4
INTRODUZIONE:
Lo scopo di questo lavoro è quello di indagare l’attorialità e il divismo di Pierfrancesco
Favino. Prendendo lui come oggetto di studio, approfondiremo inoltre il contesto attoriale
dell’Italia attuale. A tal riguardo vedremo come la sua recitazione punti alla trasmissione
delle emozioni tramite un accurato studio dei suoi personaggi, seguendo i criteri di
osservazione di Claudio Vicentini e le indicazioni di analisi di Cristina Jandelli. Faremo,
dunque, un’analisi di diversi film in cui compare Favino, facendo una lettura e
un’interpretazione del divismo e della recitazione della sua figura all’interno dei film.
Tenteremo, dunque, un’analisi non solo del suo lavoro con il corpo e con la voce, ma anche
come, tramite i ruoli da lui interpretati, traghetti dei contenuti sociali. Sempre tramite
l’analisi della figura di Favino, indagheremo anche il contesto divistico dell’Italia attuale.
Ne analizzeremo quindi l’immagine extra-cinematografica tenendo conto della sempre
maggiore convergenza tra cinema e televisione e del fenomeno italiano dell’antidivismo.
Indagheremo quindi l’immagine di Favino che traspare da programmi televisivi nel ruolo di
ospite, da Sanremo nel ruolo di co-conduttore del Festival, dagli spot pubblicitari, nonché da
interviste o dichiarazioni riportate da testate giornalistiche. Faremo inoltre un tentativo di
ricognizione degli spettatori approntando un’ipotesi di questionario e analizzandone le
risposte.
Per fare tale studio ci siamo inizialmente posti delle domande di tipo metodologico
sull’analisi della recitazione attoriale nonché sulle varie sfaccettature e forme che può
assumere il fenomeno del divismo. Domande alle quali abbiamo tentato di rispondere
prendendo come punto di riferimento gli studi tradizionali sia sul lavoro attoriale che su
quello divistico. Per quanto riguarda il primo, come abbiamo detto in precedenza, ci siamo
ispirati al lavoro di Cristina Jandelli, nonché allo studio dell’osservazione della recitazione
di Claudio Vicentini. Abbiamo però tenuto conto anche delle opere di Catherine O’Rawe e
Jacqueline Reich, opere però più legate al divismo degli attori italiani maschili. A tal
proposito abbiamo analizzato il divismo di Favino basandoci anche sulle categorie di analisi
di Dyer, quali “fenomeno sociale”, “immagine” e “segno”. Tenendo presente, inoltre,
5
esempi tradizionalmente trattati dagli angloamericani, abbiamo utilizzato esempi italiani
esterni a Favino, guardando ai nostri attori dagli anni ’60 in poi in modo da comprendere
maggiormente il nostro contesto attoriale e divistico moderno.
Per questo motivo prima di iniziare l’analisi della sua figura mediatica ci è parso
opportuno redigere due capitoli di interesse introduttivo, il quale obiettivo è quello di
tracciare un quadro generale di riferimento.
Il primo capitolo parlerà del motivo per il quale gli studi sulla recitazione attoriale
siano tardati a svilupparsi e di come, invece, risultino essere importanti. Si terrà presente,
infatti, che gli attori cinematografici da parte loro hanno studiato recitazione sin dall’epoca
degli studios. E da questo breve excursus sui loro studi si passerà alla presentazione del
metodo di Stanislasvkij. Il primo capitolo si concluderà con un’argomentazione sul
fenomeno del divismo trattato dai suoi principali studiosi. Fenomeno che tradizionalmente
si occupa dei divi americani, ma che noi cercheremo di riattualizzare al contesto del nostro
Paese facendo principalmente esempi di star italiane.
