1.2 L’art. 10-bis della Convenzione d’Unione di Parigi e l’art. 2598 c.c.
In Italia, la prima legge repressiva della concorrenza sleale è stata frutto
esclusivamente dell’estensione ai rapporti interni tra cittadini italiani di una norma, l’art.
10-bis, introdotta nella Convenzione d’Unione di Parigi del 1883 dalla revisione alla
Convenzione stessa tenutasi all’Aja il 6 Novembre del 1925. Tale norma, nella sua più
recente versione, suona come segue:
«1) Les pays de l’Union sont tenus d’assurer aux ressortissants de l’Union une
ptotection effective contre la concurrence deloyale.
2) Constitue un acte de concurrence deloyale tout acte de concurrence contraire aux
usages honnetes en matiere industrielle ou commerciale.
3) Notamment devront etre interdits:
ξ tous faits quelconques de nature à creer une confusion par n’importe quel
moyen avec l’etablissement, les produits ou l’activitè industrielle ou
commerciale d’un concurrent;
ξ les allegations fausses, dans l’exercice du commerce, de nature à discrediter
l’etabblissement, les produits ou l’activitè industrielle ou commerciale d’un
concurrent;
ξ les indications ou allegations dont l’usage, dans l’exercice du commerce, est
susceptible d’induire le public en erreur sur la nature, le mode de fabrication,
les caracteristiques, l’aptitude à l’emploi ou la quantité des marchandises»
2
.
Questa disposizione costituì la sola disciplina della concorrenza sleale in Italia fino
all’entrata in vigore del Codice Civile del 1942 che, agli artt. 2598 ss. c.c., si occupò
della materia con norme sostanzialmente ispirate a quella convenzionale.
Nell’analizzare l’art. 2598 c.c., è sicuramente opportuno iniziare dalla sua ultima
disposizione (n.3), e cioè da quella clausola generale che, in quanto tesa a specificare
quelle che sono le circostanze necessarie a qualificare un atto come atto di concorrenza
sleale, ben si riferisce anche ai precedenti punti dell’articolo in esame. Ebbene, tale
clausola considera in genere punibile l’atto che sia contrario ai principi della correttezza
professionale e che sia allo stesso tempo idoneo a danneggiare l’altrui azienda.
Riguardo al significato di correttezza professionale, in dottrina così come in
giurisprudenza, si avverte tuttora molta incertezza essendo particolarmente difficile
trovare interpretazioni realmente oggettive. Alcuni hanno ad esempio identificato i
principi di correttezza professionale nei comportamenti abitualmente praticati, con il
convincimento della loro giuridicità, negli ambienti interessati (interpretazione
consuetudinaria); altri ancora hanno invece fatto riferimento alle costumanze delle
2
Traduzione dell’art. 10-bis della Convenzione d’Unione: «I paesi dell’Unione sono tenuti ad assicurare
ai componenti dell’Unione una protezione effettiva contro la concorrenza sleale. Costituiscono atti di
concorrenza sleale tutti gli atti di concorrenza contrari alla corretta prassi in materia industriale e
commerciale. Inoltre dovranno essere vietati: tutti i fatti di natura tale da creare confusione con lo
stabilimento, i prodotti o l’attività industriale o commerciale di un concorrente; le allegazioni false
nell’esercizio del commercio tali da screditare lo stabilimento, i prodotti o l’attività industriale o
commerciale di un concorrente; le indicazioni o allegazioni il cui uso, nell’esercizio del commercio, è
idoneo ad indurre in errore il pubblico sulla natura, il modo di fabbricazione, le caratteristiche, l’attitudine
all’impiego o la quantità delle merci».
persone che onestamente esercitino l’industria ed il commercio (interpretazione etica);
alcuni, infine, hanno considerato i principi in esame come regole di natura
essenzialmente economica sostenendo che conformi a tali principi debbano ritenersi
quei comportamenti che appaiano idonei al miglior raggiungimento dei positivi effetti
della libera concorrenza (interpretazione economica). Detto questo, è però oltremodo
doveroso dire come tale problematica abbia in realtà un rilievo assai minore di quello
che vorrebbero far credere le amplissime trattazioni riservatele. In effetti, le fattispecie
atipiche di concorrenza sleale ricondotte al n.3 dell’art. 2598 c.c., sono adesso costituite
da un gruppo di ipotesi ormai pienamente «tipizzate», assai raramente arricchitesi di
nuove figure: cosicchè lo strumento valutativo della conformità o difformità di
determinati comportamenti ai principi della correttezza professionale ha in realtà
scarsissime occasioni di dover essere utilizzato.
