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E’ sufficiente guardare una qualunque bibliografia per rendersi conto di quanto è
vasto questo campo di ricerca: molti tentativi, teorici e metodologici, sono stati
sviluppati per far fronte alla moltitudine di domande che circolano intorno a questa
sindrome. Gli aspetti da considerare non sono solo numerosi e complessi, ma si aprono
alla necessità di sviluppare una ricerca multidisciplinare, in grado di comprendere
tanto gli aspetti più prettamente comportamentali, quanto quelli psicologici,
attitudinali, scientifici e metodologici.
Se Leo Kanner, per primo, ha contribuito a circoscrivere i sintomi di tale patologia, è
anche vero che l’interpretazione e la diagnosi precoce dell’autismo incontra ancora
oggi notevoli difficoltà: prima di tutto si tratta di una condizione di difficile
accettazione da parte dei genitori e, secondariamente, molti sono ancora gli aspetti di
discussione e di contrasto fra gli studiosi che se ne occupano.
Questa tesi nasce con un obiettivo specifico, che non è quello di enunciare
semplicemente i sintomi o le cause dell’autismo.
Lungi da me pensare di poter ampliare i già vasti tentativi di sintetizzare le varie
conoscenze, il mio intento è quello di sottolineare un aspetto che ritengo
fondamentale: quello dell’integrazione scolastica e dell’inserimento, in classi normali,
dei bambini affetti da questa sindrome, soffermandomi con la dovuta attenzione sulle
dinamiche interne all’ambiente-classe e sulle metodologie più adatte al coinvolgimento
educativo di questi bambini.
Ciò nasce da un’esperienza personale, assolutamente coinvolgente, che mi ha posto
direttamente a confronto con una realtà che conoscevo solo grazie alle letture fatte.
Le teorie, le lezioni e gli insegnamenti che ho ricevuto sono serviti, più di ogni altra
cosa, ad avvicinarmi a tale realtà e a far nascere un interesse che si è esplicitato nel
corso dell’esperienza lavorativa all’interno della scuola primaria.
Trascorrendo molte ore con un bambino affetto da autismo ho capito quanto
l’esperienza pratica sia necessaria nell’affrontare questa condizione; oggi guardo con
profondo rispetto la forza di quei genitori che, quotidianamente, devono far fronte
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alle necessità di questi bambini, annullandosi quasi completamente, e vivendo una vita
in funzione di chi mai sarà completamente autonomo ed autosufficiente.
La scuola, che rappresenta il fulcro dell’incontro tra istituzioni pubbliche e famiglie,
offre un aiuto sostanziale, ma si tratta pur sempre di un aiuto circoscritto a qualche
ora al giorno, ed inserito all’interno di un ambiente strutturato che già da sé non
permette al bambino di esprimersi in totale libertà.
Bisogna anche considerare che, se l’Italia appare all’avanguardia nell’ambito
dell’integrazione scolastica di questi bambini, è anche vero che l’ambiente-classe è
costituito da diverse personalità, ognuna delle quali si rapporta in maniera soggettiva
nei confronti della realtà circostante.
Offrire regole di convivenza civile e comune è un obiettivo fondamentale
dell’insegnante, soprattutto per quanto concerne il primo anno di scuola. La presenza
di un soggetto autistico comporta, necessariamente, l’attuazione di strategie
didattiche alternative, l’insegnamento della tolleranza e dell’accettazione della
diversità, sempre sperando nel sostanziale e profondo coinvolgimento delle famiglie.
Purtroppo la realtà è ben più complessa delle semplici parole, e il problema
dell’integrazione si manifesta subitamente sotto svariate forme: i bisogni del bambino
autistico sono diversi, la programmazione da seguire con lui deve essere
specificatamente sviluppata in relazione alle sue possibilità, e le metodologie
didattiche da applicare possono entrare in contrasto con quelle che si auspicano per il
resto della classe. L’autistico ha bisogno di un ambiente privo di distrazioni, in cui
possa concentrarsi e non disperdere energie. Al contempo, si sottolinea la necessità di
integrare tali bambini in contesti sociali normali e formativi, promuovendo
l’accettazione e il valore della diversità, la quale deve essere intesa come un elemento
di arricchimento personale, piuttosto che come un fattore da allontanare.