Il secondo capitolo parlerà invece del contesto europeo del Novecento,
concentrandosi maggiormente sull’Italia. Questa seconda parte del lavoro inizierà parlando
dei principali cambiamenti del teatro europeo durante il corso del Novecento, per poi
stringere il campo al nostro teatro italiano dell’epoca e alle sue trasformazioni. Da qui si
passerà alla spiegazione del metodo imitativo, uno stile di recitazione maggiormente
radicato nel nostro Paese rispetto a quello di Stanislasvkij, grazie anche alla lezione di
Orazio Costa. Stili recitativi che, però, ormai spesso si condizionano a vicenda. Si
proseguirà poi con una panoramica sulla cinematografia italiana odierna, valutando i generi
e le principali tendenze del nostro Paese. Infine, il capitolo si concluderà con un’analisi del
fenomeno del divismo prettamente in ambito italiano, indagandone gli aspetti sia
cinematografici che televisivi.
Il terzo capitolo, invece, si basa sull’analisi dell’attore Pierfrancesco Favino.
Soffermandoci inizialmente sulla sua formazione, in particolare sui suoi maestri Orazio
Costa e Luca Ronconi, continueremo con l’analisi della sua recitazione. Dopo un breve
6
riepilogo della sua carriera cinematografica e televisiva, ci soffermeremo su alcuni suoi
film, suddivisi per generi. Lo scopo di questa prima parte di analisi sarà capire come l’attore
usi le sue competenze attoriali e la sua fisicità per modellare il suo corpo e la sua personalità
sui vari personaggi da lui interpretati. Per ciascuno di essi si è cercato di fare un’analisi
culturale della sua recitazione: di capire come i personaggi incarnati da Favino traghettino
dei contenuti sociali, fino a trovare un fattore comune che leghi la maggior parte delle sue
interpretazioni.
Il quarto capitolo proseguirà poi con l’analisi della sua figura extra-cinematografica,
analizzando in ordine cronologico le apparizioni televisive di Favino in quanto ospite,
seguendone la crescita di visibilità per concludere con il suo ruolo inedito di conduttore del
Festival di Sanremo. Un paragrafo sarà riservato anche agli spot in cui lo vediamo nel ruolo
di testimonial, per proseguire poi con un’analisi di interviste e dichiarazioni riportate da
testate giornalistiche. Quest’ultimi, che siano interviste o meno, tratterranno della sua figura
di conduttore sul palco dell’Ariston, di produttore cinematografico e di attore teatrale, per
concludere con un accenno alla sua vita privata. L’analisi della sua figura mediatica si
conclude con uno sguardo alla sua attività sul web e sui social network, sino a un sondaggio
creato appositamente per questa ricerca che ci aiuterà a confermare l’analisi fatta all’interno
di questo lavoro. Una volta aver analizzato ed esposto tutti questi dati sulla sua figura
mediatica, il capitolo formula infine un’ipotesi sul divismo di Favino seguendo i particolari
criteri del divismo italiano e del divismo televisivo.
7
CAPITOLO 1:
RECITAZIONE E DIVISMO
1.1. L’importanza della recitazione:
Lo studio degli attori e della loro recitazione è stato per lungo tempo trascurato in ambito
cinematografico e televisivo. Tutt’oggi, possiamo affermare che non esista una storia della
recitazione per quel che concerne l’ambito cinematografico. Questo perché l’attore
all’interno di un film è una presenza che non si comprende appieno. Il suo lavoro risulta
inafferrabile e crea delle difficoltà sia per chi lavora assieme a lui, sia per gli studiosi di
cinema. Senza andare troppo lontano, anche solo gli appassionati di cinema, o persino gli
spettatori casuali possono giudicare un’interpretazione come buona o mediocre, ma non ne
sanno spiegare il motivo. È un qualcosa che, semplicemente, si intuisce
1
.
Inoltre, in che modo si potrebbe studiare la recitazione? Il lavoro di un attore è quello
di compiere delle azioni, pronunciare delle battute che fanno parte dell’intreccio narrato.
Interpreta un personaggio che è parte integrante della storia. Dunque, studiare la sua
interpretazione vuol dire capire come l’attore svolge le azioni del personaggio e in che
modo gli dà voce
2
.