Spostando adesso il discorso sull’idoneità dell’atto a danneggiare l’altrui
azienda, e cioè sulla seconda circostanza necessaria a qualificare un atto come sleale da
un punto di vista concorrenziale, è doveroso soffermare la nostra attenzione tanto sul
concetto di danno, quanto su quello di idoneità al danno.
In fatto di danno sono da farsi due appunti :
ξ innanzitutto esso deve essere necessariamente “qualificato”, vale a dire maggiore
rispetto al normale danno che si verificherebbe in conseguenza di un atto dello
stesso tipo ma non scorretto;
ξ in secondo luogo, nonostante l’art. 2598 n.3 c.c. parli di danno all’azienda, è
pacifico che ci si debba riferire non soltanto al danno subito da essa così come
intesa ex art. 2555 c.c. (complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per
l’esercizio dell’impresa), ma a qualsiasi danno economico che colpisca
l’imprenditore in ogni aspetto della sua specifica attività (la dannosità potrà
dunque concernere anche quegli elementi che di solito si ritiene costituiscano il
cosiddetto avviamento di un’impresa).
In fatto, invece, di idoneità al danno, è giurisprudenza consolidata quella secondo cui a
concretare l’ipotesi della concorrenza sleale sia sufficiente un’atto semplicemente
idoneo a danneggiare l’altrui azienda indipendentemente da un danno concretamente
verificatosi: si avrà ad esempio potenzialità dannosa nell’ipotesi di tentativo, e cioè
quando un danno non si sia realizzato ma vi sia comunque possibilità che il tentativo
venga reiterato.
Come già precedentemente detto, l’art. 2598 c.c. non si compone della sola
clausola generale. Ai punti n.1 e n.2, infatti, vengono indicate alcune ipotesi specifiche
di concorrenza sleale.
Una prima categoria di tali ipotesi, si sostanzia nello sfruttare l’affermazione sul
mercato di un’altra impresa concorrente, tendendo a confondersi con questa sia
mediante l’uso di nomi o di segni distintivi da essa legittimamente usati, sia mediante
l’imitazione servile dei suoi prodotti, e sia mediante il compimento di atti comunque
idonei a creare confusione con i suoi prodotti e in genere con la sua attività (c.d.
concorrenza sleale per confusione).
Una seconda categoria di fattispecie concorrenzialmente sleali si oggettiva, poi,
nella diffusione di notizie o di apprezzamenti sull’attività di un concorrente, idonei a
determinarne il discredito (c.d. concorrenza sleale per denigrazione). A tal proposito,
non ci si può esimere dal puntualizzare come, dopo qualche incertezza, dottrina e
giurisprudenza si siano adesso decisamente orientate nel senso di ammettere la liceità
concorrenziale della diffusione di quelle notizie che, sebbene idonee a determinare il
discredito di un concorrente, siano comunque veritiere ed elaborate in modo non
tendenzioso (cioè tali da non determinare effetti screditanti eccedenti l’esigenza di
informazione del pubblico).
Sono infine atti punibili ex art. 2598 c.c. quelli tesi ad appropiarsi dei pregi dei
prodotti o dell’impresa concorrente (c.d. concorrenza sleale per sottrazione). La legge,
in sostanza, punisce l’imprenditore che si “ammanti delle penne del pavone” facendo
apparire, nella reclame dei prodotti o nella presentazione dell’impresa al pubblico, come
propri, meriti e riconoscimenti di pertinenza, invece, dei prodotti o dell’impresa altrui.
Come detto, questi adesso analizzati sono atti specifici di concorrenza sleale e quindi,
come tali, da far giustamente rientrare nella clausola generale di cui al n.3 dell’art. 2598
c.c.: sono infatti anch’essi atti contrari ai principi della correttezza professionale e, allo
stesso tempo, idonei a danneggiare l’altrui azienda.
1.3 La repressione della concorrenza sleale.
Di fronte ad un atto di concorrenza sleale, qualora soggetto attivo e passivo siano
entrambi imprenditori e si trovino tra di loro in rapporto di concorrenza economica, la
legge riconosce al secondo la possibilità di adire il giudice ordinario proponendo azione
di concorrenza sleale contro il primo. Per completezza di esposizione, è oltremodo
doveroso riconoscere legittimazione attiva e passiva anche alle cosiddette associazioni
professionali: legittimazione ad agire nel caso in cui gli atti di concorrenza sleale posti
in essere da un terzo pregiudichino gli interessi di un’intera categoria professionale;
legittimazione a resistere, invece, nel caso in cui gli atti compiuti dalle associazioni
stesse siano commessi nell’interesse degli aderenti ma in pregiudizio dei concorrenti
non iscritti (al momento è giusto non approfondire il discorso relativo ai presupposti
soggettivi di legittimazione all’azione di concorrenza sleale: di essi, infatti, tratteremo
abbondantemente nei capitoli successivi essendo il tema del nostro lavoro).
