BADS e WAIS-R in un gruppo di soggetti anziani
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Introduzione
Il presente lavoro nasce con due finalità. Tra queste, la prima inserisce il
nostro studio nella cornice più ampia della taratura del “Behavioural
Assessment Dysexecutive Syndrome” (BADS). Il secondo obiettivo ha
dato vita alla stesura del presente elaborato. Nella fattispecie, ci siamo
interessati all‟esame del costrutto delle funzioni esecutive, durante il
normale processo di senescenza. E‟ noto che l‟invecchiamento normale
comporta un fisiologico declino cognitivo sul cui sfondo si dipana la
compromissione più specifica di alcune funzioni rispetto ad altre. Tra
queste, le funzioni esecutive sono particolarmente vulnerabili con
l‟avanzare dell‟età. Parlare di modificazioni cognitive in termini di
funzionamento esecutivo, durante il normal aging, rimanda
inevitabilmente al costrutto di intelligenza (Phillips e coll., 1998).
Quest‟ultimo, con l‟avanzare dell‟età, presenta un pattern di
modificazioni per molti aspetti sovrapponibile a quello relativo alle
funzioni esecutive (Sternberg e Gardner, 1982; Campione e coll., 1977).
Si tratta, tuttavia, di un dato molto dibattuto in letteratura (Crinella,
2000). In tale scenario, abbiamo esaminato la natura del costrutto di
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funzioni esecutive e come quest‟ultime si modellano durante
l‟invecchiamento. Abbiamo, inoltre, osservato la relazione tanto
dibattuta tra le funzioni esecutive e l‟intelligenza, nel nostro campione.
In particolare, abbiamo trovato interessante esaminare come si presenta
il legame tra i due costrutti in esame, nella nostra ricerca. Possiamo
confermare il medesimo rapporto di sinonimia o addirittura, d‟identità
tra funzioni esecutive e intelligenza?
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CAP.1 LE FUNZIONI ESECUTIVE
1.1 Definizione teorica
Definire le funzioni esecutive non è semplice. Sono state a lungo
considerate come un tutt‟uno, una singola abilità (Heaton e coll., 1993).
Recenti dati comportamentali e neuropsicologici indicano, tuttavia, che
le funzioni esecutive possono essere caratterizzate in modo più preciso
come un insieme di abilità correlate, ma separabili (Baddeley, 1996;
Collette e coll., 2005; Friedman e coll., 2006), tanto da giungere a
parlare di "unità e diversità "delle funzioni esecutive (Duncan e coll.,
1997; Miyake e coll., 2000; Teuber, 1972). Infatti, il termine funzioni
esecutive è una sorta di termine “ombrello” per indicare non una singola
capacità, bensì un variegato set di processi cognitivi altamente
complessi e articolati. Nel tentativo di volere definire tale costrutto
psicologico, non si può non ricorrere ad un elenco di esempi che
testimoniano la natura complessa e frazionata di questo set di funzioni
cognitive. Molti autori si sono cimentati nel non semplice compito di
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inquadrare le funzioni esecutive in una giusta ed adeguata cornice
interpretativa. Volendo fare un “excursus” storico sull‟evoluzione del
concetto di “funzioni esecutive” nel tempo, Luria (1966, 1973, 1980)
può esser considerato come il diretto antecessore del concetto di funzioni
esecutive. Egli ha, infatti, distinto tre unità funzionali nel cervello: (1)
arousal-motivazione (sistemi limbico e reticolare); (2) ricezione,
elaborazione e archiviazione delle informazioni (aree corticali post-
rolandiche) e (3) programmazione, controllo e verifica delle attività, a
seconda delle attivazione della corteccia prefrontale. Luria vede la terza
unità come rappresentativa del costrutto in questione. Secondo Lezak
(1995), invece, il termine “funzioni esecutive” rimanda ad un costrutto
psicologico multidimensionale che fa riferimento a quei processi
cognitivi di ordine superiore che permettono di dare inizio, con successo,
ad un comportamento adattivo e contestualmente adeguato. Baddeley
(1986) raggruppa questi comportamenti in domini cognitivi che
includono problemi legati alla pianificazione e all‟organizzazione di
comportamenti, alla loro disinibizione e perseverazione, a fluidità ridotta
e a difficoltà d‟iniziazione delle condotte comportamentali (Baddeley fu,
anche, il primo a coniare il termine di “sindrome disesecutiva”).
