VI
essere Creta, drammaticamente colpita dalla distruttiva eruzione del vulcano
di Thera.
In realtà sono davvero innumerevoli le teorie nate per spiegare il mito
platonico e per localizzarne la perduta isola.
Tra le ultime teorie, apparse sui media, vi è ad esempio quella da poco
enunciata della probabile identificazione di Atlantide con il sito archeologico
di un’antica città Greca, posta a 75 km a nordovest di Corinto, identificata
come Helike dallo stesso scopritore, Steven Soter. L’importanza del sito, a
quanto pare, oltre all’associazione con il mito platonico, è anche evidenziata
dal fatto che esso venga citato da alcuni scrittori classici, tra cui Pausania e
Ovidio; la notizia di tale scoperta è stata divulgata su Internet dalla nota
agenzia informativa “BBC - News Online”, (all’indirizzo
http://news.bbc.co.uk/hi/english/world/south_asia/newsid_1216000/1216110.stm),
giovedì 19 ottobre 2000, in un articolo di Tom Housden intitolato
“Archaeologists probe legendary city”.
Questo per dimostrare semplicemente che Atlantide non smette tuttora di
attrarre l’interesse dei ricercatori, nonché la creatività degli scrittori, per cui
quasi in continuazione si scrive e si parla del mito in questione, con sempre
nuove ipotesi, interpretazioni e sfaccettature.
Secondo il suo ordine strutturale, questa Tesi, una volta presentata la storia
del mito nel suo contesto storico, analizza tutte le ipotesi avanzate sulla reale o
meno ubicazione di Atlantide, espone poi i dati scientifici e archeologici
riguardanti il nesso con Creta e Thera, per poi concludere illustrando una
VII
personale teoria che tenti di offrire una plausibile spiegazione alla genesi del
mito stesso.
Nonostante anni di ricerche e congetture, pur con l’impressione di
avvicinarsi sempre più alla verità, sembra comunque che non si riesca mai a
cogliere appieno quel che si cela dietro tale inafferrabile mito, e probabilmente
è proprio questo che ha contribuito per molti a rendere Atlantide stessa
simbolo ideale della “ricerca”, sempre in bilico tra mito e realtà.
ATLANTIDE TRA MITO E ARCHEOLOGIA
INTRODUZIONE AL MITO PLATONICO
Nell’accezione attuale del termine, un mito sta ad indicare un certo tipo di
narrazione di avvenimenti cosmogonici, di imprese di fondazione culturale e
di gesta e origini di dei e di eroi. Con il termine muqoV (“narrazione, discorso”)
il filosofo Platone, in verità, soleva designare cose assai differenti tra loro: sono
“miti” le narrazioni poetiche, che egli considera dannose per l’educazione dei
giovani; sono “miti” le storie sacre degli dei e degli eroi; sono “miti” i racconti
fiabeschi. Il mito platonico, in sostanza, si differenzia da quello tradizionale
almeno per due aspetti: mentre il mito tradizionale è radicato nella memoria
collettiva e appartiene a un patrimonio di conoscenze condiviso da tutta la
comunità, quello platonico è ideato dall’autore stesso; inoltre, il primo è
“neutro”, cioè racconta una vicenda leggendaria, divina o eroica senza voler
necessariamente trasmettere un significato che vada al di là della vicenda
stessa, mentre quello platonico ha il preciso intento di illustrare in modo
simbolico alcuni aspetti della dimostrazione filosofica. In altre parole, il mito
platonico ha valore allegorico, in quanto vuole comunicare un’idea o un
concetto ben circoscritto sotto un travestimento narrativo.
Dal punto di vista letterario, è certamente in questi squarci narrativi che
emergono le qualità di Platone scrittore, capace anche di invenzioni visionarie
e di sapienti descrizioni in cui si coglie l’eredità della tradizione epica e
teatrale greca.
9
Dal punto di vista filosofico, invece, i miti platonici costituiscono una
questione su cui la critica si è a lungo interrogata. Le posizioni divergono
radicalmente: c’è chi ritiene il mito un semplice excursus narrativo, un
elemento esornativo inserito a scopo artistico; altri invece pensano che esso
racchiuda alcuni tra i nuclei filosoficamente più rilevanti del pensiero
platonico, espressi però in forma ambigua e quindi accessibili direttamente
solo alla ristretta cerchia di discepoli.
