Attacchi di panico e Mindfulness
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Approccio comportamentale: il condizionamento
Nella teoria comportamentista se uno stimolo neutro si associa, del tutto
occasionalmente, all ‟attacco d ‟ansia si produrrà un condizionamento in grado di indurre
successivamente l ‟attacco di panico con la sola presenza dello stimolo neutro. A volte
questi stimoli possono consistere nella percezione di marginali sintomi somatici (ad
esempio tachicardia), a volte sono rappresentati dai luoghi e le situazioni in cui il
soggetto sperimenta gli attacchi. Evitando le situazioni in cui l'attacco di panico
potrebbe manifestarsi, il soggetto riduce le probabilità di sperimentare un ulteriore
attacco e, in questo modo, rinforza la condotta di evitamento.
Dunque, gli stimoli che, inizialmente neutri, possono subire il processo di
condizionamento, sono essenzialmente di due tipologie: i contesti (luoghi e situazioni)
in cui si sono verificati gli attacchi di panico e le sensazioni enterocettive o gli specifici
contenuti di pensiero che vengono associati all'attacco di panico.
Approccio cognitivo: il modello di Clark
Gli approcci cognitivi generalmente concordano nel ritenere l'interpretazione errata, o
catastrofica, il meccanismo fondamentale della ripetizione degli attacchi di panico.
Infatti, il paziente che soffre di Disturbo di panico tenderebbe ad interpretare in modo
distorto le sensazioni insolite provenienti dal proprio corpo, assumendo verso di queste
un comportamento di ipervigilanza. Tendenzialmente, il paziente avverte per prima cosa
i correlati somatici dell'attacco di panico (sintomatologia cardiocircolatoria, respiratoria,
gastrointestinale, ecc.) e l'allarme che ne deriva innesca secondariamente l'attivazione
dei correlati psichici.
In altri termini, gli attacchi di panico avvengono quando gli individui percepiscono
alcune sensazioni corporee come molto pericolose, vengono cioè interpretati come
segnali di un ‟imminente ed improvvisa catastrofe. Spesso avviene che il soggetto abbia
un attacco di panico quando interpreta la confusione mentale come un segnale di
impazzimento imminente, o la tachicardia come segnale di infarto imminente. Queste
sensazioni catastrofiche possono riguardare non solo sensazioni di paura, ma anche
quelle di rabbia, o stimoli d ‟altra natura, come l ‟ipoglicemia o rilassamento.
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In quest'ottica, le sensazioni corporee, provocando l'attivazione degli schemi cognitivi
catastrofizzanti deputati all'analisi delle stesse, finiscono per essere interpretate come
segni imminenti di attacchi di panico. L ‟aumento delle preoccupazioni andrà ad acuire
le sensazioni somatiche, innescando il circolo vizioso che porterà poi all ‟esplosione vera
e propria di un attacco di panico. I comportamenti miranti ad evitare il ripetersi
dell'attacco provocano, a loro volta, un ciclo di mantenimento del disturbo, poiché il
soggetto tende attribuire ad essi il potere di impedire la realizzazione dell'evento temuto,
confermando in tal modo le proprie credenze erronee. Questo modello cognitivo
d‟interpretazione del DP, noto come “il modello del circolo vizioso del panico ”, è stato
elaborato da Clark (1986) e spiega in modo chiaro e semplice tale meccanismo appena
descritto (Fig. 1):
FIG. 1
I circoli viziosi non sono specifici solo del panico, ma caratterizzano anche i disturbi
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d‟ansia, sebbene gli elementi del circolo stesso differiscono a seconda del disturbo.
I limiti di tale modello si riscontrano nel non discriminare le specifiche valutazioni
catastrofiche che caratterizzano l ‟esperienza del panico nell ‟agorafobia rispetto alla
fobia sociale. Infatti, secondo il modello di Clark, l ‟agorafobia viene considerata come
una sottoclasse di evitamenti del DP, ma esistono invece elementi che evidenziano
l ‟agorafobia come un quadro clinico unitario e specifico.
Successivamente all ‟attacco, intervengono almeno tre fattori di mantenimento di tale
situazione: l ‟attenzione selettiva riguardo le sensazioni corporee, i comportamenti di
tipo protettivo associati alla situazione e l ‟evitamento. L ‟attenzione selettiva ai
fenomeni del proprio corpo contribuisce all ‟abbassamento della soglia di percezione
delle sensazioni e contemporaneamente a provocare un aumento dell ‟intensità percepita,
predisponendo maggiormente il soggetto all ‟attivazione del circolo vizioso
dell ‟interpretazione catastrofica. I comportamenti protettivi sviluppati dai soggetti
hanno lo scopo di evitare la minaccia temuta: essi hanno il notevole svantaggio di
impedire la disconferma delle proprie convinzioni, con una probabile intensificazione
dei sintomi somatici. I fattori protettivi contribuiscono, inoltre, a mantenere l ‟attacco di
panico in due modi: innanzitutto impediscono una disconferma delle interpretazioni
erronee, inducendo il paziente a sopravvalutarle facendogli credere che, così facendo,
possa evitare le conseguenze temute, rispetto alla possibilità che l ‟ansia non sia in grado
di causare conseguenze fisiche drammatiche. In secondo luogo, alcuni comportamenti
protettivi sono in grado di peggiorare i sintomi somatici e, quindi, facilitare l ‟avverarsi
della situazione temuta. L ‟evitamento è un importante fattore di mantenimento
dell ‟attacco di panico, soprattutto perché non dà modo al soggetto di sperimentare che
l ‟ansia non porta alla catastrofe.
Il modello cognitivo-fisiologico di Rapee
Rapee (1987), dichiarandosi in accordo con altri autori, ha concettualizzato un modello
per descrivere l'eziologia dell'attacco di panico non situazionale, ovvero non provocato.
In tale modello si assume la correlazione tra vari fattori (Fig. 2).
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FIG. 2
L' attacco di panico comporta in primo luogo un episodio acuto di iperventilazione, che
rientra in un gruppo di sensazioni somatiche, tra cui anche visione offuscata, parestesie,
vertigini e palpitazioni. L'individuo incline a sperimentare attacchi di panico,
successivamente interpreta queste sensazioni come indici di un serio pericolo fisico (ad
esempio un attacco di cuore o morte) e, in conseguenza di ciò, sviluppa una ulteriore
sensazione di panico. Questa, a sua volta, provoca un aumento della respirazione,
innescando la ripetizione del ciclo.
Se poi le esperienze di attacchi di panico aumentano, è probabile che si stabilisca una
diretta associazione tra le sensazioni somatiche e l'emozione del panico tale che
l'interpretazione erronea “conscia ” non sia più necessaria a mantenere attivo il ciclo.
Inoltre, regolari e frequenti esperienze di attacchi di panico possono tradursi in un
aumento di ansia secondaria, ossia la paura di sperimentare ulteriori attacchi che,
spesso, produrrà uno stato di iperventilazione cronica; questa, a sua volta, accrescerà la
vulnerabilità ad episodi acuti di iperventilazione. Infine, l'aumento di ansia secondaria
comporterà tendenzialmente anche un aumento di vigilanza verso alcune insolite
sensazioni fisiologiche al punto che molte sensazioni naturali, che normalmente
vengono ignorate, saranno invece notate e provocheranno una risposta di paura (Fig. 2).
In accordo al suo modello, l'autore sostiene che l'apprendimento di specifiche tecniche
di controllo della respirazione produce benefici effetti nel trattamento degli attacchi di
panico.
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Le teorie cognitivo-comportamentali, modello di Rapee a parte, seppur valide, non
forniscono una risposta agli attacchi di panico “a ciel sereno ”, nei quali manca una
causa scatenante evidente. Un tentativo di conciliare ipotesi psicoanalitiche e cognitive
è stato condotto da Bowlby: anch ‟egli, con la sua teoria dell ‟attaccamento, sottolinea la
centralità del ruolo materno nel processo di regolazione affettiva. La vicinanza del
bambino con chi si occupa di lui (caregiver) consente al primo di interiorizzare lo stato
psichico del secondo: nel caso del DP, la patologia del genitore strutturerebbe un
attaccamento di tipo ansioso-ambivalente.
Per quel che riguarda le teorie biologiche dei disturbi d ‟ansia, una prima ipotesi prende
in considerazione il SN autonomo: un aumentato tono simpatico produrrebbe un alterato
adattamento agli stimoli, cosa che si osserva soprattutto nei soggetti affetti da Disturbo
di panico.
Studi neuroradiologici hanno rilevato l ‟esistenza di un ‟asimmetria a carico
dell ‟emisfero destro, ipotizzando che questa possa rappresentare un correlato
neuropatologico di tali disturbi. Altri esami di tipo funzionale (quali EEG, PET e
SPECT) hanno evidenziato anomalie a livello della corteccia frontale, occipitale e, in
particolar modo nel DP, di quella temporale e della regione paraippocampale. Poiché la
paura è fisiologicamente necessaria, non deve sorprendere anche il coinvolgimento di
diversi neurotrasmettitori: noradrenalina (NA), serotonina (5-HT) e acido
gamma-ammino-idrossi-butirrico (GABA). Nei soggetti con DP la somministrazione di
antagonisti 2 adrenergici o di agonisti -adrenergici incrementa la frequenza e la
gravità degli attacchi d ‟ansia; essi presentano anche, nelle urine e nel liquor, un
metabolita della noradrenalina (MHPG). In pazienti con anamnesi di disturbi d ‟ansia,
farmaci con effetti agonisti della serotonina favoriscono l ‟insorgenza di crisi ansiose. Il
sistema GABA è coinvolto in maniera rilevante, come dimostra l ‟azione ansiolitica
delle benzodiazepine (BDZ), che agiscono sul recettore GABAA. Nei pazienti con DP, la
somministrazione di flumazenil, un antagonista delle BDZ, scatena un attacco d ‟ansia di
notevole portata. Considerato che una notevole concentrazione di recettori GABAA si
trova a livello del sistema limbico, esso viene considerato responsabile dei meccanismi
che regolano l ‟ansia. Infatti, alcuni studi hanno evidenziato come il sistema limbico sia
probabilmente connesso ai meccanismi di ansia anticipatoria, mentre la corteccia
prefrontale all ‟evitamento.