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che vede cambiare intorno a sé; la sua visione del mondo, del tempo, delle
cause e degli effetti non gli consente di abbracciare ancora tutto l’arco delle
possibilità e delle spiegazioni ragionevoli degli eventi. Proprio la sua fragilità
e vulnerabilità dovrebbero far mettere in moto da parte degli adulti che lo
circondano (genitori, parenti, medici, infermieri, psicologi, educatori, maestri,
amici) una catena di interventi volti a sostenerlo nella prova che lo attende.
Non ha importanza quanto questa risulti effettivamente grande o pericolosa:
agli occhi di un bambino può apparire talvolta spaventosa, talvolta imprevista
altre volte senza apparente significato.
Spinta da un forte interesse (dovuto anche ad esperienze personali) per
il tema dell’ospedalizzazione dei bambini e delle pratiche di sostegno al
ricovero e alla degenza (pratiche non strettamente mediche ma di stampo
psicologico e pedagogico), ho voluto approfondire l’argomento da un punto di
vista di studio e professionale. Il presente lavoro di tesi è il risultato di una
scelta di tirocinio che mi ha permesso di entrare in stretto contatto con le
attività, le dinamiche, le emozioni vissute all’interno di un reparto di Pediatria.
Contemporaneamente all’esperienza sul campo (e da essa ispirata e stimolata),
ho condotto le ricerche bibliografiche necessarie alla compilazione di un
quadro storico e concettuale sull’argomento, così che teoria e pratica potessero
completarsi, suffragarsi o a volte smentirsi.
Nel primo capitolo, ho introdotto la tematica dell’ospedalizzazione del
bambino da un punto di vista puramente storico (a partire dal XX secolo),
affrontandone la sua evoluzione a livello internazionale attraverso le
teorizzazioni di numerosi Autori che si sono occupati, in ambito psicologico e
psicoterapeutico, della fascia infantile e delle sue peculiarità.
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Il secondo capitolo entra nello specifico della legislazione sui Diritti
Fondamentali del Bambino Ospedalizzato, analizzandone alcuni in particolare
e descrivendo un esempio di ricerca (svolta nell’ambito dei presidi ospedalieri
della Regione Veneto) che indaga la reale messa in atto di tali diritti
all’interno delle strutture dedicate alla cura dei più piccoli.
Gli studi più recenti e attuali condotti sugli aspetti psicologici
dell’ospedalizzazione e sul vissuto di malattia del bambino vengono esposti
nel terzo capitolo, che affronta una panoramica sulla presa in carico globale
del piccolo paziente, considerando il suo punto di vista, quello della famiglia e
degli operatori sanitari.
Nel quarto capitolo sono descritte le aree di intervento per mezzo delle
quali è possibile supportare il bambino e i genitori durante il periodo del
ricovero e di malattia: il gruppo dei pari, il gioco e la scuola. Nell’ambito di
ciascuna di esse, ho esposto le linee generali delle attività che attualmente
sono riconosciute come positive e significative per il sostegno alla degenza,
con un valore terapeutico e praticate a livello internazionale: il volontariato, la
presenza di Clown in corsia, la Pet Therapy, la lettura delle fiabe, l’utilizzo
della multimedialità…
Il quinto capitolo rappresenta una parentesi sulla condizione particolare
di ospedalizzazione di due “situazioni limite”: i neonati pre-termine e gli
adolescenti. Entrambe queste categorie richiedono attenzioni specifiche da
parte del personale (sanitario e non) e delle figure genitoriali, dovute alla
peculiarità della loro età o stato di salute.
Il sesto e ultimo capitolo tratta dell’esperienza personale di tirocinio
pre-laurea specialistica svolto all’interno del Dipartimento Materno-Infantile
del Presidio Ospedaliero di Treviso (in particolare nel rapporto tra Divisione
di Pediatria e Unità Operativa di Neuropsichiatria Infantile). Oltre alla
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descrizione dell’organizzazione del reparto e dell’insieme di associazioni che
vi operano, ho potuto esporre nello specifico alcuni dei numerosi progetti
portati avanti dalle diverse figure, professionali e non, con cui sono entrata in
contatto, dando un mio parere personale su quanto esperito e vissuto durante
tutto il percorso di tirocinio.