Qual è, allora, la traiettoria più adeguata? E’ necessario rinunciare all’integrazione,
per ottenere maggiori risultati? Bisogna relegare i bambini autistici in istituti
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specializzati, o si può sperare di far coincidere le esigenze dei normo-dotati con quelle
dei “diversamente abili”?
Sintetizzando, credo che siano queste le domande a cui si debba trovare una risposta.
Riuscire a conciliare il momento didattico e quello sociale è ciò che permetterà di
ottenere maggiori risultati, nel rispetto dell’individualità e della collettività.
Ciò che maggiormente mi ha colpito, in questi mesi trascorsi all’interno dell’ambito
scolastico, è la difficoltà con cui le famiglie degli alunni hanno accettato la presenza di
un bambino “particolare”: l’ansia nasceva dall’impossibilità di controllare attivamente e
personalmente la situazione, con la credenza che i figli fossero sottoposti ad un
costante stato di tensione dovuta proprio alla presenza di quel compagno. Troppo
impegnati a discutere di cose che loro stessi erano consapevoli di non conoscere, non
si rendevano conto che i loro figli avevano sviluppato da subito un profondo
attaccamento, ed un intenso senso di protezione, nei confronti di quel bambino da loro
tanto temuto.
Il problema dell’integrazione è assolutamente attuale; la legislazione e gli organi
deputati all’organizzazione della scuola italiana devono riuscire a risolvere
positivamente tutte le questioni che ruotano intorno a tale argomento, contribuendo a
migliorare la qualità degli insegnamenti e a promuovere la partecipazione attiva dei
genitori. I problemi che si riscontrano nell’ambito dell’inserimento scolastico dei
bambini disabili sono riconducibili ad una serie di credenze radicate sia nella mentalità
dei docenti che in quella dei genitori; proprio per tali ragioni uno dei fattori che
dovrebbero essere presi in considerazione dalle istituzioni è il fatto che si debbano
attuare dei sostanziosi programmi di informazione in grado di coinvolgere entrambe le
parti interessate: insegnanti e famiglie devono riuscire a costruire un modello di
pensiero e di comportamento nuovo, lontano dalla tradizione e dalle credenze che fino
ad oggi sono state sostenute. Solo in questo modo sarà possibile trasferire sui figli e
sugli alunni, che partecipano alla vita scolastica congiuntamente, un tipo di pensiero più
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sensibile alla diversità e un atteggiamento di tolleranza e di disponibilità più utile
anche nella vita quotidiana.
L’impianto stesso del sistema scolastico dovrebbe essere rinnovato proprio in funzione
dei continui passi avanti fatti dalla ricerca pedagogica e psicologica. Alcuni tentativi si
sono rivelati opportuni, ma devo purtroppo ammettere che all’interno di ogni singola
realtà scolastica la problematica dell’integrazione assume connotati così differenti
che sembra impossibile fare una generalizzazione, come invece risulta se si leggono i
programmi educativi. L’attività didattica e quella comportamentale devono essere
promosse in ugual misura partendo dalla particolare situazione che caratterizza ogni
ambito e ritengo che ciò possa essere reso possibile solo attraverso una dettagliata
analisi delle diverse realtà.
Proprio l’attenzione ad una formazione individuale dei singoli alunni a livello di
tolleranza e partecipazione sociale ha permesso l’introduzione di nuovi parametri che
vengono considerati ugualmente importanti nella compilazione dei profili relativi al
conseguimento degli obiettivi scolastici. Non a caso, nelle schede di valutazione è
stata inserita una voce fondamentale: la Convivenza Civile.
Nello sviluppo del piano di studi personalizzato inerente alla classe prima della scuola
primaria, alla voce “Convivenza Civile”, è riportata la seguente dicitura:
“Mettere in atto comportamenti di autonomia e atteggiamenti di relazione positiva nei
confronti degli altri”.
