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I
ASPETTI INTRODUTTIVI
Quando si parla di aggressività generalmente vengono in mente modalità
eterodirette, caratterizzate dalla esternalizzazione dei comportamenti, dal rivolgere i
propri attacchi verso terzi o verso oggetti, attraverso aggressioni fisiche e/o verbali che
hanno lo scopo di causare danno o dolore alla vittima. In realtà esiste anche un altro
modo di esprimere l’aggressività, facendo di se stessi il bersaglio, l’oggetto da
aggredire; in questi casi si parla di aggressività autodiretta (Cerutti & Manca, 2008).
Sotto questa etichetta è possibile riunire una vasta gamma di comportamenti
autolesionistici molto eterogenei tra loro, come ad esempio l’automutilazione, i tentativi
di suicidio, l’autoavvelenamento, gravi disturbi alimentari, l’abuso di alcol o droghe, il
cutting (tagli sulla pelle), il branding (letteralmente “marchio”, “marchiare”; lesioni
epidermiche che si ottengono bruciando la pelle con barrette di metallo incandescenti),
le scarificazioni (deformazioni cutanee a scopi decorativi), i tatuaggi, i piercing.
Anche nell’ambito delle espressioni artistiche è possibile rintracciare condotte di
tipo autolesionistico. Si pensi per esempio alla corrente denominata Body Art, che
considera il corpo come una vera e propria opera d’arte, come una tela su cui esibire
cicatrici, ferite, sangue, squarci, tagli o persino torture inflitte con coltelli e lamette
(Rossi Monti & D’Agostino, 2009).
Da questo quadro introduttivo emerge chiaramente che l’idea di farsi del male, di
ferirsi, di provocarsi una lesione volontariamente, non appartiene solo al regno della
psicopatologia. Esistono infatti molte forme di autolesionismo culturalmente e
socialmente riconosciute o addirittura incoraggiate, se inserite nel contesto di un
insieme di credenze o di valori che danno loro un senso. Ad esempio strapparsi i capelli
o graffiarsi a sangue diventano comportamenti assolutamente comprensibili se osservati
nel contesto di un grave lutto in certe culture (Rossi Monti & D’Agostino, 2009).
Data l’eterogeneità del fenomeno è più facile classificare queste condotte che
darne una definizione esaustiva e univoca.
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Benché la prima classificazione risalga agli anni ’30 (Menninger, 1938), una delle
più esaustive oggi è quella di Favazza, risalente al 1990. In seguito rivista dall’Autore
insieme a Rosenthal nel 1993 e ulteriormente modificata con Simeon nel 1995, essa ha
assunto la sua forma definitiva nel 1996.
Favazza (1996) opera innanzitutto una distinzione tra autolesionismo deviante e
autolesionismo culturalmente approvato.
L’autolesionismo culturalmente approvato è fatto di rituali e pratiche
autolesionistiche accettate e riconosciute da un gruppo. I rituali riflettono tradizioni e
credenze delle varie società e vengono messi in atto per prevenire e allontanare
fenomeni negativi, come ad esempio catastrofi, rabbia degli spiriti, conflitti fra tribù. Le
pratiche consistono in modificazioni o manipolazioni corporee, molto diffuse anche
nelle società moderne; si pensi ad esempio ai tatuaggi o ai piercing, che sono pratiche
talmente diffuse e quotidiane da essere considerate di moda (Rossi Monti &
D’Agostino, 2008).
L’autolesionismo deviante invece viene suddiviso in tre grandi categorie:
autolesionismo maggiore, autolesionismo stereotipato e autolesionismo
superficiale/moderato.
L’autolesionismo maggiore comprende gesti poco frequenti ma molto gravi, come
ad esempio l’enucleazione di un occhio, l’evirazione, l’autoamputazione di un orecchio.
Si tratta di atti improvvisi, spesso confusi e caotici che procurano gravi danni alla
persona e per i quali i soggetti spesso non riescono a dare una spiegazione coerente e
comprensibile. Questa forma “maggiore” di autolesionismo si manifesta spesso nel
contesto di intossicazioni acute da sostanze o di esperienze psicotiche.
L’autolesionismo stereotipato comprende una serie di azioni, tra cui battere la
testa, percuotersi, mordersi, graffiarsi la bocca o gli occhi, strapparsi i capelli, irritare o
lesionare la pelle, legarsi le dita delle mani o dei piedi. Si tratta di gesti ripetitivi e
occasionalmente ritmici. Sembra che questi soggetti siano spinti a farsi del male per
obbedire ad un imperativo interno, senza provare alcuna colpa o vergogna per la loro
condotta. In genere si tratta di soggetti con ritardo mentale, psicotici in fase acuta,
schizofrenici, con sindromi autistiche o altre sindromi di carattere neurologico.
L’autolesionismo superficiale/moderato è la forma autolesiva più diffusa. In
questo ambito rientrano tre tipi di condotte: condotte compulsive, che comprendono
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tricotillomania (strapparsi i capelli), mangiarsi le unghie fino alla carne viva, strapparsi
e scorticarsi la pelle; condotte impulsive, episodiche o ripetitive, che comprendono il
tagliare, incidere e bruciare la pelle, conficcare aghi nel corpo, rompersi le ossa,
interferire con la guarigione delle ferite. Tra tutte le condotte più comuni sono tagliarsi e
bruciarsi.
A partire da questa classificazione in accordo con gran parte della letteratura, è
possibile definire come “autoferimento”, o in inglese non-suicidal self-injury (NSSI), un
comportamento deliberato, ripetitivo e diretto che altera la superficie corporea senza un
intento suicidario consapevole e senza che vi sia un ambito sociale che accetta o
favorisce tali fenomeni (Herpertz, 1995).
Non vengono pertanto considerati autolesionistici in senso stretto:
∑ I comportamenti che conducono solo indirettamente a provocarsi dei danni, come
particolari modi di comportarsi, alimentarsi, bere o fumare che si possono tradurre
in un danno alla salute. Per indicare questo tipo di condotte, tra cui ad esempio
l’autoavvelenamento, le abbuffate, l’anoressia o l’overdose, si utilizza
generalmente il termine inglese deliberate self-harm (DSH).
∑ I comportamenti che hanno un intento suicidario, in quanto uno degli elementi
centrali della definizione di autolesionismo è l’assenza della volontà consapevole
di darsi la morte. È pertanto fondamentale non confondere l’autolesionismo vero e
proprio con il tentativo di suicidio (suicide attempt, SA), che comporta uno sforzo
diretto a porre fine intenzionalmente alla propria vita.
∑ I comportamenti che culminano nell’asportazione di una parte del proprio corpo.
Per indicare questo tipo di comportamenti generalmente si utilizza l’espressione
inglese self-mutilative behavior (SMB) o self-mutilation (SM).
∑ Le forme di autolesionismo socialmente accettate, come ad esempio i piercing o i
tatuaggi.
I comportamenti di autoferimento solitamente fanno il loro esordio in
adolescenza, in particolare tra i 13 e i 15 anni (Lofthouse & Yager-Schweller, 2009) e
coinvolgono un numero elevato di adolescenti, sia nell’ambito della popolazione
“normale” sia nell’ambito della popolazione clinica, che presenta cioè patologie di tipo
psichico.
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In realtà non è facile capire esattamente quanto sia diffusa la pratica
dell’autoferimento, sia a causa della difficoltà a trovare una caratterizzazione del
fenomeno unica e condivisa da tutti, sia perché gli autoferitori hanno dei grossi
problemi ad ammettere il loro comportamento. Per tanti, la vergogna gioca un ruolo
molto importante e quindi difficilmente questi soggetti parleranno del loro problema
durante un colloquio o un’intervista. Per questo motivo, utilizzare un elenco di domande
scritte consente di ottenere delle valutazioni più fedeli alla realtà (Claes &
Vandereycken, 2009).
Nell’ambito della popolazione clinica, le ricerche mostrano che il fenomeno
interessa circa il 60-80% dei pazienti (Nock & Prinstein, 2004; Ross & McKay, 1979),
mentre, per quanto riguarda la popolazione “normale”, la diffusione del fenomeno varia
molto a seconda delle diverse popolazioni esaminate.
Uno studio, condotto sulla popolazione scolastica australiana dell’età media di
15,4 anni, ha dimostrato che il fenomeno dell’autolesionismo riguarda il 6,2% dei
soggetti ed è prevalentemente rappresentato dal tagliarsi (cutting) (De Leo & Heller,
2004). In Scozia è stato condotto uno studio su oltre 2000 adolescenti di 15-16 anni: il
13,8% di essi ha dichiarato di aver praticato condotte autolesionistiche (il 71%
nell’ultimo anno) (O’Connor, Rasmussen, Miles et al., 2009). Uno studio relativo a
quattro scuole della Svezia ha fornito dati ancora più allarmanti: la percentuale di
adolescenti di 14 anni che ha riferito almeno un episodio di autolesionismo oscillava tra
il 36% e il 40% (Bjärehed & Lundh, 2008). In linea con questi risultati, uno studio su un
campione di studenti napoletani ha dimostrato che gli adolescenti con una storia di
autoferimento erano circa il 42% del campione, con il 10,2% di questi che riportava
quattro o più episodi autolesivi (Cerutti, Manca, Presaghi et al., 2011). Infine Di Pierro
e coll. (2012) hanno effettuato uno studio su adolescenti tra i 16 e i 19 anni, provenienti
da undici scuole italiane, e hanno trovato che il 18,4% del campione aveva compiuto
almeno un atto di autolesionismo.
Tuttavia i problemi nella valutazione della prevalenza dei comportamenti di
autoferimento non sono pochi. Il limite principale di molti studi riguarda la provenienza
dei dati. Frequentemente i comportamenti autolesionistici si inscrivono in una
dimensione privata, intima, che spesso non richiede cure fisiche da parte del personale
sanitario. Pertanto gli studi che utilizzano rapporti della polizia, referti medici o cartelle
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cliniche prendono in considerazione solo quei comportamenti che hanno un livello di
gravità tale da richiedere l’intervento medico o legale, escludendo tutte le forme di
autoferimento minore che raramente richiedono tale intervento (Sarno, 2008). Di
conseguenza le statistiche riguardanti la diffusione del fenomeno che si basano
esclusivamente sui dati ricavati dai registri ospedalieri colgono solo la punta
dell’iceberg.
Un importante studio condotto in Gran Bretagna attraverso questionari
autosomministrati (self-report) ha documentato quanto il fenomeno sia comune tra gli
adolescenti e ha anche dimostrato quanto il numero di coloro che cercano aiuto presso
una struttura sanitaria sia molto ridotto. Dei circa 6000 ragazzi di età compresa tra i 15 e
i 16 anni inclusi nello studio, l’11,2% delle ragazze e il 3,2% dei ragazzi ha dichiarato
di aver messo in atto comportamenti autolesionistici nell’anno precedente. Di questi,
solo il 12,6% si è rivolto ad un Pronto Soccorso ospedaliero (Hawton, Rodham, Evans
et al., 2002).
Nonostante il crescente interesse sviluppatosi attorno al fenomeno
dell’autoferimento, in Italia la presenza di tale modalità di comportamento è pressoché
sconosciuta, sia perché le prime ricerche mirate alla quantificazione precisa della
diffusione di questo fenomeno sono molto recenti (ad es. Cerutti, Presaghi, Manca et
al., 2011; Di Pierro, Sarno, Perego et al., 2012), sia perché in ambito clinico il
comportamento di autoferimento viene considerato come un semplice sintomo
all’interno di uno specifico quadro psicopatologico, uno su tutti il disturbo borderline di
personalità (Pani & Ferrarese, 2007).
Tuttavia è possibile farsi un’idea della significativa e preoccupante diffusione del
fenomeno in Italia semplicemente visitando i forum di Internet.
“Sto male ormai da molto tempo e ho cercato tanto il modo di esprimere questo mio
malessere, la mia incapacità di vivere, questa sensazione di inettitudine che mi opprime.
Ho provato a digiunare, ad ingozzarmi e vomitare, a dormire tutto il giorno, ma niente,
nessuna di queste cose mi apparteneva. Fino a quando un giorno, dopo aver provato a
parlare con tanti ed aver trovato poche orecchie disposte all'ascolto o alla comprensione,
ho sentito il forte desiderio di tagliarmi. Sono andato in bagno e con un rasoio mi sono
tagliato. La prima volta è stato difficile ma, una volta visto il sangue uscire dalla mia
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pelle, ho provato una profonda sensazione di benessere. Sono rimasto un po’ a guardare
il sangue e più vedevo rosso più mi sentivo bene e allora mi sono tagliato ancora e
ancora e ancora! Con cura mi sono disinfettato le ferite, le ho fasciate e curate e ogni
tanto le scoprivo per vedere le cicatrici e riprovare quella sensazione di benessere nel
guardare che sì, il mio dolore è vero, è lì, scritto sulla mia pelle. È un dolore oggettivo,
visibile, non è solo nella mia testa.”
“Una sera, è accaduto tutto in una sera. Un taglierino giallo mi taglia la pelle. Sono tre
anni ormai e mi sembra ieri, ricordo ogni minima cosa. Non avrei mai pensato di
arrivare a questo punto. All'inizio non lo volevo, ma arrivata fin qui mi sembra di non
volere l’aria. Il mio autolesionismo è la mia storia sulla mia pelle.”
“Non piango più, lo definirei un traguardo se non fosse che ho scoperto di essere stanca
persino per quello. Mi sento sempre più apatica. Tanto, tanto stanca. Stanca di non
sentirmi viva e di ricorrere a sfregiarmi per provare a me stessa di non essere morta, per
punirmi perché me lo merito, per calmare lo stress, per essere incapace di affrontare i
problemi.”
Si tratta di tre citazioni, tratte da un forum sull’autolesionismo reperibile in rete e
accessibile a chiunque, che mettono in luce, senza inutili giri di parole, la drammaticità
di un fenomeno che troppo spesso passa inosservato.
Preso atto che i comportamenti autolesivi sono diventati molto comuni anche
nella popolazione “normale” e che sembra che la diffusione di tale fenomeno vada
aumentando, è inevitabile chiedersi quali siano i fattori che conducono una persona a
farsi volontariamente del male.
È difficile dare una spiegazione certa a questo fenomeno, proprio perché
raramente ci sono motivazioni chiare ed evidenti dietro questi gesti. La tentazione più
forte è di ricercarne le cause nei momenti che precedono l’atto autolesionistico. Ma è
proprio in quegli istanti che si annida la causa scatenante di questi comportamenti?
Quando l’atto autolesionistico diventa abituale, possiamo cercare di riconoscere
determinate situazioni che aumentano le possibilità che il gesto si ripeta (fattori di
rischio) e altre che con più certezza li provocano (triggers, fattori scatenanti). Bisogna
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però prestare attenzione a trarre conclusioni affrettate da questi dati, perché spesso non è
una sola situazione a provocare questo genere di atti, bensì una serie di condizioni
particolari che possono verificarsi contemporaneamente (Claes & Vandereycken, 2009).
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II
FATTORI DI RISCHIO DEL COMPORTAMENTO DI
AUTOFERIMENTO
2.1. DEFINIZIONE E NATURA DEI FATTORI DI RISCHIO
Il concetto di rischio si riferisce ad un costrutto teorico proprio della psicologia
sociale, utilizzato per indicare la probabilità che uno specifico evento si verifichi.
Si parla di “fattori di rischio”, e non di “fattori causali”, perché i fattori di rischio
implicano una più elevata potenzialità e una maggiore probabilità di sviluppo dell’esito,
ma non sono deterministici. Ciò significa che la ricerca non può limitarsi a validare
un’associazione tra un fattore preso in esame e un successivo esito psicopatologico, ma
deve essere in grado di indicare quanto il fattore preso in esame è parte del processo
causale che conduce all’esito psicopatologico (Kraemer, 2003).
