PREFAZIONE
Prefazione
Aulo Gellio, nella prefazione (par. 12) delle Noctes
Atticae, si presenta come un lettore accanito “volvendis
transeundisque multis admodum voluminibus… exercitus
defessusque sum”. Le sue letture vaste e disordinate non
trascurano alcun campo dello scibile antico e la sua narrazione
è costituita in gran parte da informazione erudita. La sua opera
è dunque un archivio dell’antichità contenente un patrimonio
inestimabile, soprattutto, per le scienze letterarie.
In questo lavoro si presenta una selezione di luoghi, nei
quali il nostro autore propone giudizi critici sui passi degli
autori antichi citati o attesta lezioni inedite lette in manoscritti,
a noi ignoti o riferite da illustri grammatici.
La schedatura di questi passi consente di evidenziare
particolari espressioni che preannunciano interessi “filologici”:
mirandae vetustatis (II, 3, 5-6); in libro vetere (II, 14, 1-3);
sincerae vetustatis libri (V, 4); veteribus libris inspectis
exploravimus (IX, 14, 1-4); conquisitis veteribus libris
PREFAZIONE
plusculis (IX, 14, 6-7); summae fidei et reverendae vetustatis
libro (IX, 14, 26); librum summae atque reverendae vetustatis
(cf. XVIII, 5, 11) sono formule ricorrenti in Gellio per
sostenere l’autenticità di un manoscritto.
La “bontà” o l’antichità dei manoscritti non è l’unico
criterio con cui Gellio giudica le lezioni come autentiche; egli
ricorre anche all’autorità dei grammatici antichi.
Alcuni grammatici del II sec. d. C., citati da Gellio, sono
Fido Optato (cf. II, 3, 5-6), Antonio Giuliano (cf. I, 4, 8),
Sulpicio Apollinare (cf. XX, 6, 14), verso i quali Gellio nutre
un rispetto e un’ammirazione da “discepolo” ed accoglie
inconfutabilmente le lezioni proposte. Giulio Igino (cf. I, 21,
4) e Valerio Probo (cf. I, 15, 18); sono, invece, grammatici del
I sec. d. C. considerati da Gellio autorevoli per le loro preziose
testimonianze ed elogiati, come i primi, con epiteti diversi:
honesti atque amoeni ingenii (cf. I, 4, 1) grammaticum
inlustrem (cf. I, 15, 18), multi nominis Romae grammaticum
(cf. II, 3, 5-6).
PREFAZIONE
Le orationes dei grammatici, tenute a Roma, hanno
lasciato un vivo ricordo nella mente di Gellio che al momento
della stesura dell’opera in Atene fa buon uso delle sue preziose
informazioni.
In questo insieme di notizie sui manoscritti antichi,
apprese oralmente, si distinguono, ad esempio, la
testimonianza di F. Optato (cf. II, 3, 5-6) che mostra a Gellio
un prezioso manoscritto del secondo libro dell’Eneide, e la
scoperta da parte di Gellio di una correzione in alcuni
manoscritti corrotti di Q. Claudio Quadrigario (cf. IX, 14).
La ricerca di lezioni attendibili induce il nostro autore ad
ispezionare manoscritti per noi spesso ormai sconosciuti. Tra
questi i manoscritti tironiani (cf. I, 7, 1-3 e XIII, 21, 16-17) che
sono esemplari, curati filologicamente da M. Tullio Tirone, di
opere ciceroniane e sono considerati da Gellio di antica e
irreprensibile reputazione (spectatae fidei; antiquissimae
fidei). S. Timpanaro (1986), p. 201, ritiene che sia possibile la
circolazione di manoscritti tironiani o copia degli stessi nel II
PREFAZIONE
sec. d. C. e pertanto Gellio può aver collazionato manoscritti di
questo genere.
Una testimonianza inedita, altrettanto interessante, è
costituita dagli autografi virgiliani (cf. VI, 20, 1; XIII, 21, 4)
che attestano la ricerca da parte del nostro autore di esemplari
sempre più attendibili.
La tradizione del testo delle Notti Attiche presenta un
quadro molto complesso. Per l’intera opera, composta di venti
libri, è stata supposta una partizione in due blocchi (I-VII, IX-
XX) anteriore al IX sec. d. C. e comunque successiva al IV
sec. d. C., in base alle testimonianze di Macrobio e Prisciano.
A definire meglio questa divisione non ci aiuta, secondo P. K.
Marshall, p. VI, il palinsesto Vaticanus Palatinus Lat. 24 (A)
contenente porzioni dei primi quattro libri delle Notti Attiche e
passi di altri autori latini, sebbene sia un pregevole testimone
risalente al IV sec. d. C.
Alla divisone in due parti è attribuibile, probabilmente,
la scomparsa del libro VIII a causa della perdita di alcuni fogli
estremi della prima parte (cf. R. Marache, p. XLIII).