Viaggiando lungo la linea temporale che segue l‟evoluzione del concetto
di “funzioni esecutive”, troviamo Malloy e coll. (1998), i quali vedono le
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suddette funzioni dispiegarsi in una serie di capacità come la
formulazione degli obiettivi in funzione delle loro conseguenze a lungo
termine; la generazione di più alternative di risposta; la scelta e l'avvio di
comportamenti pianificati; l‟auto-controllo, l'adeguatezza e la correttezza
dei comportamenti; il correggere e il modificare quest‟ultimi, al
sopraggiunge di un cambiamento delle condizioni esterne; il persistere di
fronte alla distrazione. Perner e Lang (1999) parlano di funzioni
esecutive come “responsabili dei processi di livello superiore per l'azione
di controllo che sono necessari, in particolare, per il mantenimento
mentale di uno specifico obiettivo e per il compimento di quest‟ultimo,
ostacolato dal rumore di distraenti alternative”. Pineda e coll. (1998)
includono tra le funzioni di tipo esecutivo, processi di auto-
regolamentazione, il controllo della cognizione, l‟organizzazione
temporale della risposta immediata a stimoli, i comportamenti di
pianificazione, di controllo e di attenzione. Nel panorama della
definizione concettuale del termine di funzioni esecutive, infine, la
letteratura dalla più datata alla più recente sembra, comunque,
convergere nell‟osservare le funzioni esecutive come comprendenti il
concetto di flessibilità mentale, l‟impegnarsi nella conduzione di
comportamenti finalizzati ad uno scopo e la capacità di anticipare le
conseguenze delle proprie azioni (Ardila & Surloff, 2007; Denckla,
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1994, 1996; Goldberg, 2001; Luria, 1969, 1980; Stuss & Benson, 1986;
Stuss & Knight, 2002), oltre all‟autoconsapevolezza, ai comportamenti
etici e all‟idea del lobo frontale come responsabile e programmatore
della psiche umana (Anderson e coll.,1999; Luria, 1880; Moll e coll.,
2005). C‟è da evidenziare come, però, sia mutata la cornice interpretativa
in riferimento alla quale vengono definite le funzioni esecutive. Infatti,
se all‟inizio, quest‟ultima era legata alla descrizione degli aspetti
comportamentali (ibidem), in tempi più recenti l‟avvento, nel campo
delle neuroscienze, di tecniche d‟indagine più evolute come la RM, fRM,
PET ha permesso di approcciarsi al dominio cognitivo, in questione,
tenendo conto di altri fattori (oltre a quelli più propriamente
comportamentali) come, ad esempio, la localizzazione neuroanatomica.
Sempre più frequentemente, le funzioni esecutive sono analizzate in
setting sperimentali utilizzando strategie di ricerca diverse, come ad
esempio la soluzione diversi problemi e la concomitante registrazione
dell‟attività cerebrale o il monitoraggio del livello regionale di
attivazione (Osaka et al., 2004). In alternativa, le funzioni esecutive sono
state analizzate in popolazioni di cerebrolesi, al fine di trovare il
contributo di sistemi cerebrali differenti (ad esempio, Jacobs, Harvey, &
Anderson, 2007). A tal proposito, la letteratura neuropsicologica
converge nel dichiarare che il successo in compiti che fanno carico ai
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processi esecutivi dipenda dalla corteccia prefrontale (Elliott, 2003).
Una grande mole di pubblicazioni, a partire dagli anni ‟70 sino ai ‟90, ha
rivolto l‟attenzione esclusivamente all'analisi della corteccia prefrontale
(per esempio, Fuster, 1989; Levin, Eisenberg, e Benton, 1991; Miller &
Cummings, 1998; Perecman, 1987; Pribram & Luria, 1973; Roberts,
Robbins, e Weiskrantz, 1998; Stuss & Benson, 1986). In questa fetta di
letteratura, si assume una sorta di uguaglianza tra termini “funzione
esecutiva” e “funzione frontale/(prefrontale)” considerati come sinonimi.