Resta comunque irrisolta una contraddizione di fondo: da un lato, infatti,
Platone respinge i mezzi tradizionali dell’educazione poetica in quanto capaci
di infervorare l’immaginazione dell’uditorio deprimendo la capacità di
giudizio e il pensiero stesso; dall’altro, egli impiega proprio uno strumento
tipico della poesia per comunicare i contenuti più profondi del suo pensiero.
Una terza ipotesi spiega il ricorso al racconto mitico prendendo in
considerazione il rapporto tra oralità e scrittura, uno dei temi dibattuti
nell’ambito della scuola platonica, e individuando i destinatari dei dialoghi
non nei discepoli più vicini a Platone, ma in un pubblico più vasto. Mentre
infatti gli αγραϕα δογµατα, le ”dottrine non scritte”, contenevano la più
profonda essenza della filosofia platonica (come affermano alcuni), il dialogo
scritto aveva una funzione divulgativa: così il mito serviva non tanto a
sviluppare un tema filosofico, quanto a tradurlo in forma metaforica, capace di
affascinare il pubblico e di fargli accettare le tesi proposte.
In effetti, i miti si collocano in momenti cruciali del dialogo, fungendo da
conclusione o impostando un problema, o anche determinando svolte
importanti nella discussione: mito e dimostrazione dialettica, dunque,
vengono a costituire due aspetti complementari del dialogo platonico. Platone
era ben consapevole della natura ambigua, affascinante del racconto e del
10
potere fortemente suggestivo che esso esercita nella mente umana, e lo
impiega consapevolmente per trasferire nell’immaginario dei lettori una serie
di conclusioni alle quali conduce lo stesso ragionamento dialogico. Così,
mentre da un lato il serrato procedere della discussione organizza in termini
teoretici e astratti il pensiero, dall’altro il mito opera sull’immaginario: vale a
dire su quella parte irrazionale, profonda, pericolosa ma anche potentemente
creativa che Platone ravvisava al centro della mente umana.
Fare tale premessa è solo una prima e propedeutica introduzione all’esame
che seguirà di uno degli argomenti più affascinanti, dibattuti e controversi, già
a partire dalla stessa definizione con cui è indicato, nella storia, nella
letteratura, nell’archeologia e nel collettivo patrimonio culturale: il mito di
ATLANTIDE.
Testa di Platone, Roma, Musei Vaticani (particolare).
11
Sarà con una tale coscienza terminologica che si potrà correttamente
intendere la parola mito in associazione all’Atlantide di Platone, cercando così
di inquadrare al meglio, in costante riferimento allo schema sopra illustrato, la
storia e gli aspetti eventualmente più veritieri del favoloso continente perduto.
CAPITOLO I
IL MITO DI ATLANTIDE
1 L’età di Platone e i dialoghi
È l’intramontabile leggenda di Atlantide l’avvincente racconto di un’antica
civiltà insulare, scomparsa in seguito a una grandiosa catastrofe naturale,
ravvisabile negli scritti di un Platone ormai in età avanzata, e più precisamente
in due suoi famosi dialoghi: il “Timeo” e l’incompiuto “Crizia”. L’interesse e le
continue novità sul mitico continente perduto sembrano davvero destinate a
perdurare a lungo, e lo testimonia il fatto incontestabile che non vi sia rivista
scientifica o letteraria in genere, per non parlare dei media, la quale non solo
non l’abbia citata o trattata almeno una volta, ma che non continui
periodicamente a farlo ancora oggi. Inutile soffermarsi su come il fascino del
mistero a esso connesso, attragga a sé l’attenzione di moltissimi. Studiosi,
archeologi, letterati, geologi o semplici appassionati, continuano la loro
interminabile e problematica disquisizione circa la reale o meno esistenza del
leggendario continente, con il conseguente presupposto di riuscire un giorno a
far luce sull’ardua ubicazione di Atlantide tra mito e archeologia.
Sarà dunque tra questi due poli, la leggenda letteraria e la realtà archeologica
13
appunto, che si tenterà di proiettare un’analisi approfondita, alla ricerca di una
collocazione direttamente desumibile dallo studio di tutti gli aspetti connessi
al mito stesso, e possibilmente la più plausibile.
Punto di partenza non può quindi che essere la medesima fonte che per
prima ne offre notizia: Platone, del quale sarà opportuno focalizzarne
anzitutto il contesto storico-biografico1.