Quale occasione migliore, se non quella di collaborare con chi è diverso da noi, ci può
offrire un simile momento di crescita…
Unitamente agli aspetti teorici, assolutamente necessari per sviluppare una ricerca
nell’ambito dell’autismo, svilupperò le mie personali osservazioni circa le possibilità
educative maggiormente spendibili all’interno della scuola primaria.
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La possibilità di lavorare a stretto contatto con la realtà dell’autismo mi ha posto di
fronte a dinamiche inaspettate e talvolta sconcertanti; nonostante questo ritengo di
aver tratto insegnamenti importanti circa le modalità di approccio e di relazione che
caratterizzano i bambini che sono affetti da tale patologia e, se da un lato non è
possibile operare una generalizzazione delle sintomatologie, d’altro canto credo che
ogni singola esperienza sia utile per maturare quella sensibilità necessaria a svolgere
questo tipo di attività.
Il ruolo che ho ricoperto nel corso dell’ultimo anno scolastico era quello di docente
curricolare deputata all’insegnamento della matematica, ma mi sono presto resa conto
che la presenza di un bambino autistico in aula avrebbe influenzato il mio lavoro.
Riuscire a conciliare il programma didattico con i bisogni di questo bambino non è
sempre stato facile e posso dire, con grande serenità, che ho dovuto far ricorso a
tutta la mia creatività e pazienza per far fronte a determinate situazioni.
L’aiuto dell’insegnante di sostegno mi ha aiutata a sopportare le problematiche che si
presentavano con cadenza quotidiana e che provenivano tanto dai bambini, quanto dalle
loro famiglie e dai colleghi. La collaborazione non è sempre stata all’ordine del giorno e
le divergenze di opinione hanno avuto conseguenze anche nello sviluppo delle strategie
adoperate.
Quando ho iniziato il lavoro nel mese di settembre non potevo immaginare che sarei
stata considerata come una “ragazza inesperta e troppo sensibile”: inizialmente ero io
stessa molto scettica circa la mia capacità di affrontare l’ambiente e le circostanze
che mi venivano presentate, ma dopo poche settimane ho capito che forse era stata
proprio la mia “eccessiva sensibilità” nei confronti di questo bambino a farlo avvicinare
così tanto e a tirarmi addosso le critiche delle colleghe che ribadivano la necessità di
un maggiore distacco emotivo. Prima del mio arrivo, e di quello della docente di
sostegno, l’alunno passava le mattinate davanti al computer o sotto ad un tavolo,
ignorato da tutti per evitare problemi. Nel mese di dicembre, inaspettatamente, aveva
cominciato a giocare con i compagni, mentre a marzo partecipava attivamente alle
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attività all’interno della classe: forse la sensibilità e l’attenzione che io e la sua
maestra gli abbiamo dedicato sono state eccessive, ma i risultati sono stati evidenti e
inaspettati, tanto che i tradizionali metodi sono stati abbandonati anche dagli altri
docenti.
Tengo a precisare che prima di questa esperienza sia io che l’insegnante di sostegno
non avevamo mai avuto a che fare direttamente con questa patologia e che,
nonostante la nostra “ignoranza”, abbiamo ottenuto risultati soddisfacenti.
Probabilmente la famiglia del nostro piccolo allievo avrebbe preferito avvalersi di
personale più qualificato, ma questa è una questione che dovrebbe essere affrontata
dall’alto, ossia da coloro che fanno le leggi e che non hanno idea di quali ripercussioni
possano avere le loro decisioni. Nonostante ciò sono felice di affermare che i genitori
di questo bambino hanno apprezzato i nostri sforzi e hanno mantenuto sempre viva la
collaborazione, offrendo suggerimenti e informazioni utili da riutilizzare in classe.
Nel rispetto della privacy di alunni e genitori, non sarà fatto alcun riferimento a nomi
o luoghi. L’esperienza appena citata è semplicemente il pretesto e il motivo per cui è
nato questo scritto e per cui ho deciso di ampliare le mie conoscenze attraverso un
ulteriore corso di studi specialistico.