La recitazione cinematografica è, banalmente, figlia della recitazione teatrale. E a
teatro è più facile analizzare il lavoro di un attore perché sul palco è presente solo lui. La
responsabilità della riuscita di uno spettacolo è completamente a suo carico. Al cinema
diventa tutto più complicato. Il pubblico sparisce e al suo posto compare la macchina da
presa. L’attore non è più sul palco, ma all’interno di una scenografia decisa dal regista. Le
dimensioni del suo corpo vengono decise dal tipo di inquadratura che si è deciso di
utilizzare, e le sue azioni possono subire delle modifiche, e perfino non esistere più, durante
la fase di montaggio. L’attore passa da essere il padrone del palcoscenico a essere uno dei
tanti “strumenti” che contribuiscono alla creazione del film. Il fatto che il suo lavoro
potesse, quindi, essere mediato dalle tecnologie e potesse essere modificato da esigenze
1
Mariapaola Pierini, “Per una cultura d’attore. Note sulla recitazione nel cinema italiano”, Pedro Armocida, Andrea
Minuz (a cura di), L’attore nel cinema italiano contemporaneo. Storia, performance, immagine, Venezia, Marsilio
Editori, 2017, p. 21.
2
Richard Dyer, Star, Kaplan, 2009, p. 163.
8
tecnico-stilistiche del regista ha contribuito a non far degli attori un oggetto di studio per un
arco di tempo piuttosto lungo, a partire dagli anni ’20, periodo in cui iniziano ad apparire
studi teorici riguardanti il cinema. Le cose inizieranno a cambiare, piuttosto recentemente,
alla fine degli anni ’80
3
.
Walter Benjamin
4
, filosofo e critico letterario con una particolare predilezione per il
cinema, pubblica nel 1936 un saggio sulla recitazione cinematografica. Basandosi sulle idee
di Pirandello e di Rudolf Arnheim, afferma che gli attori all’interno di un film dovrebbero
essere considerati alla stregua di un tavolo e di una sedia: oggetti di scena inanimati e senza
alcuna volontà. Infatti, a differenza degli attori teatrali, i loro colleghi del grande schermo
non interpretano un personaggio ma si limitano a rappresentare sé stessi mentre la macchina
da presa li riprende
5
. Gli stessi attori spesso asseriscono che sia meglio esibirsi a teatro,
poiché si è più liberi di esprimersi come meglio si crede e che al cinema l’attore “deve
sapere diventare un oggetto, un oggetto vivente (…) Bisogna lasciar fare alla macchina, ed è
una tecnica difficile e misteriosa”, affermava ad esempio Gassman
6
, tornando all’equazione
attore-oggetto.
Queste considerazioni dimostrano come si sia sottovalutato ciò che il lavoro
dell’attore apporta alla riuscita di un film. Considerazioni che, sicuramente, hanno un
qualche fondamento e che restano impresse nel pensiero anche di alcuni studiosi moderni
come Bert O. States, professore di arti drammatiche all’università di California Santa
Barbara e recentemente scomparso. Quest’ultimo affermava che gli attori cinematografici
lavorano con una sorta di “rete di salvataggio”, appunto la nuova tecnologia, che li
“proteggeva” qualora la loro recitazione non fosse stata all’altezza. Ancora oggi, quindi, il
pensiero generale è che gli attori cinematografici non sappiano propriamente recitare ma
siano piuttosto scelti per le loro caratteristiche estetiche, non per il loro talento
7
: al cinema è
sufficiente essere di bell’aspetto. Tuttavia, non è del tutto vero che l’attore cinematografico
resti inerme davanti all’obiettivo della macchina da presa, o che si faccia manovrare
completamente dal regista. Anche l’attore del grande schermo ha bisogno di studiare le
tecniche di recitazione, di affinare il suo talento in modo da risultare credibile agli occhi
degli spettatori. Per questo vale la pena studiarne la recitazione.
3
M. Pierini, P. Armocida, A. Minuz (a cura di), op. cit. pp.21, 22.
4
Cynthia Baron, Sharon Marie Carnicke, Reframing Screen Performance, University of Michigan press, 2008, p. 12.
5
Ivi.
6
M. Pierini, P. Armocida, A. Minuz (a cura di), op. cit. p. 22.
9
Questi pregiudizi cominciano ad affievolirsi, sebbene come abbiamo visto non siano
ancora scomparsi, quando, nel 1988, James Naremore pubblica Acting in the cinema.
