51 Introduzione
Durante il corso della sua vita, Tolkien si dedicò appassionatamente all’ideazione e alla
stesura del suo legendarium, che nella sua totalità, includendo le opere complete e quelle non
del tutto ultimate, costituisce un corpus di testi estremamente cospicuo e vario. Egli infatti
non si occupò solo di creare personaggi e vicende, bensì curò nei particolari ogni aspetto
dell’universo della Terra di Mezzo, dai miti cosmogonici alla geografia, dalle lingue alla
cultura, gli usi e costumi delle diverse società. Si tratta del lavoro di una vita intera, che
alterna fasi creative a molti ripensamenti e conseguenti revisioni, in cui ogni modifica ad un
concetto o ad un evento crea riverberi in un altro ed ogni vicenda è un filo indissolubilmente
intrecciato agli altri e forma quell’arazzo che è l’universo della Terra di Mezzo, che prende
corpo nella totalità delle opere tolkieniane.
In seguito alla sua morte, il figlio Christopher, impegnandosi meticolosamente nel ruolo
di curatore, raccolse, organizzandoli dal punto di vista dell’argomento e cronologicamente,
gli scritti allora inediti del padre in dodici volumi, che assieme formano The History of
Middle-Earth. Si tratta del materiale più disparato, quale saggi e trattati di vario contenuto,
annali, etimologie linguistiche relative agli idiomi della Terra di Mezzo, genealogie e mappe;
il primo capitolo di un eventuale seguito de Il Signore degli Anelli, successivamente
abbandonato; la mole dell’intero work in progress de Il Signore degli Anelli; le fasi
embrionali ed intermedie della mitologia della Terra di Mezzo che ora è conosciuta come Il
Silmarillion (anch’esso pubblicato postumo e frutto della dedizione di Christopher Tolkien,
che eseguì un lavoro di collazione sui testi del padre, in modo da ottenere un’opera coesa);
un volume intero comprendente i lai dedicati alle maggiori vicende dei Giorni Antichi della
Terra di Mezzo.
L’opera qui tradotta, la Athrabeth Finrod ah Andreth, è contenuta nel decimo volume,
intitolato Morgoth’s Ring (L’anello di Morgoth), il quale ospita altri scritti relativi alla
revisione del Silmarillion successiva al completamento del Signore degli Anelli, cioè
composti o modificati nel periodo che va dagli anni ’50 in poi. Essa occupa una sezione a sé
stante in quanto si tratta di un testo articolato e completo, che incarna, come si vedrà, buona
parte delle tematiche presenti all’interno del volume e che erano il principale oggetto di
6riflessione da parte di Tolkien in quel periodo, come viene evidenziato dal figlio nella
premessa:
Among the chief ‘structural’ conceptions of the mythology that he pondered in those
years were (…) the immortality (and death) of the Elves; the mode of their
reincarnation; the Fall of Man and the length of their early history; (…) and above all,
the power and significance of Melkor-Morgoth, which was enlarged to become the
ground and source of the corruption of Arda. For this reason I have chosen Morgoth’s
Ring as the title of this book. It derives from a passage in my father’s essay ‘Notes on
motives in the Silmarillion’, in which he contrasted the nature of Sauron’s power,
concentrated in the One Ring, with that of Morgoth, enormously greater, but dispersed
or disseminated into the very matter of Arda: ‘the whole of Middle-earth was Morgoth’s
Ring’.1
Il capitolo si apre con una breve prefazione di Christopher Tolkien, che presenta la
situazione testuale dell’opera (esistono un manoscritto e due versioni dattiloscritte) e la
relativa datazione. Seguono un’introduzione scritta da Tolkien per l’Athrabeth e l’effettivo
testo narrativo: quest’ultimo è un lungo dialogo dalle tinte platoniche fra la donna mortale
Andreth ed il re elfico Finrod, riguardo alla morte e ai diversi destini di Elfi e Uomini, che
sfocia in un dibattito dai toni metafisici. La voce del curatore riemerge con le note al testo ed
alcune righe che presentano il commento e le relative note che Tolkien scrisse per spiegare
ed espandere le tematiche ed i concetti più o meno sviluppati all’interno dell’Athrabeth. Il
suddetto commento viene riportato, assieme al Racconto di Adanel, ovvero la storia della
Caduta degli Uomini. Christopher Tolkien prosegue prima con una selezione di voci del
Glossario allegato all’Athrabeth, poi con un lungo commento critico relativo all’evoluzione
del dialogo, in cui la versione finale viene messa a confronto con estratti di manoscritti
precedenti, ed integrato con passi significativi della fitta corrispondenza che Tolkien
intratteneva con i propri editori, ma anche con semplici lettori interessati. Infine, dopo una
seconda serie di note del curatore, il capitolo si conclude con un’Appendice che tratta le
riflessioni più recenti di Tolkien sul problema della reincarnazione degli Elfi, contenente
brani di testi relativi a questo argomento confrontati e commentati dal curatore.