Data l’ampiezza delle tematiche trattate, la loro varietà e
l’aggiornamento continuo richiesto per lavorare in un ambiente composito e
complesso come un presidio ospedaliero, la presente trattazione si propone di
lanciare uno sguardo piuttosto vasto sull’argomento dell’ospedalizzazione e
del sostegno alla degenza dei bambini affetti da differenti patologie. Non si
sofferma sullo specifico di una di esse ma approfondisce maggiormente
l’aspetto qualitativo e psicologico dei rapporti interpersonali intrattenuti fra le
diverse figure che ruotano attorno ai piccoli pazienti. L’esperienza pratica
personalmente vissuta come tirocinante può suggerire alcuni elementi di ciò
che effettivamente viene messo in atto in un reparto di Pediatria, per rendere
meno traumatici e dolorosi la degenza di un bambino e i vissuti dei suoi
familiari.
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CAPITOLO 1
L’OSPEDALIZZAZIONE DEI BAMBINI:
SINTESI DELL’EVOLUZIONE STORICA NEL XX SECOLO
A LIVELLO INTERNAZIONALE
Il solo trauma a lungo termine
è quello che subiamo
senza un cambiamento positivo
-Leo Buscaglia-
1.1 Introduzione
La visione del ruolo sociale dell’infanzia ha subìto storicamente
notevoli cambiamenti. Nel panorama europeo, è la Costituzione Francese del
1793 a proclamare per la prima volta che i bambini sono portatori di diritti.
Ma solo due secoli più tardi tale affermazione ha cominciato a concretizzarsi e
svilupparsi veramente, testimoniando un forte rallentamento nel
raggiungimento di un traguardo rilevante come il pieno riconoscimento
giuridico e sociale del minore.
Addentrandosi nello specifico del tema trattato, anche l’evoluzione
delle pratiche di ospedalizzazione della fascia dell’infanzia e adolescenza ha
visto alternarsi nel corso dei secoli atteggiamenti e abitudini differenti. “Fino
alla fine dell’Ottocento l’ospedalizzazione della madre, conseguente al
ricovero del figlio, era attuata anche nei paesi occidentali. Alle madri
l’ingresso in ospedale è stato impedito solo in seguito, soprattutto nei primi
anni del Novecento quando la presenza di un’elevata mortalità e morbilità nei
neonati e nei lattanti fece pensare che ciò fosse dovuto alla presenza dei
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parenti in corsia e fece adottare misure di isolamento e di igiene più rigorose”
(Montecchi, 1991). Contemporaneamente alle prassi mediche e ospedaliere,
probabilmente influenzandosi a vicenda, si sono diffuse sempre di più le
indagini in ambito sociologico e si sono evoluti gli studi sullo sviluppo fisico e
psicologico dell’uomo a partire dai primi giorni di vita (ed anche prima della
nascita). Analogo sviluppo hanno avuto, di conseguenza, le teorie sui
comportamenti ritenuti migliori da adottare nei confronti dei neonati (normali
e patologici) per consentire loro il massimo benessere durante la crescita,
nonché le legislazioni internazionali riguardanti i diritti fondamentali dei
bambini. Attualmente è considerato un assunto di indiscussa importanza
ridurre al minimo la separazione del bambino dalla figura materna o da
qualsiasi altro componente particolarmente significativo della sua famiglia,
poiché tale separazione può comportare (in base alla fascia d’età) disturbi
comportamentali che nei casi estremi sono difficilmente reversibili. “Più
piccolo è il paziente e maggiori sono le necessità di cure materne, o in
sostituzione, di cure particolarmente “maternali” […] poiché non ha ancora i
mezzi sufficienti per affrontare e proteggersi dagli accadimenti del mondo”
(Benini, 2004). La strada che oggi porta a considerare questa ed altre
affermazioni ovvie e quasi scontate non è stata semplice e lineare ma ha
dovuto fare i conti con la rigidità e la standardizzazione di molte pratiche
mediche radicate, con la sordità e la cecità apparenti di molti medici e
operatori sanitari i quali non ritenevano ugualmente importanti per il benessere
del piccolo paziente gli aspetti psicologico-relazionali e quelli fisici e
fisiologici. In questo primo capitolo intendo quindi fornire una panoramica
sull’evoluzione storica della situazione dell’ospedalizzazione in Europa nel
secolo scorso, anche attraverso le prospettive teoriche di alcuni dei personaggi
più autorevoli nel campo della psicoterapia infantile.