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CAP.I
SINTOMATOLOGIA ED EZIOPATOGENESI DELL’AUTISMO
1.1 La storia
Definire specificatamente l’autismo è ancora oggi piuttosto difficile, sia per la
molteplicità degli aspetti ad esso legato, sia per il fatto che l’uso stesso delle scale
diagnostiche porta alla consapevolezza che avere due bambini con la stessa diagnosi
non implica la presenza degli stessi sintomi.
L’autismo colpisce precocemente aree fondamentali dello sviluppo in età evolutiva, si
presenta come una forma cronica e impedisce, a grandi linee, di entrare a far parte
dell’assetto sociale e dei rapporti interumani. Purtroppo le variegate forme di
riabilitazione proposte fino ad oggi non sono riuscite a colpire le fondamenta della
patologia anche se, soprattutto negli ultimi vent’anni, sono stati raggiunti importanti
risultati.
Considerato fino a pochi anni fa come un disturbo raro, le ultime statistiche indicano
che la sua diffusione, tenendo conto anche delle forme più lievi, ha raggiunto la stima
di un bambino affetto ogni mille (Surian, 2005). Ciò ha comportato la nascita di un
rinnovato interesse e la necessità di operare adeguatamente in questo campo,
allontanandosi dalle teorizzazioni che Leo Kanner, per primo, aveva proposto nel 1943
all’interno dell’articolo “Disturbo autistico del contatto affettivo” (Cumine et al.,
2005).
Lo psichiatra studiò per diversi anni il comportamento di undici bambini, i quali
mostravano una tipologia di sintomi molto varia, ma che erano accomunati da una
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radicata abitudinarietà: ad un lieve cambiamento della normale routine si associavano
fenomeni di ansia ed agitazione profondi.
Kanner riscontrò in tutti i bambini uno sviluppo anormale del linguaggio e un
sostanziale rifiuto del contatto sociale, ma la cosa che più di ogni altra colpì la sua
attenzione fu il mancato sviluppo del sentimento di attaccamento che veniva
dimostrato dai bambini nei confronti dei genitori, in particolar modo della figura
materna.
Nel corso dell’articolo, lo psichiatra delineava approfonditamente le sue osservazioni
sostenendo che: “…Il disturbo fondamentale più evidente, “patognomico”, è l’incapacità
dei bambini di rapportarsi nel modo usuale alla gente e alle situazioni sin dai primi
momenti di vita. Vi è sin dall’inizio un estremo isolamento autistico che, per quanto
possibile, trascura, ignora, taglia via tutto ciò che viene al bambino dall’esterno…”
(cit. in Frith, 2005, pag. 9).
Le annotazioni di Kanner riportavano le osservazioni dirette dei genitori che vedevano
i loro figli come assolutamente autosufficienti, ma anche solitari, silenziosi e
distaccati.
Il comportamento di questi bambini si distanziava notevolmente da ogni altro tipo di
sintomatologia e Kanner scelse il termine “autistico”, precedentemente usato da
Eugene Bleuler per descrivere la chiusura in se stessi dei soggetti schizofrenici, per
riferirsi all’incapacità di elaborare relazioni sociali e al desiderio di essere lasciati da
soli.
Le conclusioni di Kanner sono espresse chiaramente e delineano la sua personale
concezione della patologia (cit. in Frith, 2005, pag. 10): “Allora dobbiamo desumere
che questi bambini siano venuti al mondo con una incapacità innata di formare il
consueto contatto affettivo, fornito biologicamente, con le persone, proprio come
altri bambini vengono al mondo con handicap fisici o intellettivi innati. Se questa
assunzione è corretta, un ulteriore studio sui nostri bambini potrebbe fornirci criteri
concreti sulle nozioni ancora diffuse sulle componenti costituzionali della reattività
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emotiva. Per questo, sembra che noi abbiamo esempi incontaminati di disturbi autistici
innati del contatto affettivo”.