1
J.R.R. Tolkien, Morgoth’s Ring, a cura di Christopher Tolkien, HarperCollinsPublishers, London, 1993, pp.
x-xi
72 Considerazioni teoriche ed analisi generale
Come già anticipato nell’introduzione, il capitolo qui tradotto presenta una struttura
elaborata, in cui il testo del curatore fa da cornice alle opere scaturite dalla penna di Tolkien.
Il fulcro e punto di partenza è il testo dell’Athrabeth, a cui è dedicato l’esteso commento
dell’autore stesso, e che si collega anche al più breve Racconto di Adanel. All’intervento del
curatore, sia che si tratti delle note, sia che si tratti del suo commento, sono intrecciati
innumerevoli frammenti di altre opere tolkieniane o anche di semplici appunti che
permettono di fare luce sull’evoluzione dell’Athrabeth e di tutti i concetti in essa contenuti.
Dal punto di vista teorico, il primo passo fondamentale verso l’elaborazione di una
strategia traduttiva è l’individuazione della tipologia testuale, alla quale è direttamente
relazionata la sua funzione. Questo approccio si è sviluppato solo in tempi che potremmo
definire recenti, se si conta che gli studi sui metodi della traduzione risalgono fino a
Cicerone: in un passo del De optimo genere oratorum (45-44 a.C.) questi distingueva fra una
traduzione ut interpres ed una ut orator, dove la prima si configurava come una traduzione
letterale mentre la seconda, da lui preferita, come una traduzione libera, che quindi non
procedeva “verbum pro verbo” bensì privilegiava il significato.2 Il trattato di Cicerone
inaugurava una lunga serie di riflessioni sulla traduzione: nei secoli, spronati dall’esigenza di
individuare una metodologia traduttiva universale e di elaborarne le relative regole, gli
studiosi avevano sviluppato teorie che, benché diverse l’una dall’altra, finivano per
riproporre due singoli metodi di tradurre. Si cita Friedrich Schleiermacher, il quale, nel suo
saggio Über die verschiedenen Methoden des Übersetzens del 1813, afferma che dei due
metodi l’uno “lascia il più possibile in pace lo scrittore e gli muove incontro il lettore”,
l’altro “lascia il più possibile in pace il lettore e gli muove incontro lo scrittore”3,
presentando cioè quelle che si potrebbero rispettivamente definire traduzione “straniante” e
traduzione “addomesticante”4: la prima trasporta nel testo d’arrivo gli elementi sia linguistici
2 Marco Tullio Cicerone, De optimo genere oratorum, V-14, in www.intratext.com
3 Friedrich Schleiermacher, “Über die verschiedenen Methoden des Übersetzens”, in Abhandlungen der
philosophischen Klassen der Königlish-Preussischen Akademie der Wissenschaften aus den Jahren 1812-1813,
in der Realschul-Buchhandlung, Berlin 1816, trad. it. di Giovanni Moretto, “Sui diversi metodi del tradurre”, in
S. Nergaard, a cura di, La teoria della traduzione nella storia, Bompiani, Milano, 1993, p. 153
4 Lawrence Venuti, The Translator’s Invisibility. A History of Translation, Routledge, London-New York
1995, trad. it.di Marina Guglielmi, L’invisibilità del traduttore. Una storia della traduzione, Armando, Roma,
1999, pp. 19-20
8che culturali del testo di partenza modificandoli il meno possibile; al contrario, la seconda
adegua il testo d’arrivo alla cultura dei lettori che ne fruiranno. Similarmente, il linguista
Eugene A. Nida esprime il concetto in termini di “equivalenza formale”, che tenta di
riprodurre il più fedelmente possibile la forma dell’originale, e di “equivalenza dinamica”,
che è soggetta ad un adattamento, in quanto punta ad ottenere, sul lettore del testo d’arrivo,
lo stesso effetto che il testo di partenza ha sui suoi lettori.5 Sulla falsariga di Nida, Peter
Newmark oppone la “traduzione semantica” a quella “comunicativa”, dove la prima “cerca
di rendere, con la precisione concessa dalle strutture semantiche e sintattiche della seconda
lingua, l’esatto significato contestuale dell’originale”, mentre la seconda, analogamente
all’“equivalenza dinamica”, “cerca di produrre sui suoi lettori un effetto il più possibile
vicino a quello ottenuto sui lettori dell’originale”6, anche a discapito delle qualità formali
del testo originale.