Tuttavia, in tempi recenti si è visto come tale assunzione sia stata errata e
fuorviante. A mettere in luce la mancata corrispondenza tra i due termini,
sopracitati, è il fatto che sebbene la corteccia prefrontale sia
fondamentale nel controllo delle funzioni esecutive, vi sono anche altre
aree del cervello a svolgere un ruolo fondamentale nel controllo di
quest‟ultime (Elliott, 2003). Esistono, a tal proposito, alcune teorie che
prendono di mira la visione a supporto dell‟uguaglianza tra “funzione
frontale” e funzione esecutiva, giudicandola come semplicistica e
responsabile di fugare l‟attenzione da alcune regioni sottocorticali che
possono anch‟esse essere criticamente coinvolte nella scena. La prova
che molte strutture del corpo striato giocano un ruolo importante
all‟interno della scena delle funzioni esecutive ci viene data da molti
studi di disturbi neurologici (Divac, 1967). Deficit neuropsicologici sono
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riscontrabili all‟interno di patologie di interesse neurologico come
l‟atrofia sopranucleare progressiva, la Corea di Huntington, i cui quadri
sintomatologici mostrano significative compromissioni delle funzioni
esecutive. Patologie neurodegenerative come quella Parkinsoniana, per
esempio, suggeriscono che le strutture del corpo striato, a livello del
telencefalo, svolgono un ruolo di mediazione nel processo esecutivo. Nel
Parkinson, infatti, vi è una palese compromissione delle funzioni
esecutive soprattutto nelle prime fasi della malattia quando quest‟ultima
è limitata alle regioni dei gangli della base. Ciò propone l‟idea che le
funzioni esecutive non dipendono dalla corteccia prefrontale in
isolamento, ma dall‟integrità del sistema circuitale corticostriatale,
mediato da trasmissione dopaminergica, che collega la corteccia
prefrontale e lo striato (Alexander 1986). Risultati di neuroimaging
hanno anche coinvolto, nel funzionamento esecutivo, regioni posteriori,
corticali e sottocorticali (Roberts, Robbins, e Weiskrantz, 2002). Sembra
evidente, quindi, come tali processi esecutivi siano lontani dall‟essere
compresi completamente, rispetto ad altre funzioni supportate a loro
volta da altre regioni cerebrali. In tal contesto, sembra insinuarsi
perfettamente ciò che Monsell (1996) asseriva, riferendosi a tal dominio
cognitivo, “somewhat embarrassing zone of almost total ignorance”.
Infatti, nonostante i notevoli progressi raggiunti dalla psicologia
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cognitiva, negli ultimi decenni, testimoniati dallo sviluppo di sofisticate
teorie e modelli su specifici domini e processi cognitivi (come la
percezione di un oggetto, il riconoscimento di una parola, ecc.) vi sono
ancora un numero di questioni teoriche o fenomeni di cui poco si può
dire. In altre parole, il campo cognitivo è ancora privo di un‟interessante
ed inoppugnabile teoria sulle funzioni esecutive, propositiva dei
meccanismi di controllo che modulano il funzionamento dei vari
sottoprocessi cognitivi e regolano, quindi, le dinamiche della cognizione
umana. Molti autori hanno, comunque, dimostrato che la corteccia
prefrontale contribuisce significativamente ai processi esecutivi
(Baddeley, 1998; Stuss, 1986; 2000; Fuster, 1997; Kolb, 1996). Notevoli
conferme ci vengono date da osservazione di interesse clinico.