Una volta adita la magistratura, in considerazione della possibile lunghezza del
giudizio di merito, nonché della gravità dei danni che in quel frattempo l’imprenditore-
attore potrebbe subire, viene legalmente concessa a quest’ultimo la possibilità di
accedere alle cosiddette misure cautelari ed in particolar modo a quei provvedimenti
d’urgenza che, ex art. 700 c.p.c.
3
, appaiano, secondo le circostanze, più idonei ad
assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione nel merito. Chi chiede tutela
cautelare dovrà però fornire innanzitutto prova sommaria dell’esistenza di un pericolo al
quale il ritardo potrebbe esporre il diritto (periculum in mora), ed in secondo luogo
fornire prova della titolarità e dell’esistenza del diritto che si intende tutelare e garantire
(fumus boni iuris).
Appena accertato il compimento di uno o più atti di concorrenza sleale, dovrà
essere emessa sentenza. Questa potrà contenere tutte le sanzioni previste dagli artt.
2599
4
e 2600
5
c.c. (inibizione alla continuazione dell’illecito, emissione degli opportuni
provvedimenti necessari all’eliminazione degli effetti dell’illecito, pubblicazione della
sentenza e risarcimento del danno): la loro applicazione, fatta eccezione per il solo
risarcimento, presuppone esclusivamente l’accertamento della sussistenza oggettiva di
atti di concorrenza sleale, senza che rilevino né lo stato soggettivo dell’autore (dolo o
colpa), né l’esistenza di un danno effettivo. Per la condanna al risarcimento del danno
occorrono, invece, il dolo o la colpa del convenuto (la colpa, ex art. 2600 comma 3 c.c.,
è coperta da presunzione relativa), nonché la prova del danno sofferto (si richiede in
questo caso, infatti, un danno effettivo e non la mera idoneità dannosa).
3
Art. 700 c.p.c.: «Fuori dei casi regolati nelle precedenti sezioni di questo capo, chi ha fondato motivo di
temere che durante il tempo occorrente per far valere il suo diritto in via ordinaria, questo sia minacciato
da un pregiudizio imminente e irreparabile, può chiedere con ricorso al giudice i provvedimenti
d’urgenza, che appaiono, secondo le circostanze, più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti
della decisione sul merito».
4
Art. 2599 c.c.: «La sentenza che accerta atti di concorrenza sleale ne inibisce la continuazione e dà gli
opportuni provvedimenti affinchè ne vengano eliminati gli effetti».
5
Art. 2600 c.c.: «Se gli atti di concorrenza sleale sono compiuti con dolo o con colpa, l’autore è tenuto al
risarcimento dei danni. In tali ipotesi può essere ordinata la pubblicazione della sentenza. Accertata gli
atti di concorrenza, la colpa si presume».
Doveroso adesso un accenno al passato: prima di una regolamentazione specifica,
la repressione della concorrenza sleale veniva attuata applicando la norma sull’illecito
aquiliano, allora contenuta nell’art. 1151 del Codice del 1865, ed ora nell’art. 2043
6
del
codice vigente. Ebbene, è da dirsi come quella soluzione presentasse una rilevante
forzatura conseguenza di due ordini di motivi :
ξ innanzitutto, a differenza di quanto accade in ambito di illecito aquiliano, non
occorre che l’atto di concorrenza sleale cagioni un danno al concorrente essendo
sufficiente la mera idoneità al danno;
ξ in secondo luogo non occorre, perché l’atto possa essere qualificato come atto di
concorrenza sleale, la prova del dolo o della colpa di chi lo abbia commesso.
Infatti, come detto, accertato l’atto di concorrenza sleale, anche qualora si riuscisse
a dimostrare l’inesistenza della colpa o del dolo, la sentenza dovrà comunque
essere di condanna e contenente tutte le sanzioni previste dall’attuale codice con
esclusione unicamente di quella del risarcimento dei danni.
Ora, è chiaro che la concorrenza sleale, rappresentando essa pure un’ipotesi di illecito
civile extracontrattuale, ben può qualificarsi come una species del genus dell’illecito
civile; è però altrettanto chiaro come ciò non possa certo far rientrare tale concorrenza
sleale nell’ipotesi dell’art. 2043 c.c., nè che ad essa possa applicarsi questa norma
quando la semplice carenza dei requisiti soggettivi non consenta l’applicazione dell’art.
2598 c.c.
6
Art. 2043 c.c.: «Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui
che ha commesso il fatto a risarcire il danno».
1.4 Natura del diritto tutelato dalle norme sulla concorrenza sleale.
Prima di passare all’analisi delle delle condizioni di natura soggettiva necessarie ai
fini della legittimazione (attiva e passiva) all’azione di concorrenza sleale, è opportuno
soffermarci brevemente sulla natura del diritto che l’imprenditore ha interesse a tutelare
chiedendo in giudizio l’applicazione degli artt. 2598 ss. c.c..
Ebbene, a tal riguardo, la dottrina nonché la giurisprudenza maggioritarie non
sembrano avere dubbi nell’identificare tale diritto con la clientela. Uno dei maggiori
esponenti di tale tesi è stato sicuramente il Ghiron, capace di definire l’atto di
concorrenza sleale come atto «sviatore di clientela». L’autore, dall’osservazione che il
danno concorrenziale consiste normalmente in uno sviamento di clientela, sembra aver
tratto ed elevato a principio l’equazione: danno rilevante ai sensi dell’art. 2598 c.c. =
sviamento di clientela.
Concorde a tali parole è poi stata, come detto, anche un’importante giurisprudenza,
giunta a considerare applicabile la disciplina della concorrenza sleale al rapporto tra
imprenditori operanti in rami commerciali diversi, qualora le loro attività siano però
dirette ad una medesima clientela.
Tribunale Napoli 30/12/1971
7
:
«Assume l’attrice (s.p.a. CEAT) che la Mancone confezioni ha compiuto atti
concretanti gli estremi della concorrenza sleale per aver prodotto ed immesso in
commercio un materasso con marchio REAL FLEX, accompagnandolo con un
certificato di garanzia in cui falsamente si affermava che era prodotto con isolante
CEAT, e con una targhetta che, per le sue caratteristiche e per l’uso del nome polirene,
da essa CEAT brevettato, era idonea ad ingenerare confusioni nei consumatori.
Eccepisce in diritto la convenuta che, nel caso in esame, non ricorre l’ipotesi della
concorrenza sleale non potendosi proprio parlare di concorrenza. Presuppoato infatti
della concorrenza è che le due imprese svolgano attività similari, operino cioè nel
medesimo settore produttivo, ipotesi non ricorrente nel caso di specie in quanto, mentre
la Mancone produce solo materassi a molle, la CEAT produce una miriade di prodotti
ma non materassi a molle.
L’eccezione è destituita di fondamento e non può essere accolta. In effetti, secondo il
Collegio, per realizzare un atto di concorrenza non è necessario che i due imprenditori
esercitino la medesima attività essendo sufficiente che si possa ipotizzare un pericolo di
sviamento di clientela a causa della sua comunanza effettiva o virtuale. E’ infatti
insegnamento ormai consolidato della Suprema Corte che, per l’identificazione dell’atto
di concorrenza sleale come idoneo ad alterare i fattori economici che regolano il
normale incontro della domanda e della offerta relative ad un dato tipo di prodotto che
soddisfa lo stesso bisogno o bisogni analoghi, occorre aver riguardo all’identità o alla
comunanza di clientela e non al tipo di attività svolta dai vari soggetti, in modo da
considerarsi soltanto la relazione concorrenziale esistente tra analoghe forme di attività.
In applicazione di questo principio, è stata così ritenuta ricorrente l’ipotesi di
concorrenza anche in mancanza di rapporto di immediatezza, anche qualora sussista una
relazione di concorrenza soltanto indiretta o mediata, e anche qualora i due imprenditori
non operino nello stesso ramo commerciale.
7
in G.a.d.i. 1973, pp.173 ss.
Ciò premesso, per accertare se nel caso di specie possa configurarsi un’ipotesi di
concorrenza sleale, occorre esaminare se l’attività delle due parti poteva indirizzarsi alla
medesima clientela, in modo da potersi verificare un’ipotesi di sviamento della clientela
di una parte ad opera dell’attività dell’altra. Orbene, ritiene il Collegio che tale ipotesi
nel caso di specie ricorra. Infatti, se è vero che la CEAT non costruisce materassi a
molle, è pur vero che produce la materia prima per l’imbottitura dei materasi stessi, tra
cui l’isolante termico in polirene di cui si lamenta l’usurpazione del nome, come si
evince dal certificato dell’ufficio brevetti prodotto in atti, e come la convenuta
riconosce. Orbene, non v’è dubbio che le due produzioni si dirigano alla medesima
clientela: questa infatti potrà orientarsi verso un tipo o un altro di materasso a seconda
delle sue caratteristiche, tra cui di non secondaria importanza è l’isolante termico. Un
buon prodotto isolante, perciò, è elemento idoneo ad indirizzare la clientela verso un
tipo di materasso e la ditta che lo produce, sottraendola alla concorrenza. Tanto ciò è
vero che la convenuta ritenne utile reclamizzare il suo prodotto indicando nel certificato
di garanzia che era fabbricato con isolante della CEAT. Se quindi l’isolante termico è
un valido criterio di orientamento della clientela, la ditta che lo produce ha interesse a
che questa non sia sottratta a coloro che da lei si forniscono, perché la sottrazione della
clientela a quegli imprenditori che utilizzano il proprio prodotto, si risolve in definitiva
in sottrazione di clientela all’attrice. Senza contare poi che l’attrice ha interesse a
difendere il buon nome che il suo prodotto ha acquistato sul mercato, il quale potrebbe
essere compromesso, qualora il prodotto utilizzato in sua vece non fosse altrettanto
buono, perché porterebbe ad una perdita di clientela…».