A queste definizioni si potrebbe aggiungere un elenco di analoghe coppie antitetiche:
infedeltà e fedeltà, bella infedele e brutta fedele, “overt translation” e “covert
translation”7… Questi concetti sono tutti validi ed utili, ma la fossilizzazione sulle
bipartizioni teneva poco conto di come i testi siano atti di comunicazione e di quale sia il
loro scopo. Questa mancanza è stata colmata dai concetti sviluppati da Karl Bühler e
Katharina Reiss8 approfondendo quanto teorizzato da Roman Jakobson riguardo alle
funzioni della lingua9. Le distinzioni fra le funzioni del linguaggio sono le seguenti:
1. funzione espressiva o emotiva: in cui sono centrali l’emittente e la forma; in un testo
letterario, ad esempio, il rispetto della lingua dell’autore è di importanza massima;
5 Eugene A. Nida, Towards a Science of Translating. With Special Reference to Principles and Procedures
Involved in Bible Translating, Brill, Leiden, 1964, p. 159, trad. it. di Massimiliano Morini in La traduzione:
teorie, strumenti, pratiche, Sironi Editore, Milano, 2007, pp. 67-68
6 Peter Newmark, Approaches to Translation, Pergamon Press, Oxford, 1982, trad. it. di Flavia Frangini, La
traduzione. Problemi e metodi, Garzanti, Milano, 1988, p. 37
7
Juliane House, A Model for Translation Quality Assessment, Gunter Narr Verlag, Tübingen, 1977, pp. 189 e
194
8 Karl Bühler, Sprachtheorie. Die Darstellungsfunktion der Sprache (1934), Gustav Fischer Verlag, Stuttgart-
New York, 1982, pp. 24-33, trad. it. Di Serena Cattaruzza Derossi, Teoria del Linguaggio, Armando Editore,
Roma, 1983, pp. 76-85
Katharina Reiss, “Textbestimmung und Übersetzungsmethode” (1969) in Wolfram Wilss, a cura di,
Übersetzungswissenschaft, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt, 1981, pp. 76-91
Katharina Reiss, Hans J. Vermeer, Grundlegung einer allgemeine Translationstheorie, Max Niemeyer,
Tübingen, 1984
9 Roman Jakobson, “Linguistics and Poetics”, in Thomas A. Sebeok, a cura di, Style in Language, Wiley, New
York-London, 1960, pp. 350-77, trad. it. Di Luigi Heilmann e Letizia Grassi, “Linguistica e poetica”, in Saggi
di linguistica generale, Feltrinelli, Milano, 1966, pp. 181-218
92. funzione referenziale o rappresentativa: in cui sono centrali il contesto ed il
contenuto; in testi informativi come un articolo giornalistico, il piano del significato e
del contenuto ha priorità;
3. funzione conativa o appellativa: in cui sono centrali il destinatario e l’effetto; ad
esempio i manuali di istruzioni o la pubblicità.