PREFAZIONE
Per la prima parte (I-VII) è da rilevare l’opposizione tra
il codice A e il gruppo con archetipo comune formato dai
codici Vaticanus Lat. 3452, XIII sec. (V); Parisinus Lat. 5765,
XII sec. (P); Leidensis Gronovianus 21, XII sec. (R); e il
codice Buslidianus forse del XII sec. (b) posseduto da
Hieronymus Buslidius, oggi perduto e in gran parte
ricostruibile mediante la trascrizione di alcune lezioni da parte
di dotti umanisti (cf. P. K. Marshall p. VI-VII). Tra questi
spetta a L. Carrion l’annotazione della maggior parte delle
lezioni del codice b nell’edizione delle Notti Attiche di H.
Stephanus (Paris 1585), ma P. K. Marshall osserva che L.
Carrion fu un filologo di dubbia fede, incline alla
interpolazione.
Per la seconda parte (IX-XX) abbiamo uno stemma
molto lineare a due rami (g e d), secondo C. Hosius e R.
Marache.
La famiglia d è costituita essenzialmente da tre
manoscritti: Parisinus Lat. 8664, XIII sec. (Q); Leidensis
Vossianus Lat. F 7, XIV sec. (Z); Bernensis 404 e Leidensis
PREFAZIONE
Bibl. Publ.Lat 1952 XII sec., entrambi sono indicati con la
sigla (B) e contengono due frammenti di un codice del XII sec.
La famiglia g comprende, invece, più manoscritti:
Leovardiensis Bibl. Prov. van Friesland 55, IX sec. (F);
Vaticanus Reginensis Latinus 597, IX sec. (O); Vaticanus
Reginensis Latinus 1646, XII sec. (P); Leidensis Vossianus
Latinus F 112, X sec. (X); Florentinus Bibl. Nat. J. 4. 26, XV
sec. (N); Parisinus Lat. 13038, XIII sec. (S).
Secondo P. K. Marshall p. XI, F sarebbe l’unico
testimone di un terzo ramo, accanto a g e d, della tradizione
manoscritta.
L. Gamberale (1975) p. 53, ha ridimensionato il valore
del codice F considerandolo un manoscritto contaminato.
Rilevante nella trasmissione del testo è la testimonianza,
in gran parte del XV sec., dei codici recentiores (") che sono
gli unici a conservare insieme tutti i libri delle Noctes Atticae e
i titoli del libro VIII.
L’edizione critica di riferimento è quella di C. Hosius
(1903), ma nell’apparato sono riportate le lezioni o le possibili
PREFAZIONE
varianti attestate nelle edizioni di R. Marache (1967-1989) e P.
K. Marshall (1968-1990). Nel commento ai passi l’analisi si
sofferma principalmente nella valutazione delle testimonianze
attestate da Gellio e in una attenta disamina di queste.
Per la traduzione dei passi gelliani citati mi sono avvalso
in particolare delle edizioni di G. Bernardi - Perini (Torino,
1992); F. Cavazza (Bologna, 1985-1989) e L. Rusca (Milano,
1994
2
). Per le abbreviazioni degli autori latini e delle loro
opere si fa riferimento al Thesaurus Linguae Latinae.
10
Commenti
COMMENTI
11
I, 4, 8
r. 30
HOSIUS: nimis erat b
omissurus erat Hagen
promiserat Madvig
MARACHE: nimis erat b
MARSHALL: omiserat AVPR nimis erat b
promiserat Madvig
omissurus erat Hagen
COMMENTI
12
In I, 4 Gellio considera il parere di Antonio Giuliano
1
, su
un passo di Cicerone, Pro Plancio 68.
L’attenzione di Giuliano si concentra in particolare
modo su pecuniam debet e gratiam habet. Cicerone, secondo
lui, in una prima stesura ha scritto debet per entrambi i debiti:
di denaro e di gratitudine. In seguito ha corretto il secondo
debet in habet per distinguere i due debiti ed ha scritto gratiam
habet.
Le edizioni critiche della Pro Plancio presentano il testo
nella redazione definitiva pecuniam debet e gratiam habet; né
la tradizione manoscritta ciceroniana presenta varianti in
questo passo.
Giuliano rileva la variante d’autore proposta da
Cicerone che evidenzia l’omissione del secondo debet. Gellio
segnala questa operazione di revisione con omiserat (cf. par.
8). Su questo termine, presente nella tradizione manoscritta di
1
A. Giliuliano fu procuratore della Gallia nel 70 d. C. e autore di una monografia
storica “De Judaeis”; citato anche in altri passi di Gellio (cf. XV, 1, 1; IX, 1, 2 - 7;
XVIII, 5, 1 - 11) è a noi noto solo per la descrizione di Gellio: maestro pubblico di
retorica, autore di declamazioni scolastiche “… Antonius Iulianus rhetor, docendis
publice iuvenibus magister, hispano ore florentisque homo facundiae et rerum
litterarumque veterum peritus.
COMMENTI
13
Gellio, tutti gli editori sono d’accordo, ma segnalano diverse
congetture in apparato.
J. N. Madvig, p. 586, congetturava promiserat al posto
di omiserat, sostenendo che “Cicerone non aveva omesso
alcuna parola, ma aveva preannunciato l’attesa di una nuova
parola”.