Quando si stabilisce che un putativo fattore di rischio opera nella stessa situazione
temporale in cui si manifesta un esito psicopatologico, si può considerare il fattore di
rischio putativo come un “correlato” del disturbo. Ma, siccome la valutazione è stata
concomitante, non è possibile determinare se il fattore di rischio ha prodotto l’esito
psicopatologico o viceversa. Per esempio dire che adolescenti che abusano di sostanze
hanno amici che pure abusano, significa che i due fattori sono correlati, ma non è
possibile definire cosa determina cosa (Dazzi & Madeddu, 2009).
Per stabilire che un costrutto è un fattore di rischio che porta a un esito negativo, è
necessario determinare tramite l’ausilio di studi longitudinali che il fattore putativo di
rischio precede l’emergenza di un esito negativo. Detto ciò, è possibile definire come
fattore di rischio una variabile misurabile che precede un determinato esito e che è
associata ad un più elevato rischio che tale esito si sviluppi (Kraemer, Kazdin, Offord et
al., 1997).
Nell’ambito della valutazione del rischio, la letteratura più recente mostra la
necessità di superare sia le concezioni classiche (fondate sulla prospettiva lineare della
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causalità diretta) sia le teorie basate sulla prospettiva della causalità multifattoriale e
sugli indici cumulativi di rischio, secondo le quali il rischio verrebbe incrementato dal
numero e non dalla presenza di questo o quel fattore. La complessità dell’intrecciarsi
degli elementi che entrano in gioco nei diversi percorsi evolutivi e la natura del rapporto
non-lineare tra i diversi fattori è meglio spiegata da modelli evolutivi transazionali di
natura dinamica, in cui individuo e contesto interpersonale sono correlati l’uno con
l’altro, ma soprattutto svolgono funzioni di mediazione per produrre l’esito (Dazzi &
Madeddu, 2009).
Si tratta di una concezione teorica, in cui assumono valore predittivo le relazioni
tra fattori, interpretate non in una prospettiva deterministica di causa-effetto e non in
base alla sommatoria degli elementi negativi presenti. In questa prospettiva i fattori
distali di rischio sono i fattori predisponenti, cioè esercitano un’influenza indiretta
determinando una condizione di fragilità e vulnerabilità, che può essere amplificata dai
cosiddetti fattori prossimali, che svolgono un’influenza diretta, che tuttavia può essere
mitigata da fattori protettivi (Fliege, 2009). L’esito finale dipenderà quindi dall’influsso
esercitato dalle condizioni di vulnerabilità a livello individuale, familiare e ambientale
(percezioni, credenze, valori, motivazioni, tratti di personalità e tendenze
comportamentali, esperienze pregresse ecc.) e dall’intrecciarsi di queste con i fattori
prossimali, di rischio e/o di protezione (Claes & Vandereycken, 2009).
Per quanto riguarda l’eziopatogenesi del comportamento di autoferimento, oltre
all’instabilità e all’insicurezza tipici dell’adolescenza, svolgono un ruolo nello sviluppo
e nel mantenimento di tale comportamento altri fattori, tra cui fattori di rischio
individuali (ad es. specifici tratti di personalità, disregolazione emotiva e problematiche
psichiatriche) ed esperienze di vita negative (ad es. traumi infantili, vittimizzazione)
(Gratz, 2003).
Da un lato la letteratura teorica tende ad enfatizzare la complessità nella
determinazione di un comportamento patologico cercando di sottolineare l’interazione
di più fattori di rischio nell’eziologia dell’autoferimento; dall’altro, le ricerche
empiriche risentono invece di una certa semplificazione nell’individuazione dei fattori
di rischio (Sarno, 2008). Infatti, benché solo l’interazione di più fattori possa
determinare un esito patologico, le ricerche relative ai fattori eziopatogenetici si sono di
solito occupate solo di uno o due fattori di rischio ipoteticamente correlati al