Nonostante la veridicità di queste prime affermazioni, Kanner e colleghi si
interessarono molto di più alle conseguenze che secondo loro aveva il comportamento
dei genitori di questi bambini, preferendo un’interpretazione dell’autismo fondata su
fattori interpersonali psicodinamici e allontanandosi dalle concezioni prettamente
biologiche.
Contemporaneamente alle ricerche di Kanner, Hans Asperger, psichiatra viennese,
osservò una forma simile al disturbo autistico, che oggi riporta, appunto, il suo nome.
Nella Sindrome di Asperger si riscontrano le medesime difficoltà comunicative e
sociali tipiche dell’autismo, anche se non compare alcun specifico ritardo mentale. Per
questo motivo si è spesso parlato di un autismo “ad alto funzionamento”, anche se oggi
la tendenza è quella di differenziare le due patologie, soprattutto da un punto di vista
quantitativo. Nonostante ciò, entrambe, sono fatte rientrare nella medesima classe di
appartenenza: i Disturbi dello Spettro Autistico.
L’ampio ventaglio che caratterizza il fenotipo clinico dell’autismo è oggi sintetizzato in
tutti i sistemi diagnostici proprio all’interno di questa denominazione, a volte riportata
anche come “Disturbi Pervasivi dello Sviluppo”.
Questi termini si riferiscono ad un’ampia gamma di disturbi cognitivi e
comportamentali associati, che il DSM IV (Associazione Psichiatrica Americana)
riassume in cinque tipologie:
Disturbo Autistico (Autismo Infantile)
Disturbo di Asperger (Sindrome di Asperger).
Disturbo Disintegrativi Infantile
Disturbo di Rett (Sindrome di Rett)
PDD-NOS/Autismo Atipico (Disturbo Persuasivo dello Sviluppo, Non Altrimenti
Specificato
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Caratteristiche essenziali: questi disturbi sono caratterizzati da una
menomazione grave e qualitativa nello sviluppo della relazione sociale reciproca,
delle abilità di comunicazione verbale e non verbale, e/o un repertorio
gravemente ristretto di attività e interessi, che possono essere stereotipati e
ripetitivi. Le menomazioni sono chiaramente incoerenti con il livello di sviluppo e
l’età mentale. Questi disturbi di solito sono visibili all’inizio della fanciullezza.
(DSM IV)
I disturbi che rientrano nel gruppo previsto dal DSM IV sono tutti accomunati da una
fondamentale difficoltà di interazione sociale reciproca ed è importante ricordare
che il numero di bambini affetti da una forma di Disturbo Generalizzato dello Sviluppo
è di gran lunga superiore al numero di individui colpiti da autismo, che ne rappresenta
solo una particolare tipologia. Le statistiche parlano di una percentuale di soggetti
autistici pari a cinque bambini affetti ogni diecimila, mentre quelli che ricadono
all’interno dello “Spettro autistico” equivalgono a ben venti ogni diecimila (Micheli,
Xaiz, 2001). E’ necessario precisare, inoltre, che all’interno di queste categorie
diagnostiche, ogni bambino rappresenta un caso a sé stante, non solo per quanto
riguarda le capacità intellettive o per la tipologia di disturbi associati che si
presentano, ma anche per il modo in cui si manifestano determinati deficit.
Attraverso l’utilizzo del termine “Spettro” la psichiatra inglese Lorna Wing sottolinea
come l’autismo si manifesti con la presenza di tratti facilmente riscontrabili anche in
persone normali, come la spiccata attenzione verso dettagli particolari o la difficoltà a
socializzare (Surian, 2005).
Inoltre l’uso di questa particolare terminologia permette di evidenziare il fatto che le
caratteristiche del disturbo sono assolutamente sfumate, senza soluzione di
continuità e che le menomazioni fondamentali possono essere tutte
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contemporaneamente presenti oppure no. E’ proprio tipico dell’autismo essere una
patologia assolutamente eterogenea che si manifesta attraverso una difformità dei
quadri clinici; per questa ragione, e per l’importanza che riveste la variabilità dell’età
dei soggetti interessati, è necessario usufruire di specifici parametri in grado di
circoscrivere il profilo neuropsicologico e funzionale dei soggetti ritenuti a rischio.
Quando si considerano le tre aree di difficoltà tipiche dell’autismo (relazione sociale
reciproca, comunicazione e repertorio di interessi e attività) bisogna tenere presente
il fatto che esse si influenzano in maniera “circolare”: come afferma Elizabeth
Newson, infatti, “le caratteristiche dell’autismo si pervadono l’una nell’altra” ( cit. in
Micheli, Xaiz, 2001, pag. 33) e le persone interessate al trattamento dei bambini che
ne sono affetti devono necessariamente comprendere l’idea di questo circolo e di
questa influenza negativa, reciproca e costante che costituisce il fulcro centrale della
sindrome.
Il comportamento ritirato che fu osservato da Kanner comportò, comunque, una serie
di implicazioni che oggi vengono considerate erronee, anche se fino agli anni ’70
riscontrarono un certo successo. Lo stesso psichiatra, che lavorava con successo alla
John Hopkins University di Baltimora, e molti dopo di lui, considerò l’autismo come il
tentativo di impedire al mondo esterno di penetrare nella vita psichica; Bruno
Bettelheim sostenne addirittura che l’autismo era la diretta conseguenza dell’ostilità
dei genitori nei confronti dei figli e sentenziò che la percezione dell’ambiente, vissuta
in maniera angosciosa, doveva appunto essere considerata la causa primaria
dell’insorgenza della patologia (Bettelheim, 1976).
Con queste premesse l’unica soluzione considerata opportuna e necessaria per la
guarigione era l’allontanamento dei bambini dalle famiglie e il loro inserimento in una
scuola residenziale a cui Bettelheim diede il nome di “Scuola Ortogenetica”.
Durante un convegno tenutosi a Bologna nel novembre del 2005, Eric Schopler,
fondatore della Division TEACCH, riporta la sua personale esperienza nell’ambito di
tale scuola:
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“L’insegnamento che Bettelheim ci impartiva era che l’autismo era un disturbo emotivo
causato da ostilità e rifiuto da parte dei genitori nei confronti del bambino il quale,
per reazione, presentava un ritiro sociale nei loro confronti.
Il contatto con la realtà mi convinse della falsità di questa teoria. Bettelheim diventò
per me un esempio negativo da non imitare.”
Bruno Bettelheim non capì che la famiglia non doveva essere allontanata, ma doveva
rappresentare il punto di partenza della terapia. I luoghi creati artificialmente per la
terapia e l’ospedale psichiatrico non sono assolutamente appropriati alle necessità dei
bambini con questa sindrome, tanto che tale concezione non si rispecchia solo
all’interno del modello TEACCH su cui Schopler ha lavorato, ma viene ampiamente
sostenuta da tutti i programmi educativi, e di intervento, che vengono oggi elaborati.
Nonostante l’autismo sia ormai ampiamente riconosciuto come un handicap dal 1980,
anno in cui venne pubblicata la terza edizione del Manuale Diagnostico dei Disturbi
Mentali in cui fu introdotto il capitolo relativo ai Disturbi Generalizzati dello Sviluppo,
e in cui venne inserito l’autismo, molto spesso si assiste a grandi perdite di tempo e di
denaro in psico-terapie, nella speranza di ottenere una guarigione miracolosa.
L’autismo non è più considerato una psicosi, né tanto meno viene catalogato come un
disturbo relativo all’indifferenza delle “madri-frigorifero”.
Oggi si intende sempre di più approfondire la collaborazione di specialisti e famiglie,
al fine di attuare programmi di intervento adeguati e non oppressivi.
Le famiglie, se opportunamente formate, possono diventare elementi fondamentali di
supporto.
Ecco perché l’autistico non è più allontanato, ma integrato all’interno della comunità
sociale, con particolare riferimento al contesto scolastico.