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1.2 Un’indagine iniziale: il Rapporto Platt
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Nel 1959 fu pubblicato in Inghilterra un atteso rapporto intitolato “The
Welfare of Children in Hospital” (Il benessere dei bambini in ospedale),
meglio conosciuto come il “Rapporto Platt”, dal nome del noto chirurgo che
aveva avviato l’inchiesta. Tale resoconto si proponeva di trattare una serie di
aspetti non prettamente medici dell’assistenza ai pazienti pediatrici dalla
nascita ai sedici anni. Dalle indagini emersero numerose considerazioni e
conseguenti raccomandazioni per il miglioramento delle degenze ospedaliere
dei piccoli pazienti. I filoni principali erano tre:
- la possibilità e la necessità che le visite ospedaliere dei genitori ai figli non
subissero alcun tipo di restrizione;
- la messa in atto di provvedimenti per permettere alle madri di bambini al di
sotto dei cinque anni di rimanere in ospedale assieme ai figli;
- il miglioramento della formazione dei medici e del personale infermieristico
attraverso l’introduzione dello studio delle necessità emotive del bambino.
Nonostante l’accoglienza positiva da parte della stampa e dell’ambiente
sanitario, non fu così automatico passare dalla teoria alla pratica ed applicare
prontamente i dettami proposti. “Medici e infermieri degli ospedali sono stati
per tanto tempo abituati a fare le cose per la gente, che il concetto di farle con
la gente, ad esempio con i genitori, prende piede molto lentamente”
(Robertson, 1970). Allo stesso tempo però, già prima del 1959 alcuni primari
pediatri avevano cominciato a precorrere alcune fasi del processo di
1
Resoconto tratto da: Robertson, J. (1970). Poscritto al Rapporto Platt del1959. Milano: Feltrinelli
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umanizzazione
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della gestione di reparto, sviluppando anche l’ipotesi di
trasferire parte dell’assistenza ospedaliera a domicilio per ridurre al minimo le
conseguenze negative dell’ospedalizzazione. La situazione in ogni caso non si
uniformò contemporaneamente in tutto il Paese e il pericolo che le pratiche già
esistenti riprendessero il sopravvento risultava alto e concreto. Per questo si
rese necessaria un’azione profonda di sensibilizzazione dell’opinione pubblica
attraverso la pubblicazione di articoli, la diffusione e distribuzione di film
sull’argomento, la conseguente proposta di dibattiti e confronti collettivi che
chiamassero in causa al contempo medici, infermieri, genitori e il resto della
popolazione. Cominciarono a sorgere anche associazioni nazionali per il
benessere dei bambini in ospedale, ad opera di gruppi di genitori
particolarmente preparati e acculturati sul problema, in grado di suscitare
questioni mirate e riscuotere l’attenzione del personale medico. Tali
organizzazioni partirono “dal basso” ma si fecero forti del fatto che l’interesse
comune a staff ospedaliero e genitori doveva essere quello di concorrere al
massimo benessere del piccolo paziente.
Anche se il Rapporto Platt risultò un punto di svolta fondamentale per
la presa in esame delle effettive condizioni di accoglienza dei bambini nei
reparti pediatrici degli ospedali e suscitò interesse nel sostenere i tentativi di
cambiamento e miglioramento di tali condizioni, non comprese del tutto le
implicazioni dei principi di “igiene mentale” e salvaguardia del benessere
psicologico che andava proponendo; così le raccomandazioni incentivate,
analizzate secondo l’ottica attuale, spesso non risultano completamente
adeguate. Ad esempio, sembra non focalizzare abbastanza l’attenzione sulle
differenze fondamentali di trattamento richieste per bambini “brevedegenti” e
2
Il concetto di “umanizzazione delle cure”, qui semplicemente accennato, sarà trattato e approfondito
nei capitoli successivi.