Se questo è l’orientamento maggioritario, altra parte della dottrina non sembra
condividerlo: esisterebbero infatti diversi atti di concorrenza da tutti riconosciuti come
sleali che, in rapporto al requisito della dannosità, non possono certo ridursi
all’equazione suddetta (e cioè all’equazione: danno concorrenziale = sviamento): ciò
neppure facendo ricorso all’abile formula ascarelliana di «sviamento in forma indiretta
per diminuizione dell’efficienza dell’altrui azienda». Si pensi a tal proposito, allo storno
di dipendenti, allo spionaggio, al boicottaggio, e cioè a quegli atti capaci addirittura di
indurre alcuni autori a spostare dalla clientela all’avviamento l’oggetto del diritto
tutelato dalla disciplina in esame: ebbene, qualora si compia uno di tali atti all’interno di
un rapporto di concorrenza, questo sarà soggetto a repressione come sleale anche
qualora il danno di cui è capace non consista in uno sviamento di clientela.
La considerazione da ultimo fatta ha inevitabilmente aperto la strada ad un
continuo flusso di teorie tese, chi più chi meno, ad evidenziare quale fosse in concreto il
bene tutelato dagli artt. 2598 ss. c.c..
n questo senso, una parte della dottrina
8
ha proposto, rilevando come la clientela
sia una conseguenza e cioè quasi una proiezione esterna dell’avviamento (il quale altro
non è che una qualità dell’azienda), di considerare la repressione della concorrenza
sleale come conseguenza dell’esistenza di un diritto assoluto sull’azienda, intesa come
complesso di rapporti giuridici reali ed obbligatori unificati nella comune destinazione.
In questo senso, oltre ai diritti che competono al titolare dell’azienda quale titolare dei
singoli beni, dovrà andar riconosciuto a quest’ultimo anche un complessivo ed
autonomo diritto assoluto sull’universitas da lui stesso creata: sarà proprio questo diritto
a dover essere protetto dalle norme sulla concorrenza sleale, norme tendenti appunto a
8
Casanova, Le imprese commerciali, Torino 1955, p.633
preservare l’integrità della compagine aziendale. Immediata la replica a tale assunto: «se
la ragione della repressione fosse veramente nella tutela dell’azienda, perché mai
sarebbero repressi solo gli atti sleali di concorrenza e non invece qualunque atto
concorrenziale in genere?»
9
.
Un’ulteriore corrente dottrinale
10
, infine, ha qualificato il diritto che stiamo
adesso esaminando come diritto di personalità. Anche in questo caso però non sono
mancate obiezioni: si è infatti opposto a tale costruzione che i diritti della personalità,
oltre a non avere contenuto patrimoniale, riguardano la tutela di quelle fondamentali ed
insopprimibili estrinsecazioni della persona, come appunto il nome, l’immagine ed altre,
tra le quali non può farsi certamente rientrare il diritto a non essere bersaglio di
determinati atti di concorrenza. In effetti «queste critiche sembrano cogliere nel segno,
sebbene non tanto per l’assenza del carattere patrimoniale nei diritti della personalità, il
che, infatti, è inesatto (i riflessi patrimoniali dell’abuso di un nome stimato, ad esempio,
sono innegabili), quanto piuttosto per il fatto che tali diritti della personalità ineriscono
alla persona e sono diretti ad assicurare a «qualunque» soggetto quel minimo di facoltà
che permetta di identificarne e tutelarne la soggettività giuridica. Il diritto, invece,
tutelato dalle norme sulla concorrenza sleale non è attribuibile in maniera così generale
essendo proprio esclusivamente, come vedremo, dei soli imprenditori. Si tratta quindi di
un diritto speciale non trovante riscontro in campi diversi dall’esercizio professionale
dell’attività economica, entro la quale infatti rimane circoscritto: sorge con l’acquisto
della qualità di imprenditore e resta in vita finchè questa persiste.