Ovviamente, si deve essere consapevoli che queste distinzioni non vanno prese come dogmi
e che ogni testo è caratterizzato da una preponderanza dell’una o dell’altra funzione
Una volta individuata la tipologia testuale e la relativa macrofunzione del testo originale,
il traduttore dovrà regolare i propri criteri, tenendo conto anche dello scopo del testo tradotto
e delle caratteristiche del lettore: infatti, l’identificazione della tipologia testuale non implica
l’applicazione di un criterio definitivo e fisso, bensì situazioni diverse richiedono strategie
che si basino anche sugli aspetti appena menzionati.
Tuttavia, basare le proprie strategie traduttive unicamente sullo scopo del testo può
risultare limitato e riduttivo (specialmente se si ha a che fare con un testo letterario). È
opportuno combinarlo al concetto che Christiane Nord definisce loyalty:
“The loyalty principle takes into account the legitimate interests of the three parties
involved: initiators (who want a particular type of translation), target receivers (who
expect a particular relationship between original and target texts) and original authors
(who have a right to demand respect for their individual intentions and expect a
particular kind of relationship between their text and its translation). If there is any
conflict between the interests of the three partners of the translator, it is the translator
who has to mediate and, where necessary, seek the understanding of all sides.”10
Riecheggiano le parole di Carlo Izzo:
“Farei la proposta, cioè, di considerare la traduzione alla stregua dell’interpretazione
d’una composizione musicale eseguita su uno strumento, o da un complesso di
strumenti, diversi da quelli per i quali essa fu originariamente scritta dall’autore;
poiché esecutori che si rispettino hanno, per prima cosa, il dovere di sparire, di
annullarsi, di fronte all’opera da interpretare: di dimenticare se stessi quando eseguono
Wagner e di dimenticare se stessi e Wagner quando eseguono Bellini (…). Il tradurre
dovrebbe essere, per prima cosa, esercizio di umiltà.”11
10 Christiane Nord, Translating as a Purposeful Activity. Functionalist Approaches Explained, St. Jerome,
Manchester, 1997, p. 126-7
11 Carlo Izzo, Civiltà Britannica, vol. II, Impressioni e note, Edizioni di storia e letteratura, Roma, 1970, p. 391
10
O forse, il giusto atteggiamento viene espresso ancora meglio nell’introduzione di Manuale
di traduzioni dall’inglese, con una descrizione che, nella sua semplicità, ricopre tutti i punti
di vista finora menzionati:
“Più rilevante è, forse, la nozione di “servizio”: il traduttore deve mettersi al servizio
del testo che traduce, cercare di estrapolarne volta per volta gli elementi (fonetici,
ritmici, semantici e pragmatici) portanti, renderli con la massima precisione e onestà
possibili; ma deve anche tenere conto di chi lo ha scritto, del motivo per cui è stato
scritto, del pubblico che ne fruirà.”12
Va ricercato un giusto equilibrio che mantenga da un lato il rispetto della creatività
dell’autore e del suo linguaggio e dall’altro permetta di sfruttare le potenzialità della lingua e
della cultura d’arrivo, senza ridurre il testo tradotto ad un calco succube dell’originale.
Inoltre, sarebbe paralizzante, per il traduttore, dover uniformare le proprie scelte secondo
un’unica rigorosa metodologia: egli deve, piuttosto, regolare con discrezione le proprie
strategie sulla base del testo di partenza e del testo d’arrivo.
Tornando all’individuazione della tipologia testuale, si vedrà che il testo qui in esame, a
causa di una struttura che si può quasi definire “a scatole cinesi”, non può essere costretto in
un’unica tipologia testuale: infatti, sia il testo del curatore sia il commento di Tolkien
appartengono alla categoria dei testi con macrofunzione informativa o referenziale, mentre
l’Athrabeth vera e propria, nonché Il Racconto di Adanel e la breve Discussione di Manwë
ed Eru sono chiaramente testi narrativi con funzione emotiva. In linea generale, si può
affermare che la funzione del testo del curatore sia quella di presentare, contestualizzare ed
analizzare l’Athrabeth nella maniera più completa e chiara possibile; la funzione del
commento firmato da Tolkien è quella di spiegare ed elaborare da un punto di vista più
tecnico e con una prospettiva saggistica i contenuti della propria opera. