mediche, psicologiche o dei servizi sociali, infatti, adottano a tal proposito criteri
diversi, interpretando ciascuna a suo modo ciò che costituisce o meno maltrattamento. Un
altro ambito della questione è relativo al duplice aspetto del fenomeno: quello di atto
commesso (o omesso) e quello riguardante il vissuto soggettivo del bambino che lo
subisce (Gulotta 2002). Ci si chiede, cioè, se la gravità dell’atto debba essere giudicata in
ragione dell’intenzione dell’aggressore e della natura dell’azione stessa o piuttosto rispetto
alle conseguenze riportate dal bambino. Questa particolare argomentazione del dibattito
implica la possibilità di uno stesso agito di avere effetti diversi su persone diverse e
viceversa, insinuando l’infida possibilità che nessun’azione possa essere considerata
maltrattante univocamente, ma solo in relazione a specifici casi.
Il superamento di queste posizioni ha portato nel corso degli ultimi anni Settanta e dei
primi anni Novanta a definizioni di maltrattamento sempre più precise e indipendenti dal
contesto di enunciazione.
Nel IV seminario criminologico del Consiglio d’Europa, tenutosi a Strasburgo nel 1978
(Concil of Europe 1981), è stata proposta una definizione di maltrattamento, che prendeva
in considerazione tanto gli atti quanto le carenze che turbassero gravemente i bambini,
attentassero alla loro integrità corporea, al loro sviluppo fisico, affettivo, intellettivo e
morale, le cui manifestazioni erano la trascuratezza e/o le lesioni di ordine fisico e/o
psichico e/o sessuale da parte di un familiare o di un terzo.
Nel 1981 il Consiglio d’Europa (Concil of Europe 1981) apporta una lieve, ma
interessante modifica a tale definizione, specificando il ruolo di vicinanza che l’autore di
reato rivestiva nella relazione con la vittima, di cui poteva essere un parente o una persona
che se ne prendesse cura.
9
Nel 1989 Caffo indica come abuso
“.. ogni condizione che impedisce in termini permanenti e gravi lo sviluppo delle
potenzialità innate di crescita di un soggetto in età evolutiva” (Caffo 1989, in Marioni
1991, p. 38).
Nello stesso anno la Convenzione sui diritti del fanciullo, con il contributo di 43 paesi
ed enti quali UNICEF, OMS, UNESCO e Croce Rossa, firmata dall’Assemblea generale
dell’ONU e ratificata anche in Italia tramite la legge n°176 del 27 maggio 1991, propone
una definizione più elaborata, riferendosi al
“.. danno o abuso fisico o mentale, trascuratezza o trattamento negligente, al
maltrattamento, alle diverse forme di sfruttamento e abuso sessuale intese come induzione
e coercizione di un bambino/a in attività sessuale illegale, lo sfruttamento nella
prostituzione o in altre pratiche sessuali illegali, lo sfruttamento in spettacoli e materiali
pornografici, torture o ad altre forme di trattamento o punizioni crudeli, inumane o
degradanti, allo sfruttamento economico e al coinvolgimento in lavoro rischiosi” (Di
Blasio 2000, p. 14).
A questa definizione, seppur dettagliata ed accettata a livello internazionale, si
preferisce per praticità e chiarezza la classificazione enunciata dal Child Protection
Register inglese nel 1991 (Gibbons et al.1995) che sintetizza quanto descritto sopra in
quattro categorie: abuso emozionale o psicologico, trascuratezza, abuso fisico e abuso
sessuale.
I.2. Tipologie di maltrattamento all’infanzia
I.2.1. Abuso psicologico
I termini “abuso psicologico” e “abuso emozionale” vengono usati spesso in maniera
intercambiabile (O’Hagan 1995). In base ai contesti culturali di riferimento si preferisce
usare l’uno piuttosto che l’altro, come nel caso della Gran Bretagna e dell’Australia che
prediligono parlare di emozional abuse, e dagli Stati Uniti che adoperano con maggior
frequenza psychological abuse. In realtà, la confusione a livello internazionale esistente
tra le diverse terminologie è attribuibile alla poca importanza che per molti decenni
strutture e agenzie di tutela dei minori hanno prestato a queste forme di violenza, in favore
di trascuratezza, abuso fisico e sessuale reputati ben più gravi dal punto di vista degli
effetti sulle vittime. La International Conference on Psychological Abuse of Children and
Youth, tenutasi negli Stati Uniti nel 1983 (Hart et al. 1987), propone ufficialmente
l’utilizzo di abuso psicologico come dicitura più ampia all’interno della quale inserire
anche l’abuso emozionale, decisione a seguito di cui diversi autori hanno preso posizioni
differenti. Chi è d’accordo con la definizione di abuso psicologico come categoria
principale di riferimento, ritiene che questa includa tutti gli aspetti affettivi e cognitivi
derivati dal maltrattamento sui bambini, considerando aspetti cognitivi ed emozionali una
duplice facciata della vita e dello sviluppo psicologico dei bambini. Diversamente, la
British 1989 Children Act, che distingue chiaramente i due tipi di abuso, attribuisce quello
emozionale all’ambito dello sviluppo affettivo ed emotivo dell’individuo, e quello
10
psicologico all’ambito della salute mentale (White et al.1990).
In questa trattazione si è preferito utilizzare la definizione unica di abuso
psicologico, comprendendo al suo interno gli aspetti affettivi, cognitivi ed emozionali,
tutti coinvolti nei meccanismi del maltrattamento. Si delinea, in questi termini, come la
reiterazione di pattern comportamentali quali ricatti, minacce, punizioni, indifferenza,
squalifiche, mancanza di rispetto, eccesso di pretese, richieste sproporzionate all’età e alle
caratteristiche del bambino; tali agiti, ripetuti nel tempo, diventano parte della relazione
dell’adulto nei confronti del bambino o dell’adolescente (Foti 2001).
Quello psicologico è probabilmente il tipo di maltrattamento più difficile da definire: se
i contorni sono troppo vasti rischiano di comprendere qualsiasi comportamento dei
genitori, se troppo ristretti di escludere forme di maltrattamento più mascherate.
E’importante considerare, inoltre, il fatto che spesso si presenta in concomitanza con altre
tipologie di maltrattamento. Secondo l’Office for the Study of the Psychological Rights of
the Child dell’Indiana University rientrano in questa definizione: a)disprezzare,
b)terrorizzare, c)isolare, d)sfruttare e/o corrompere, e)mancare di responsività emozionale
(Di Blasio 2000); altri autori aggiungono la categoria di trascuratezza nella salute
psicologica, medica ed educativa (Hart et al. 1996). Gulotta (2002) parla anche di rifiuto e
deprivazione.
Un particolare aspetto dell’abuso psicologico, che solo recentemente ha trovato spazio
nell’ampia letteratura dedicata al fenomeno, riguarda la possibilità che le sue
manifestazioni agiscano sulla giovane vittima in modo diretto tanto quanto indiretto (Hart
et al. 1996). Buka et al. (2001) ampliano questo concetto definendo l’ esposizione alla
violenza sulla base di tre dimensioni: a)una primaria che indica l’essere direttamente
vittima di un episodio di violenza; b)una secondaria che fa riferimento all’assistere
visivamente o all’ascoltare episodi violenti; c)una terziaria che riguarda l’apprendere o il
venire a conoscenza di episodi di violenza, di morte o di grave danno recato ad un’altra
persona. Mentre la maggior parte degli studi si è focalizzata sulla prima dimensione del
problema, descrivendone caratteristiche ed effetti, alle altre due, che riguardano l’ambito
della violenza indiretta, è stata dedicata un’attenzione relativamente ridotta. Questa
seconda faccia del maltrattamento psicologico, che prende il nome di violenza assistita
(witnessing), viene definita dal CISMAI come “.. l’esperire da parte del bambino qualsiasi
forma di maltrattamento compiuto attraverso atti di violenza fisica, verbale, psicologica,
sessuale ed economica su figure di riferimento o su altre figure affettivamente
significative, adulte o minori. Il bambino può farne esperienza direttamente (quando essa
avviene nel suo campo percettivo), indirettamente (quando il minore è a conoscenza della
violenza), e/o percependone gli effetti. Si include l’assistere a violenze di minori su altri
minori e/o su altri membri della famiglia e ad abbandoni e maltrattamenti ai danni di
animali domestici”. (CISMAI 2006)
La violenza assistita è stata per molto tempo trascurata e considerata di implicazione
appena marginale nella rilevazione di disagio infantile. I primi studi risalgono ad
osservazioni effettuate nelle case rifugio a indirizzo segreto che accoglievano madri
maltrattate in ambito domestico assieme ai figli, rilevazioni che hanno ben evidenziato i
danni psichici riportati da bambini coinvolti. Luberti et al. (2005), nel descrivere le
reazioni manifestate da queste giovani vittime, sottolineano come spesso esse possano
agire comportamenti ed atteggiamenti ostili, sentirsi responsabili delle violenze a cui
hanno assistito senza essere stati capaci di intervenire, e comportarsi a loro volta in
11
maniera aggressiva salvando in tal modo il legame col genitore abusante o raggiungendo
una sensazione, seppur fittizia, di controllo e potere. L’auto colpevolizzazione, in
particolar modo, si presenta tanto più frequentemente, quanto più è giovane l’età del
bambino, in ragione di un’immaturità dei meccanismi messi in atto dallo stesso per
interpretare e attribuire una spiegazione a quanto sta avvenendo attorno a lui. Un altro
effetto che tale forma di maltrattamento agisce sui piccoli è quello di insinuare in loro
l’idea che la violenza sia normale nelle relazioni affettive e che l’espressione di emozioni,
sentimenti, pensieri e bisogni sia pericolosa in quanto potenzialmente scatenante la
violenza stessa. L’esposizione alla violenza può inoltre inibire nei bambini le normali
pulsioni aggressive, per la paura e il senso di colpa associati a rabbia, odio e risentimento,
ai quali essi non possono permettersi di accedere, oppure può determinare la
normalizzazione dei comportamenti a cui hanno assistito (Montecchi 2005). Un’ultima
considerazione riguarda infine il ruolo giocato dalla violenza assistita nell’incarnare uno
dei maggiori fattori di rischio per lo sviluppo di comportamenti violenti in età adulta,
fenomeno confermato da numerose ricerche (Straus et al. 1990; Dutton et al. 1992; Milani
et al. 2005). Sulla base di queste evidenze, pertanto, un passo fondamentale da compiere
è rappresentato proprio dall’ orientare l’attenzione di servizi e agenzie per la tutela
dell’infanzia in questa direzione.
I.2.2. Trascuratezza
La trascuratezza si definisce come una severa o persistente negligenza nei confronti del
bambino, che implica un fallimento dell’attività di cura, nonché nella protezione
dall’esposizione a situazioni rischiose e pericolose.
Rispetto alle altre forme di maltrattamento, questa si delinea come particolarmente
subdola e sottile, tanto che le sue cicatrici difficilmente appaiono visibili nell’immediato.
Soprattutto i bambini sperimentano una grande difficoltà nell’avvertirla, perché gli atti
con cui si manifesta risultano impliciti e difficilmente passibili di un’azione autoriflessiva
(Erickson et al. 1996). Esistono manifestazioni diverse di trascuratezza, che tuttavia si
presenta sempre come cronica e potenzialmente fatale. Queste possono essere così
sintetizzate: a)trascuratezza fisica, b) trascuratezza emozionale, c)trascuratezza medico-
sanitaria, d)trascuratezza nei casi di disagio mentale, e trascuratezza educativa (Gulotta
2002). La prima è quella più manifesta; riguarda omissioni nei compiti di protezione del
bambino da pericoli, situazioni dannose o terrificanti, nel soddisfacimento dei bisogni
fondamentali compresi l’avere una casa, nutrimento, vestiti. La seconda invece risulta la
forma più mascherata e si presenta frequentemente quando il bambino è troppo piccolo
per parlare o comprendere la penuria di cure che riceve. La trascuratezza medica investe
esclusivamente l’ambito sanitario, consistendo nella mancata fornitura delle cure mediche
necessarie (quali vaccinazioni, visite, farmaci, interventi). Similmente alla precedente, la
trascuratezza nei casi di disagio mentale riguarda l’omissione di cure e supporto
professionale adeguato al bambino che abbia difficoltà cognitive, emotive e
comportamentali. La trascuratezza educativa, infine, ricopre un diversificato ventaglio di
possibilità, andando da una mancata collaborazione e coinvolgimento nelle attività
scolastiche del bambino, ad un’aperta opposizione nei confronti della sua istruzione.
Oltre a queste forme che implicano deprivazione ed assenza di cure, ne esistono altre
due che si manifestano con altrettanta pericolosità per il bambino: la discuria e l’ipercura