All’interno di quest’opera l’autore analizza la recitazione di diversi attori in epoche
differenti, tra cui Marlene Dietrich nel film Marocco, James Cagne in Gli angeli con la
faccia sporca, Katharine Hepburn in Incantesimo e ancora Marlon Brando in Fronte del
porto. Tramite il suo lavoro Naremore dimostra che anche la recitazione cinematografica
può essere complessa, e dimostra come gli attori usino numerose tecniche espressive molto
efficaci, sfatando il mito che fossero scelti solamente per il loro aspetto fisico
8
. Un’analisi
della recitazione cinematografica è quindi possibile. Ma dobbiamo prima darle la giusta
importanza, senza metterla sempre in secondo piano rispetto al regista, alla macchina da
presa o al montaggio. Proviamo a sfatare questi pregiudizi, affrontandoli uno ad uno.
1.1.1. L’attore e il regista:
Il film è solitamente considerato come un’opera del regista. È il regista, infatti, colui che
decide e coordina tutto il lavoro della troupe. L’attore stesso lo considera come il principale
riscontro del suo lavoro. La relazione regista-attore è dunque fondamentale nella creazione
di un film, tanto che gli attori spesso risultano più o meno soddisfatti del loro lavoro in base
al rapporto che si sviluppa con il regista
9
.
Questa figura può effettivamente far diventare l’attore come una marionetta nelle sue
mani, farlo muovere e parlare come vuole. Ma non è la norma. Dipende infatti dal suo modo
di lavorare, dal rapporto che ha con l’attore, dalle sue esigenze artistiche. Prendiamo due
esempi che sono l’uno l’opposto dell’altro.
Michelangelo Antonioni utilizzava una “estetica della negazione”. Lui limitava
severamente i gesti, le espressioni dei suoi attori, persino i dialoghi, poiché non voleva far
capire così facilmente al pubblico ciò che il personaggio provava dentro di sé. In questo
modo gli attori diventavano per lui quasi degli elementi grafici
10
, tanto che nei suoi film
vediamo gli attori quasi nascosti dagli oggetti o dagli arredi. Tenendo sempre a mente la
corrente artistica nella quale si inserisce Antonioni, si può notare come nei suoi film il
regista voglia raggiungere la massima naturalezza lavorando sul togliere invece che
7
C. Baron, S. M. Carnicke, op. cit. pp. 11, 12.
8
Ibidem, op. cit. p. 12.
9
Sharon Marie Carnicke “Screen performance and director’s visions”, Cynthia Baron, Diane Carson, Frank Tomasulo
(a cura di), More than a method, Wayne State University Press, 2004, p. 42.
10
sull’ostentare. Porta in scena personaggi complessi, simbolo dell’uomo moderno, ma
sempre rappresentati per sottrazione, esigendo dagli attori una recitazione interiorizzata e
minimalista
11
.
Per Antonioni, infatti, il regista è colui che dirige tutti gli elementi coinvolti nella
creazione di un film e l’attore, invece, non è che uno di questi elementi e, qualche volta,
neanche il più importante. Questa sua concezione del ruolo di regista ha portato molti attori
a non sentirsi a proprio agio lavorando con lui, poiché si sentivano esclusi dal suo lavoro.
Come Antonioni stesso afferma, lui guarda agli attori così come guarda a un albero, un
muro o una nuvola: come solo una parte di una più grande composizione. Tant’è vero che il
regista non deve nessuna spiegazione agli attori se non quella generale riguardante il
personaggio che stanno interpretando e la storia
12
: “È pericoloso entrare nei dettagli”
13
.
Da Antonioni, poi, non si può non pensare alla particolare concezione dell’attore
all’interno del Neorealismo. Quest’ultimo sembrerebbe, infatti, avvalorare ancora di più la
tesi che non sia veramente necessario che un attore sappia recitare e abbia studiato
recitazione all’interno del film. Tuttavia, il Neorealismo si basava sull’aderenza alla realtà,
il cui obiettivo era quindi quello di creare meno “finzione” possibile per ottenere un
prodotto verosimile. Non a caso, aveva una base di tipo documentaristico. Per cui, la
tendenza a utilizzare persone non professioniste era nata spontanea. Tuttavia, persino il
Neorealismo ha utilizzato attori professionisti. Si pensi ad esempio ad Anna Magnani e
Aldo Fabrizi in Roma città aperta. D’altronde, come notava André Bazin già nel 1948,
l’attore non professionista può essere utilizzato solo una volta all’interno di un film. Difatti,
dopo la sua prima apparizione, avrà già alle spalle l’esperienza di lavorare all’interno di un
set e quell’inesperienza, per il quale era stato scelto, non esisterà più
14
.
Ad ogni modo, come già sottolineato in precedenza, la visione di Antonioni non è la
regola e la maniera in cui dirigere i propri attori è quindi a evidente discrezione del regista.
Vi sono infatti anche coloro che lasciano molta più libertà nell’interpretazione. Prendiamo
come secondo esempio Robert Altman. Quest’ultimo fa parte di quei registi che lasciano
10
C. Baron, S. M. Carnicke, op. cit. p. 38, mia traduzione.
11
Federico Vitella, “Michelangelo Antonioni drammaturgo” “Scandali segreti”, Bianco e nero, n. 563, gennaio-aprile
2009, pp. 89-90.
12
Frank P. Tomasulo, “Modernist acting in Antonioni’s Blow-Up”, C. Baron, D. Carson, F. Tomasulo (a cura di), op.
cit. pp. 96-98.
13
Ivi.
14
Leonardo De Franceschi, L’Africa in Italia. Per una controstoria postcoloniale del cinema italiano, Roma, Aracne
editrice, 2013, p. 194.
11
lavorare gli attori “da soli”, gli danno estrema libertà in quanto li vedono come
professionisti esperti che possiedono un talento e una conoscenza specializzata nell’arte
della recitazione. Per questo Altman vuole che l’attore lo sorprenda, che apporti qualcosa di
nuovo al film, alla quale lui non aveva mai pensato: “se la visione fosse solo mia, solo una
singola visione, non sarebbe niente di buono”
15
. Infatti, lui descrive le scene dei suoi film
come il risultato finale dell’immagine che lui aveva in mente, ma modellata sull’attore che
la recita.
In maniera simile si svolge anche la costruzione dei personaggi, che si formano in
base all’approccio dell’attore e alle idee del regista. Proprio nello sviluppare i personaggi,
Altman raccomanda agli attori di utilizzare la loro creatività personale, lasciandoli
addirittura modificare i loro dialoghi
16
. La professionalità di Altman è conosciuta anche
grazie alla libertà che dà agli attori nello sviluppare i loro ruoli. Non a caso lo stesso regista
ha la tendenza a lavorare più di una volta con gli stessi attori, poiché li apprezza non solo in
quanto professionisti del mestiere, ma anche come personalità
17
. Insomma, il modo in cui i
registi dirigono i loro attori può veramente condizionare la loro recitazione, così come può
non influire più di tanto.
1.1.2. L’attore e il montaggio:
Ad ogni modo, non è solo il regista ad avere il potere di limitare la volontà dell’attore.
Infatti, tutte le inquadrature e le parti recitate trovano unità solamente durante il lavoro del
montaggio. Ed è proprio quest’ultimo ad avere il potere di trasformare completamente la
recitazione degli attori. Infatti, durante la fase di post-produzione, non solo solitamente
l’attore non ha potere decisionale, ma non è neanche presente in sala di montaggio. E se
pensiamo al fatto che i programmi di montaggio possano invertire un movimento, facendolo
iniziare dalla fine, si può avere un’idea di quanto la recitazione possa essere manipolata.
Tuttavia, ancor prima dei moderni programmi di post-produzione, vi era già l’idea che la
macchina da presa e il montaggio recitassero al posto degli attori.
Questa convinzione comincia a prendere forma dagli esperimenti di Kuleshov, uno
dei primi grandi teorici del montaggio. I suoi “esercizi” sono generalmente considerati come
una dimostrazione di quanto il lavoro degli attori, all’interno dei film, sia praticamente
15
Ibidem, p. 44, mia traduzione.
16
Ivi.
12
superfluo. In particolare, sono tre gli esperimenti discussi dagli studiosi di cinema. In uno di
questi studi, Kuleshov “sintetizza” il corpo di una donna tramite diverse inquadrature di più
parti del suo corpo (occhi, labbra, e piedi) riprendendo in realtà diverse donne per ciascuna
inquadratura. In questo modo crea la rappresentazione di quella che sembra essere una sola
donna seduta di fronte a uno specchio mentre si trucca il viso e si allaccia le scarpe, mentre
è “composta” da più persone. Questo lavoro potrebbe apparire come la prova evidente che
sia il montaggio a creare la vera performance, non l’attore.
Il secondo esperimento, forse quello più famoso, consiste nell’accostare
all’espressione più neutrale possibile dell’attore Mozhukhin le inquadrature di una ciottola
fumante, una donna in una bara e un bambino che gioca con un orsacchiotto. Questo
esperimento dimostra che quando un’immagine è vista da sola appare come una “fotografia”
della realtà, ma non appena la si associa a un’altra, acquisisce automaticamente un’altra
accezione. L’idea che lo spettatore, guidato dal montaggio, attribuisca delle determinate
emozioni a un’espressione che in realtà è neutra, è nota oggi come “effetto kuleshov”
18
.
Tuttavia, Kuleshov non voleva dimostrare con i suoi esperimenti che la recitazione
dell’attore fosse irrilevante.
Un suo terzo lavoro ci potrebbe aiutare a comprendere meglio questa incomprensione
confermando l’importanza del contributo degli attori. Questo nasce dall’idea di Vitold
Polonsky, un attore russo di inizio ‘900, il quale affermava che ci fosse una grande
differenza tra l’espressione gioiosa di colui che rappresenta un uomo incarcerato mentre
guarda la porta della sua cella aprirsi e concedergli la libertà, e colui che rappresenta un
uomo affamato con davanti una zuppa fumante. Kuleshov, allora, filma le due espressioni
differenti di Polonsky e scambia i due primi piani del suo volto da una scena all’altra. Con il
montaggio, ancora una volta, la differenza nel volto dell’attore sembra diventare
impercettibile. Tuttavia, l’autore di tale esperimento giunge a delle differenti considerazioni.
Prima di tutto afferma che, nonostante non si noti all’interno delle sequenze, il volto è
effettivamente diverso. In secondo luogo, Kuleshov sostiene che questa interscambiabilità
sia possibile grazie alle capacità di un attore esperto come Polonsky, che ha creato delle
espressioni adatte per entrambe le scene. Se invece avesse preso un attore con meno
esperienza questo non sarebbe stato possibile, perché la differenza sarebbe stata troppo
17
Ibidem, p.133.
18
Cristina Jandelli, I protagonisti. La recitazione nel film contemporaneo, Marsilio Editori, Venezia, 2013, p.76.
13
grande da non essere interscambiabile. In conclusione, “non è sempre possibile alterare il
lavoro semantico dell’attore”
19
.
Ciò vuol dire che il cinema non dipende esclusivamente dal montaggio, ma che il
significato delle inquadrature risiede effettivamente nel lavoro attoriale
20
. Perfino Ejzenstejn
che, a differenza di Kuleshov non prediligeva un tipo di montaggio narrativo, ma anzi
teorizzava il “montaggio delle attrazioni”, non ha mai dichiarato che l’attore fosse inutile.
Sebbene all’interno della sua teoria, che non verrà approfondita in questa sede, gli attori
possano apparire ancora più superflui, il regista non ha mai suggerito che sia il montaggio a
sostituire il loro lavoro.
Vi sono invece dei legami tra le scelte attoriali e quelle filmiche poiché i movimenti,
i gesti, persino il tono di voce e le espressioni facciali, hanno una “forza dinamica che può e
dovrebbe interagire con gli altri aspetti del montaggio”
21
. È il montaggio, quindi, che unisce
tutti gli elementi cinematografici
22
, i quali a loro volta interagiscono tra di loro: sono tutti
questi componenti a creare un film. E la recitazione risulta essere una componente
fondamentale.
Le inquadrature, la scenografia, i suoni e la musica possono sia far risaltare che
mettere in ombra la performance degli attori in base alla scelta del regista. Abbiamo visto
come l’estetica di Antonioni prediliga i “nonperformance elements”
23
. Ma vi sono altri
registi che invece organizzano gli altri componenti filmici in modo da amplificare ciò che i
personaggi pensano e provano. La disposizione degli oggetti scenografici può dare libertà di
movimento all’attore, o ancora può soffocarlo, simboleggiare ciò che prova o esserne in
contrasto. E ancora la colonna sonora. Una musica può sottolineare ed enfatizzare il
sentimento dei personaggi, può accompagnare l’inizio di un movimento o anticiparlo.
1.1.3. L’attore e la macchina da presa:
Ma ciò che forse più condiziona la recitazione è lo strumento intrinseco del cinema: la
macchina da presa, “una sorta di occhio attento, insinuante, implacabile che scruta l’attore,
lo segue, lo indaga, lo fruga con una precisione e un’esattezza inammissibili a ogni occhio
19
C. Baron, S. M. Carnicke, op. cit. p. 36, mia traduzione.
20
Ibidem, pp. 33-36.
21
Ibidem, p. 114, mia traduzione.
22
Ibidem, pp. 113,114.
23
Ibidem, p. 38.
14
umano”
24
. Un’inquadratura, ad esempio, può dare risalto alla performance quando lascia
sufficiente spazio attorno all’attore, in modo da permettere agli spettatori di percepire quale
sia lo stato fisico ed emotivo del personaggio. Se poi è un’inquadratura che dura abbastanza,
o che ritorna più volte (come all’interno del campo contro campo durante un dialogo), dà al
pubblico anche il tempo di capire meglio lo stato d’animo del personaggio
25
. Questo
ovviamente non è che un esempio. Anche il piano sequenza vuole dare risalto alla figura
dell’attore. Non a caso, infatti, è un tipo inquadratura tipico dei musical classici, che si
usava per non spezzare la performance di danza. Quando ciò accade, gli attori “oscurano” la
macchina da presa e il montaggio, che sono per l’appunto ridotti al minimo.
Ma c’è un’inquadratura precisa che è particolarmente cara agli attori. Marlon Brando
scrive nella sua biografia che nei campi lunghi ciò che conta è l’azione, nei campi medi
invece bisogna prestare attenzione al linguaggio del corpo e ai gesti che si compiono. Ma il
primo piano è l’inquadratura più importante: è qui che l’attore deve usare tutto il suo talento
poiché spetta a lui, e a lui soltanto, dargli un senso attraverso la sua espressione e la sua
forza psicofisica. “In quel momento la tua interpretazione arriverà al pubblico grazie al
pensiero, perché se pensi nel modo giusto la gente se ne accorgerà, ma se pensi nel modo
sbagliato, se sei troppo occupato a recitare, sei finito”
26
. Il primo piano è il momento
dell’attore: qui può riuscire a comunicare le emozioni e i pensieri più profondi e nascosti del
personaggio direttamente al pubblico. Béla Balàzs, durante gli anni ’20, scrive riguardo
all’evolversi dell’espressione facciale di Asta Nielsen durante un primo piano: “Per diversi
minuti assistiamo all’organica storia dello sviluppo dei suoi sentimenti e nient’altro. Si, è
una storia quella cui assistiamo. È questa la particolare lirica del cinema, che in realtà è
un’epica delle sensazioni”
27
.
Quando noi vediamo un volto in primo piano, è come se riconoscessimo in quella
persona le nostre emozioni, tant’è che spontaneamente, e senza nemmeno rendercene conto,
tendiamo ad assumere la sua stessa mimica facciale
28
. È uno degli effetti dei neuroni
specchio. Grazie a loro, ogni azione che si osserva, quindi anche quella recitata al cinema,
innesca nel cervello dei circuiti neurali che si attiverebbero come se fossimo noi stessi a
24
Claudio Vicentini, L’arte di guardare gli attori. Manuale pratico per lo spettatore di teatro, cinema, televisione,
Marsilio editori, 2007, p. 237.
25
C. Baron, S. M. Carnicke, op. cit. p. 40.
26
C. Jandelli, op. cit. p.37.
27
Ibidem, p. 36.
28
Ibidem, p. 37.