L’unica cosa che forse appare certa è che il diritto in esame rientra nell’ambito
di quei diritti conseguenziali e funzionali all’acquisto di una qualifica: si dovrà pertanto
parlare di un diritto scaturente dallo status di imprenditore. Senonchè, a fianco dei
molteplici obblighi che incombono sull'imprenditore in quanto tale (registrazioni,
contabilità, etc…), dovremo porre senz’altro questa super tutela di realizzazione
dell’utile, che parimenti non trova riscontro nel diritto comune»
11
.
9
Camilli, Natura del diritto tutelato dalle norme sulla concorrenza sleale, in Riv. dir. ind. 1961, I, p.154
10
Greco, Corso di diritto commerciale, p.252-254
11
Camilli, Natura del diritto tutelato dalle norme sulla concorrenza sleale in Riv. dir. ind. 1961, I,
pp.158-160
C A P I T O L O II
INTRODUZIONE AI PRESUPPOSTI SOGGETTIVI DI LEGITTIMAZIONE
ALL’AZIONE DI CONCORRENZA SLEALE
2.1 Azione di concorrenza sleale e legittimi conraddittori.
Al fine di non veder pregiudicato un proprio diritto, al titolare del medesimo viene
generalmente riconosciuta la possibilità di adire le autorità giurisdizionali: di ciò ne
sono limpida testimonianza tanto l’art. 99 c.p.c.
12
, quanto il primo comma dell’art. 24
Cost. secondo cui «tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e dei
propri interessi legittimi».
Nello specifico ambito di nostra competenza, il diritto di cui si chiede la difesa
giurisdizionale è, almeno secondo il già accennato orientamento maggioritario, quello di
vedere salvaguardata la propria attività economica da eventuali illeciti sviamenti di
clientela posti in essere dai vari concorrenti.
E’ proprio da tale assunto che si deve adesso partire per poter individuare quelli
che sono i requisiti di natura propriamente soggettiva necessari a legittimare un’azione
di concorrenza sleale. Ebbene, attualmente, dottrina e giurisprudenza maggioritarie
riconoscono come legittimi contraddittori i soggetti attivi e passivi di un comportamento
concorrenzialmente sleale a patto che siano entrambi imprenditori ai sensi dell’art. 2082
c.c.
13
e a patto che si trovino tra di loro in un rapporto di concorrenza economica. In
effetti, se da un lato lo sviamento di clientela è un danno che potrà subire solo colui che
eserciti attività economica, dall’altro è comunque un danno che potrà essere procurato
solo da chi intenda “appropriarsi” di quella stessa clientela illecitamente sottratta ad
altri. E’ quindi necessario che entrambi i soggetti siano imprenditori e tra di loro in
rapporto di concorrenza economica, perché solo in questo modo il danno subito dal
soggetto passivo dell’atto verrebbe presumibilmente a corrispondere al vantaggio
conseguito dal soggetto attivo. Di conseguenza, il giardiniere che denigri una ditta di
abbigliamento allo scopo di arrecarle pregiudizio, compirà si un atto illecito, ma
perseguibile solo tramite generica azione aquiliana (art. 2043 c.c.) e non tramite azione
concorrenziale: non è infatti da presumersi nei suoi riguardi alcun tipo di vantaggio
conseguenziale al suo atto. Parte della dottrina e della giurisprudenza hanno poi
addirittura ravvisato l’esistenza, tra tali presupposti, di una reciproca relazione e talora
di un autentico condizionamento: così, ad esempio, la tesi di chi vede in «chiunque»
(anche quindi nel non imprenditore) il possibile autore della condotta vietata ai sensi
12
Art. 99 c.p.c.: «Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve proporre domanda al giudice
competente».
13
Art. 2082 c.c.: «E’ imprenditore chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al
fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi».
dell’art. 2598 c.c., porterà, allo stesso tempo, ad escludere anche la necessità di un
rapporto concorrenziale tra soggetto attivo e soggetto passivo.
Al di là di questo, comunque, ciò che ci auguriamo di poter conseguire, è che tali
presupposti rimangano distinguibili pur nelle situazioni di reciproco collegamento.
2.2 La qualifica imprenditoriale dei soggetti.
Come già precedentemente accennato, l’opinione prevalente in dottrina così come
in giurisprudenza, ravvisa nella qualità di imprenditore ai sensi dell’art. 2082 c.c., il
primo presupposto soggettivo necessario ai fini dell’applicabilità delle norme sulla
concorrenza sleale. Affermare questo, significa considerare legittimi attori e legittimi
contraddittori in fatto di azione di concorrenza sleale, coloro che esercitino
professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello
scambio di beni o di servizi. E’ dunque evidente, in quest’ottica, che il termine
«chiunque» adottato dall’art. 2598 c.c. non debba essere inteso in senso troppo
generico.