J. M. Hunt, p. 86, considerava omiserat parola corrotta e
respingeva le congetture poco plausibili di J. N. Madvig e
Hagen. J. M. Hunt ritiene che il senso richiesto dal contesto sia
quod debuerat dicere, ma osserva che, probabilmente, la
preminenza del verbo debere avrebbe indotto Gellio ad evitare
debuerat. Congetturava, dunque, opus erat e ne spiegava la
sua evoluzione paleografica in omiserat. Da opus si è passati
ad onus, da qui il gruppo nu si è corrotto in mi per errata
divisione delle lettere m / n e si è giunti ad omiserat.
L. Holford-Strevens (1988) p. 64, invece, ritiene che
Cicerone non abbia potuto confondere i verbi debere ed
habere dinnanzi ad una giuria né ha pensato di farlo, inoltre
l’espressione habere gratiam ricorre in Cicerone fam. V, 11, 1
COMMENTI
14
“nec enim tu mihi habuisti modo gratiam, verum etiam
annulatissime rettulisti”.
E’ probabile che Giuliano fosse in possesso di un antico
esemplare con la lezione debet poi corretta in habet. La lezione
omiserat dei codici di Gellio è congruente a questa ipotesi di
lettura. Omiserat segnala, infatti, l’omissione della parola
debet. La vicinanza di habet con debet per un errore di origine
fonica e anche etimologica può aver determinato la
sostituzione di debet.
COMMENTI
15
I, 7, 1-3
Hosius: r. 16 futuram Cic. emendatus ω ,
corr. "
menda ê ω mendam scite Bährens
est et ω
Marache: r. 14 futurum PRV, recc. -ram Cic.
r. 17 emendandus edd. emendatus PRV,
recc.
inemendatus Thisius
r. 20 esset manifestarius edd. est et man-
PRV
Marshall: r. 17 emendandus ed. Asceus 1511
emendatus VPR
mendae suae ς mendae est
suae VPR
maendam scite Bährens esset ς
est et VPR
COMMENTI
16
Gellio considera irreprensibile l’autorità di un esemplare
della quinta Verrina (cf. Verr. II 5, 167) curato con dottrina da
Tullio Tirone “in libro spectatae fidei Tironiana cura atque
disciplina scriptum fuit”, in cui si legge la forma futurum in
discussione nel nostro capitolo.
T. Tirone
2
, schiavo affrancato da Cicerone, ebbe la
possibilità di copiare, se non addirittura di “stenografare” sotto
dettatura, opere ciceroniane. Gellio osserva che molti
correggono (par. 3) futurum in futuram per non attribuire a
Cicerone un solecismo.
Un amico di Gellio (par. 4 - 8), di cui il nostro autore
inspiegabilmente non riferisce l’identità, presente alla
discussione chiarisce il problema e dichiara l’assenza di errore
o corruzione nel manoscritto tironiano: “Is libro inspecto ait
2
Nel profilo di T. Tirone tracciato da Gellio c’è, generalmente, approvazione per questo
“primo editore” di Cicerone. In VI, 3, 9 Gellio non tollera la critica mossa da Tirone
contro l’orazione Pro Rodiensibus di Cicerone e definisce presuntuoso l’atteggiamento
di Tirone: “Sed profecto plus ausus est , quam ut tolerari ignoscique possit”.
In XIII, 9, 1 Tirone è definito “aiutante” di Cicerone nell’attività letteraria: “Tullius Tiro
M. Ciceronis alumnus et libertus adiutorque in litteris studiorum eius fuit”. In XV, 6, 2
Gellio non si stupisce tanto di un errore di Cicerone , quanto della mancata correzione
di T. Tirone: “libertus eius, diligentissimo et librorum patroni studiosissimo”.
COMMENTI
17
nullum esse in eo verbo neque mendum neque vitium et
Ciceronem probe ac vetuste locutum”. Egli sostiene che
futurum non va concordato con rem perché è un verbo
indeterminato, dai greci classificato come !aparevmfaton
simile agli infiniti futuri greci: !erei'n, poihvsein, #esesqai.
Gellio elenca casi analoghi a questo in Gaio Gracco (cf.
fr. 34 Malcovati) “Credo inimicos meos hoc dicturum”, Q.
Claudio Quadrigario (cf. fr. 43, 79 Peter) “hostium copias ibi
occupatas futurum” e “deos bonis bene facturum”, Plauto,
Casina 693 “altero te occisurum” e Laberio (cf. fr. 51
Ribbeck) “non putavi, inquit hoc eam facturum”.
Le edizioni critiche di Gellio accolgono futurum e ci
presentano un quadro complesso della tradizione manoscritta.
C. Hosius e R. Marache segnalano futuram in apparato come
lezione dello stesso Cicerone; R. Marache, inoltre, accredita la
lezione futurum a una parte considerevole della tradizione
manoscritta di Gellio. P. K. Marshall, invece, trascura
completamente il problema.