Embelmatico è il caso del paziente Phineas Cage, il quale dopo una
lesione bilaterale delle aree prefrontali in un grave incidente sul lavoro,
“non era più lui” (Harlow, 1868). Phineas Cage è un caso paradigmatico
di paziente affetto da sindrome disesecutiva costituito da un insieme di
deficit nella sfera cognitiva, nella sfera affettiva e nella condotta sociale
(Grossi e Trojano, 2002). I pazienti con danno alla corteccia prefrontale,
di solito, mostrano dei QI nella norma nella maggior parte dei test
psicologici che denunciano anche la presenza di normali funzioni di
memoria a lungo termine e capacità percettive e motorie nella norma
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(Luria, 1969; Stuss e Benson, 1986). “Vecchie” informazioni,
saldamente ritenute e processi ben consolidati sembrano, invece, essere
indipendenti da danni del lobo frontale. Nonostante ciò, quando la
richiesta intellettuale coinvolge operazioni per la creazione di un
programma di azione o per la scelta tra più alternative altrettanto
probabili, la performance di pazienti con danno frontale è profondamente
turbata (ibidem). Questa perturbazione dell‟attività intellettuale è
testimoniata dalla compromissione di processi decisionali, di
pianificazione, (Stuss e Benson, 1986), e anche da una scarsa
organizzazione temporale del comportamento (Fuster, 1997), come pure
da poveri processi di memoria di lavoro (Goldman, 1998; Petrides,
1994). Le capacità dei pazienti con danno frontale sono state esaminate
da vari test neuropsicologici, quali il Wisconsin Card Sorting Test
(Milner, 1963 e Stuss e coll., 2000), la Torre di Londra Puzzle (Shallice,
1982 e Owen e coll., 1990), Test di Fluenza Verbale (Milner, 1963;
Jones,1977; Crowe, 1992; Jahanshahi, 1998;1999), e vari altri test
(Freedman, 1986; Milner, 1991). Sulla base di queste osservazioni, Stuss
e Benson (1986) indicano la presenza, nella suddetta categoria di
pazienti, della mancanza di previsione, di diminuita capacità di
pianificazione e diminuita iniziativa. Tutte queste menomazioni non
sono ascrivibili nel quadro della compromissione di un singolo dominio,
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bensì si inseriscono nel background più articolato e complesso del
mancato coordinamento tra processi percettivi, motori e di memoria,
indispensabili e cruciali per l‟esplicarsi di attività articolate come la
pianificazione, il monitoraggio e i processi decisionali. Dunque, disturbi
delle funzioni esecutive, seppur presenti dopo un danno cerebrale focale,
tendono ad esprimersi con notevole spessore in seguito a danno del lobo
frontale, suggerendo in tal modo come tale sede neuroanatomica
rappresenti il centro del controllo esecutivo (Stuss e Benson, 1986).
Anche se il controllo esecutivo è, strettamente, legato al funzionamento
della corteccia prefrontale, le funzioni esecutive, come detto in
precedenza, e il medesimo controllo esecutivo non sono stati ben
definiti. Risulta, a tal punto evidente, la natura composita e complessa di
tale dominio cognitivo della quale troviamo conferma da osservazioni
cliniche. Infatti, pazienti con danno del lobo frontale possono presentare
una vasta gamma di sintomi, che possono verificarsi singolarmente o in
combinazione. Per questa ragione, molte delle considerazioni circa
l‟organizzazione di questo complesso set di variegate funzioni, si sono
concentrati sulla ricerca di principi che potrebbero spiegare, nel
contempo, uno o più di questi sintomi. Ad esempio, l‟impulsività e il
fallimento nel perseguire gli obiettivi per lunghi periodi di tempo sono
tra le più comuni difficoltà dopo aver riportato danni del lobo frontale
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(Gilbert, 2008). Ma, in altre situazioni, danni del lobo frontale possono
esprimersi in comportamenti perseverativi (l'incapacità di passare a un
nuovo comportamento quando quello precedente diventa inappropriato)
(ibidem). Come possono essere riconciliati questi pattern di risposta
comportamentale, apparentemente, contraddittori? Come possono
rispondere alla medesima tipologia di controllo, nella fattispecie,
esecutiva? Per gettare luce su tale interrogativi e dischiudere la mente
alla comprensione più affinata di questa complessa gamma di funzioni
cognitive, è opportuno fare qualche accenno ai più accreditati modelli
interpretativi riportati in letteratura.
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1.2 Modelli interpretativi
Uno dei primi approcci alla comprensione del funzionamento della
corteccia frontale è stato condotto da Luria (1966), secondo il quale i
lobi frontali contengono un sistema che controlla la pianificazione, la
regolazione e la verifica del comportamento. Implicitamente, questo
approccio assume che le funzioni frontali siano accomunate da un
elemento unitario, rappresentato dal controllo di operazioni non abituali.
Un tentativo di formulare il pensiero di Luria nei termini più modellistici
è stato condotto da Normann e Shallice (1986) i quali presentano un
quadro di riferimento in grado di rispondere ad interrogativi, come
quelli, precedentemente, avanzati. In base al loro modello, il
comportamento umano è regolato da gruppi di pensiero o azione,
chiamati “schemi”. Uno schema è un insieme di azioni o cognizioni che
sono diventati strettamente associati attraverso la pratica. Questi schemi
possono essere attivati in due modi distinti. In primo luogo, quest‟ultimi
possono essere attivati da eventi nel proprio ambiente. Ad esempio,
durante la guida, lo schema associato al “frenare” può essere attivato
dalla vista di una luce rossa. L‟attivazione ambientale di schemi può