Se da un lato non si conosce ancora una cura specifica per questa malattia, si è
arrivati comunque a delineare cosa è necessario fare per sostenere questi bambini e
per promuovere il loro sviluppo personale: le concezioni di Kanner hanno rappresentato
l’avvio allo studio dell’autismo, ma risultano ormai decisamente datate.
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Lo studioso riteneva che i soggetti autistici fossero tutti fondamentalmente
intelligenti, mentre oggi si sa che le condizioni relative al quoziente intellettivo sono
estremamente variabili; ricercatori quali Wing, Schopler, Boron-Cohen, Frith, e molti
altri, hanno contribuito a far luce sugli aspetti più reconditi dell’autismo e hanno
evidenziato la necessità di operare in maniera attiva e continua con questi bambini:
l’autistico non ha più solo deficit, ma anche “isole di abilità” e punti di forza che
devono essere valorizzati nella costante collaborazione tra famiglia e operatori
esterni.
1.2 Diagnosi precoce ed intervento multidisciplinare
Un primo elemento da tenere presente, quando si parla di autismo, è che non ci si
trova di fronte ad una malattia. Sebbene siano state riscontrate cause genetiche e
specifiche, tra quelle possibili, non ci si può aspettare di elaborare trattamenti
risolutivi in senso ampio. Nel caso dell’autismo l’unico trattamento effettivamente
idoneo è un’educazione profonda che coinvolga il soggetto direttamente interessato,
ma anche tutti coloro che partecipano della sua vita.
Non a caso nei moderni approcci all’autismo viene posta in evidenza la necessità di
adattare l’ambiente circostante in maniera che il bambino possa penetrarlo e capirlo
senza bisogno di continui mediatori; per far ciò le famiglie devono necessariamente
essere formate e preparate a far fronte alle necessità dei figli, elaborando vere e
proprie strategie relative a spazi, orari, tempi, persone e oggetti. Se si considera poi
che ogni bambino autistico rappresenta una realtà a se stante, l’idea di uno specifico
trattamento appare decisamente illusoria. Gli operatori e le famiglie devono
raggiungere un livello di conoscenza del bambino che permetta loro di costruire
l’intervento in maniera mirata, relativamente al soggetto che hanno di fronte.
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Cesarina Xaiz, psicomotricista e terapista della famiglia, ed Enrico Micheli, pioniere
delle ricerche sulle origini organiche dell’autismo e collaboratore della division Teacch,
hanno elaborato una tabella in cui si evidenziano i punti chiave del sistema di
trattamento (Xaiz, Micheli, 2001).
- Diagnosi precoce
- Precoce e chiara informazione della famiglia
- Controllo, monitoraggio e supporto medico-farmacologico
- Educazione del bambino
- Aiuto pratico e psicologico alla famiglia
- Pianificazione di servizi per l’intero ciclo di vita
- Coordinamento tra agenzie e servizi impegnati nel trattamento
Uno dei punti fondamentali su cui si battono i ricercatori è, come appare evidente
nella tabella, la necessità di sviluppare una diagnosi precoce, la quale comporta, prima
di tutto, un’attenta osservazione da parte dei genitori ed una proficua ricerca dei
sintomi. In molti casi, infatti, si è potuto riscontrare che la capacità dei famigliari di
capire determinati sintomi precede decisamente l’effettiva diagnosi della patologia,
che attualmente oscilla intorno ai sei anni di età. Micheli e Xaiz giustificano la
preminenza di questo aspetto sostenendo che ciò offre la possibilità di intervenire
quando gli interessati dispongono di maggiori risorse di cambiamento, senza
tralasciare il fatto che la tempestività nella diagnosi facilita la famiglia nel doloroso e
difficile impegno emotivo di affrontare la presenza di un figlio disturbato.
L’importanza della tempestività in questo campo è data anche dalla possibilità di
attivare un adeguato programma di intervento, allo scopo di valorizzare le capacità dei
bambini il prima possibile, offrendo loro anche l’opportunità di un sostegno adeguato,
in grado di ampliare il ventaglio di abilità che già possiedono.