Ora, se questa è la nozione generica di “imprenditore”, è comunque vero che non
sono mancate e non mancano oggigiorno precisazioni relative a particolari situazioni
imprenditoriali.
Così come avremo modo di approfondire più avanti, si sono infatti ritenuti
applicabili gli artt. 2598 ss. c.c.:
ξ a colui che eserciti effettivamente l’attività di impresa, sebbene non titolare della
licenza amministrativa necessaria, e sebbene sfornito delle prescritte
autorizzazioni;
ξ all’imprenditore che, fornendo il contributo di una diretta partecipazione e avendo
un proprio interesse in un’altrui attività di impresa, abbia compiuto atti rientranti
nella previsione dell’art. 2598 c.c. a favore di quest’ultima (principio, questo, che,
facendo prevalere la sostanza sulla forma, sembrerebbe suscettibile di fecondi
sviluppi: in particolare, forse, per giungere ad affermare la responsabilità anche del
cosiddetto imprenditore occulto);
ξ all’imprenditore che non sia proprietario dell’azienda, (a tal riguardo, è comunque
da dirsi come siano effettivamente pochi i contrari a tale assunto, visto che lo
stesso codice civile, all’art. 2555 c.c., considera non necessaria, ai fini della
qualifica imprenditoriale, la proprietà dell’azienda essendone sufficiente la sua
semplice organizzazione);
ξ all’imprenditore soggetto di diritto pubblico. In quest’ottica, la disciplina della
concorrenza sleale, trova applicazione nei confronti della Pubblica
Amministrazione quando essa svolga attività imprenditoriale in regime di
concorrenza. Questo, sia che l’impresa venga esercitata da un ente pubblico
economico, sia che venga invece esercitata da un ente pubblico non economico: in
questa seconda ipotesi è però necessario che l’attività imprenditoriale abbia
carattere meramente secondario e non rispondente allo scopo istituzionale
dell’ente. Rimangono quindi estranei alla disciplina concorrenziale quegli atti che,
pur suscettibili di arrecare pregiudizi economici ai privati, siano però compiuti
nell’esercizio di un’attività amministrativa esplicata in posizione di supremazia.
Detto questo, si tratta adesso di accennare ad un orientamento ormai consolidato in
dottrina così come in giurisprudenza, secondo cui la responsabilità dell’imprenditore
avvantaggiato da un’attività concorrenzialmente illecita può essere affermata anche nel
caso in cui essa sia concretamente realizzata da un soggetto estraneo alla gara
concorrenziale. I presupposti di questa responsabilità variano, come avremo modo di
vedere nel corso del capitolo v, secondo i diversi soggetti agenti: qualora, infatti, l’atto
di concorrenza sleale sia compiuto dal dipendente dell’imprenditore nell’interesse di
quest’ultimo, la responsabilità dell’imprenditore stesso verrà affermata ai sensi dell’art.
2049 c.c.
14
; nel caso invece in cui l’atto sia stato commesso da chi non sia dipendente
ma comunque nell’interesse dell’imprenditore, la responsabilità di quest’ultimo verrà
affermata sulla base dell’art. 2598 n.3 c.c. qualificante concorrenza sleale anche
l’avvalersi «indirettamente» di mezzi non conformi ai principi della correttezza
professionale.
Rimane ora da stabilire se ed a quale titolo l’autore materiale dell’atto ne risponda.
Ebbene, a tal riguardo, gli orientamenti formatisi sono due: quello minoritario riconosce
la responsabilità dell’interposto solo ai sensi dell’art. 2043 c.c. qualora, sia chiaro,
sussistano i presupposti di applicazione di questa norma; quello prevalente, invece, è
incentrato sull’applicazione dell’art. 2055 c.c.
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e sulla conseguente equiparazione dei
soggetti che abbiano preso parte all’illecito, ritenendo quindi l’interposto responsabile
di concorrenza sleale in solido con l’imprenditore avvantaggiato dall’atto.
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Art. 2049 c.c.: «I padroni e i committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro
domestici e commessi nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti».
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Art. 2055 c.c.: «Se il fatto dannoso è imputabile a più persone, tutte sono obbligate in solido al
risarcimento del danno. Colui che ha risarcito il danno ha regresso contro ciascuno degli altri, nella
misura determinata dalla gravità della rispettiva colpa e dall’entità delle conseguenze che ne sono
derivate. Nel dubbio, le singole colpe si presumono uguali».
2.3 Il rapporto di concorrenza economica tra i soggetti.
Secondo presupposto soggettivo necessario ai fini dell’applicabilità delle norme
sulla concorrenza sleale è, come detto, l’esistenza di un rapporto di concorrenza
economica tra soggetto attivo e soggetto passivo dell’atto. A questo proposito,
ritenendosi che la dannosità dell’atto di concorrenza si configura di regola come
sviamento di clientela, è pacifico, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, che il
rapporto di concorrenza ricorra quando tra i soggetti dell’atto vi sia comunanza di
clientela, effettiva o potenziale che sia. A tal fine occorre quindi aver riguardo
all’identità o all’affinità dei prodotti e dei servizi offerti dalle imprese, nonché alla
natura dei bisogni soddisfatti, potendo, infatti, prodotti differenti essere tuttavia
fungibili ed idonei a soddisfare bisogni analoghi o complementari.
Come detto, un orientamento estensivo, ormai pienamente accolto, ritiene legittimi
contraddittori anche coloro che si trovino in un rapporto di concorrenza semplicemente
potenziale (cioè probabile in un futuro più o meno prossimo); potenzialità questa da
valutarsi per lo più in riferimento a tre distinti profili:
ξ da un punto di vista territoriale, la concorrenza potenziale viene affermata
allorquando, pur operando due imprese in ambiti geografici differenti, vi sia
concreta possibilità di accesso di una di esse al mercato dell’altra;
ξ in ottica temporale, invece, la concorrenza potenziale viene affermata in relazione
a soggetti che non abbiano ancora avviato, ovvero abbiano sospeso in modo non
definitivo, l’attività (si pensi all’impresa in fieri o per la quale sia stata avviata la
sola fase organizzativa). Su questa scia, la disciplina viene altresì ritenuta
applicabile all’impresa in liquidazione nonché a favore dell’impresa fallita qualora
vi sia esercizio provvisorio da parte del curatore fallimentare (meno frequente è la
considerazione della legittimazione passiva del curatore dell’impresa fallita);
ξ sotto il profilo merceologico, infine, la concorrenza potenziale ricorre quando sia
concretamente probabile un’estensione dell’ambito operativo di un’impresa a
quello dell’altra.
Per concludere, è doverosa, adesso, un’ultima considerazione: è infatti ormai opinione
riconosciuta da tutti che il rapporto concorrenziale esista anche tra soggetti operanti a
diversi stadi della catena produttiva-distributiva: la giustificazione a tale assunto, come
vedremo più avanti, è da trovarsi nella relazione concorrenziale esistente tra i produttori
di un medesimo bene e nella configurabilità della condotta del rivenditore come
condotta posta in essere nell’interesse del proprio produttore.
2.4 Legittimazione all’azione delle cosiddette associazioni professionali.
Secondo l’art. 2601 c.c. «quando gli atti di concorrenza sleale pregiudicano gli
interessi di una categoria professionale, l’azione per la repressione della concorrenza
sleale può essere promossa anche dalle associazioni professionali e dagli enti che
rappresentano la categoria».
Giurisprudenza e dottrina, ancora oggi, sono divise circa il titolo da riconoscere
alla legittimazione di tali associazioni: l’orientamento prevalente attribuisce ad esse la
legittimazione ad agire “iure proprio” per la tutela degli interessi di categoria di cui
sono portatrici, sottolineando come il concetto di tale interesse non sia riducibile a
quello di interesse collettivo dei membri delle associazioni; l’orientamento minoritario,
invece, è dell’opinione che la norma in esame stabilisca oggi un caso di sostituzione
processuale, attribuendo eccezionalmente alle associazioni la legittimazione ad agire in
nome proprio ma nell’interesse degli imprenditori associati direttamente lesi dall’atto di
sleale concorrenza.
Questo per quel che riguarda la legittimazione attiva, ma in fatto di legittimazione
passiva? Ebbene, se la lettera e la storia dell’articolo in esame sembrerebbero deporre
nel senso che agli enti ed alle associazioni spetti unicamente la prima, la giurisprudenza
attuale è però decisamente orientata nell’ammettere anche la seconda, considerando
l’associazione responsabile quale terzo non imprenditore per gli atti commessi
nell’interesse degli aderenti e in pregiudizio dei concorrenti non iscritti.
Ultima considerazione: prima del 1998, non esistevano dubbi sul fatto che l’art.
2601 del c.c. si riferisse soltanto alle associazioni professionali tra imprenditori, e non
anche alle associazioni dei consumatori (non per niente, un’importante sentenza della
Corte Costituzionale del 1988, ha dichiarato manifestamente infondata un’eccezione di
illegittimità costituzionale dell’art. 2601 c.c. nella parte in cui non riconosce legittimità
ad agire alle associazioni dei consumatori). Ebbene, per effetto della legge n.281 del
30/07/1998, della quale parleremo più avanti, le associazioni dei consumatori sono per
la prima volta legittimate ad agire a tutela dei loro interessi collettivi.