Aristocle figlio di Aristone nacque nel 427 a. C. nell’isola di Egina, in quegli
anni posta sotto il dominio di Atene. Apparteneva a una delle più
aristocratiche famiglie ateniesi, legate ad ambienti conservatori; un suo cugino
fu il sofista e uomo politico Crizia, mentre da parte materna la famiglia
vantava di discendere dal mitico re di Atene Codro. Assieme ai suoi due
fratelli, Adimanto e Glaucone, ricevette la migliore educazione intellettuale e
atletica. Terminato il periodo di efebia, Platone ascoltò le lezioni di filosofia
dell’eracliteo Cratilo; ma l’interesse per questa disciplina divenne totale ed
esclusivo in conseguenza dell’incontro che il ventenne Platone ebbe con
Socrate; da allora la vita di Platone prese un indirizzo del tutto nuovo: la
personalità e la filosofia di Socrate costituirono il centro costante di riferimento
dei suoi interessi, tanto nella giovanile adesione, quanto nel travagliato e, col
passare degli anni, sempre più accentuato distacco.
Dopo la morte di Socrate (399 a. C.) si allontanò da Atene e strinse legami
con Euclide a Megara, con Cratilo, seguace di Eraclito, e con il pitagorico
Archita a Taranto, da cui assorbirà quei notevoli influssi pitagorici che
porteranno molto dopo allo sviluppo di nuove linee d’indagine nelle opere
della sua età più matura, tra cui appunto il “Timeo” e il “Crizia”.
Altri viaggi lo condussero in Egitto. La sua emancipazione dalla figura del
1
Testo di riferimento principale: GUIDORIZZI 1996, vol. II.
14
maestro, quindi, avvenne progressivamente, sotto l’influsso delle principali
scuole di pensiero dell’epoca.
Tre anni prima di un suo trasferimento nel 388 a. C. a Siracusa, città in cui
ritornò a varie riprese prima del definitivo rientro ad Atene, Platone aveva
fondato la propria scuola filosofica in Atene, nei pressi del recinto dell’eroe
locale Academo (da cui la definizione di “Accademia”). Alla sua scuola
convennero i giovani provenienti da ogni luogo della Grecia. Essa era
strutturata secondo le tradizionali forme del tìaso, un’associazione
formalmente dedita al culto di Apollo e delle Muse. Lì Platone insegnò sino
alla morte, avvenuta nel 347 a. C. L’Accademia continuò ad essere frequentata
ininterrottamente sino alla fine dell’antichità: fu chiusa con un decreto
dell’imperatore Giustiniano, nel 529 d. C., che espulse da Atene gli ultimi
filosofi pagani.2
Platone visse in pieno periodo di declino della polis greca, inevitabilmente
intaccata dalla estenuante guerra del Peloponneso (431 - 404 a. C.).
La fine della guerra rese evidente l’inesorabile crisi del mondo ellenico in
tutti i settori della vita politica, economica e sociale, crisi che avrebbe portato
appunto all’inizio del decadere dello stato greco, la polis. La crisi infatti,
anziché rivitalizzarla, la portò definitivamente alla morte. Alla fine del IV sec.
a reggere la politica mondiale non è più la polis greca, ma sono le monarchie
ellenistiche di stampo macedone: la polis ha ormai perduto la sua importanza
in quel settore da cui, in passato, aveva saputo trarre sempre nuove forze per
la sua interna rigenerazione. Questo mutamento radicale, che trasformò la
politica in una missione della grecità principalmente etica e culturale, è
illustrato nella vita di Platone. Quel che l’Ellade perse nel campo della politica
2
Cfr. GUIDORIZZI 1996, vol. II, p. 879.
15
lo riacquisì raddoppiato nel regno dello spirito: nel IV sec. Platone e Aristotele
posero le basi di una supremazia universale dello spirito greco, in un’epoca in
cui l’Ellade affondava nell’impotenza politica e si trovava in balia di potenze
straniere, in particolare dell’impero persiano.3
Platone fu vicino a Socrate fino alla morte di questi (399 a. C.), e il IV sec. si
vede aprirsi proprio nella grande ombra di tale evento. In un’età in cui gli
impegni politici, sociali ed etici stavano visibilmente sfaldandosi, Socrate,
accusato di aver introdotto nuovi demoni e di aver corrotto la gioventù, pagò
con la vita le sue idee, nell’obbedienza alle leggi della patria. In un’età in cui la
massa non aveva più alcun ideale e gli intellettuali aderivano in blocco al
relativismo della Sofistica, egli, come maestro, educatore e profeta della verità,
seppe insegnare un intellettualismo etico meno conforme al gusto dei tempi: la
conoscenza della virtù e la sua attuazione pratica, comprendere ed agire, erano
per lui perfettamente coincidenti. Vita e dottrina rappresentavano per Socrate
una inscindibile unità. La sua profonda unità morale, spiega la straordinaria
influenza da lui esercitata sui contemporanei e sui posteri, soprattutto sui suoi
allievi, Platone in primis, autentico divulgatore dell’insegnamento del
maestro.4
Platone aveva sì esordito come tragediografo, ma la profonda influenza di
Socrate lo indirizzò verso quella nuova via che l’avrebbe portato ad essere uno
dei massimi educatori del genere umano.
In effetti, tra la filosofia di Socrate e quella di Platone non sembra esserci
discontinuità: quest’ultima appare infatti come il consapevole tentativo di
3
Cfr. BENGTSON 1989, p. 255.
4
Ibid., p. 256.
16
“difendere” la figura e l’insegnamento dell’amato maestro non solo dalle
accuse che lo aveva portato alla morte e che continuavano ancora, ma anche
dalle interpretazioni unilaterali e deformanti che ne davano gli altri Socratici.
In questo senso, si può dire che tutta l’opera di Platone è un’“apologia” di
Socrate.5
Oltre alla fondazione e all’organizzazione dell’Accademia, Platone creò una
grandiosa visione del mondo secondo una concezione dualistica: al mondo del
corporeo, dell’apparente, egli ne contrappose un altro, il mondo del vero
essere, delle pure essenze autonome, le “idee”.
Riprendendo, sotto l’influsso delle dottrine orfico-pitagoriche, il concetto
dell’immortalità dell’anima, egli indirizzò il pensiero dell’uomo greco sulla via
dell’eterno e dell’immutabile - la più grande rivoluzione del pensiero
occidentale prima dell’avvento di Cristo. Ma, come egli stesso affermò nella
vecchiaia (Epistole, VII, 325), il suo destino personale fu la forzata esclusione da
una attività politica pratica nella sua patria. La città-stato era talmente in
declino da non riservare neppure un posto proprio al migliore dei suoi
cittadini. Così egli continuò a muoversi nella sfera dell’ideale e dell’utopia, e in
questo campo gli scritti teorico-politici di Platone, come la “Repubblica” e le
“Leggi”, hanno acquisito un’importanza imperitura.6
Tutto il pensiero di Platone ci è noto attraverso un corpus di quarantatré
opere (quarantadue dialoghi e una raccolta di lettere). I dialoghi sono
raggruppati in tetralogie; tale suddivisione risale probabilmente all’ambiente
stesso dell’Accademia ed è antecedente al I secolo d. C., epoca in cui Trasillo,
astrologo di corte dell’imperatore Tiberio, curò una nuova edizione dei
5
Cfr. GIANNANTONI 1981, vol. I, p. 90.
6
Cfr. BENGTSON 1989, pp. 256-257.
17
dialoghi platonici. Alcuni di essi sono spuri, sebbene risalgano comunque a
scrittori della cerchia platonica; di altri l’autenticità è dubbia. Controversa è
pure la cronologia relativa di queste opere: Platone iniziò a scriverle in giovane
età, poco dopo la morte di Socrate, che ne è l’immancabile protagonista, e
proseguì sino ai suoi tardi anni. Sebbene la questione sia ancora aperta, si può
stabilire con qualche ragionevole certezza la datazione di alcuni dei principali
dialoghi, operazione utile a delineare le fasi evolutive del pensiero platonico.
Al primo periodo (antecedente al primo viaggio in Sicilia, vale a dire prima del
390 a. C.) risalgono opere che sembrano rispecchiare maggiormente il pensiero
socratico, anche se già in esse i germi del pensiero platonico cominciano a
prendere forma: le più importanti sono l’”Apologia di Socrate”, lo “Ione”, il
“Critone”, l’”Eutifrone”, l’”Ippia Minore” e probabilmente i più maturi
“Protagora” e “Gorgia”. Al periodo della piena maturità (all’incirca tra il 380 e il
360 a. C.) risalgono le più notevoli opere del corpus, quali il “Fedone”, il
“Simposio”, il “Cratilo”, il “Fedro”, la “Repubblica”. Negli ultimi anni, il filosofo
ormai in età avanzata compose assieme al “Parmenide” e alle “Leggi”, i due
dialoghi nei quali si narra la storia del continente perduto: il “Timeo” e il
“Crizia”.7
Il dialogo in prosa è un genere letterario che vide con Platone la sua prima e
definitiva affermazione: su quelli platonici sono, in effetti, modellati i dialoghi
degli autori successivi, da Cicerone a Plutarco a Giuliano, sino alla tarda
antichità. Un testo in forma dialogica non è una mera trattazione filosofica
sviluppata con finalità tecnico-specialistiche, ma comporta una cornice
narrativa e contiene un aspetto tipicamente letterario che rende possibile la
divulgazione anche all’esterno della scuola. In effetti, i dialoghi platonici erano
7
Cfr. GUIDORIZZI 1996, vol. II, p. 880.
18
destinati non a persone esperte di filosofia ma a cerchie più vaste di lettori e
avevano in prima istanza uno scopo propagandistico: come attesta Diogene
Laerzio (Vite dei filosofi III, 37) essi erano letti ad alta voce tra gli allievi
dell’Accademia e poi diffusi fuori della scuola con lo scopo di attirare nuovi
adepti alla filosofia tra tutti i lettori colti del mondo greco che potevano essere
raggiunti dalle opere platoniche; ciò spiega anche la ragione per cui essi non
trattino in modo sistematico le dottrine insegnate a scuola.8
1.1 La struttura narrativa dei dialoghi
«Strettissimo è il legame tra la filosofia di Platone e la forma letteraria
propria del dialogo, » - afferma Gabriele Giannantoni - «che non è una veste
esteriore (sia pure di altissimo livello artistico), ma l’espressione necessaria
richiesta proprio dal modo in cui Platone concepisce la filosofia»9.
Dal punto di vista strutturale, si possono distinguere i dialoghi in cui la
cornice narrativa è di natura drammatica (in cui cioè i personaggi discorrono
in prima persona) da quelli nei quali essa è diegetica, per cui il dialogo si trova
racchiuso nel racconto di un personaggio che lo riferisce. La scelta di questo
strumento, a preferenza del trattato che comporta un’indagine sistematica, fa
sì che il pensiero platonico si presenti in forma tipicamente dialettica.
Anche sotto l’aspetto formale, dunque, si manifesta la predilezione del
filosofo per la dimensione orale dell’insegnamento, che consente di rispondere
ai dubbi di chi lo interroga e di seguire lo sviluppo del pensiero nel suo
formarsi davanti ai problemi che di volta in volta emergono.
8
Ibid., pp. 880-881.
9
GIANNANTONI 1981, vol. I, p. 94.
19
In tal senso, Platone eredita gli strumenti della cultura orale in cui egli stesso e
il suo maestro Socrate erano cresciuti.
Come in una tipica rappresentazione teatrale, la tecnica di confrontare le idee
tra loro, in una gara di parole, richiama lo schema dell’agone teatrale. Ma a
differenza degli agoni tragici, in cui i due personaggi uscivano di scena
entrambi prigionieri delle proprie ragioni, le argomentazioni degli
interlocutori platonici cambiano le posizioni degli avversari, convincono,
smantellano pregiudizi, cosicché il pensiero procede ininterrottamente.
Dal punto di vista narrativo il dialogo platonico è mosso e variegato.
Sebbene prevalga la contesa delle parole e degli argomenti, Platone costruisce
un quadro che non è mai monotono: interrompe lo sviluppo del pensiero con
squarci narrativi, con apologhi e allegorie mitologiche in cui si manifesta la sua
straordinaria capacità fantastica ed eclettica.
Ciascuno degli interlocutori, poi, ha un carattere definito, delineato con pochi
e acutissimi tratti; su di esso si esercita non di rado la sottile ironia dello
scrittore, che sembra indirizzarsi specie verso l’arroganza intellettuale di
personaggi tronfi e boriosi, screditati impietosamente dalle argomentazioni di
Socrate.
Platone, quindi, non è solo uno dei fondatori della filosofia occidentale, ma
anche un grande scrittore.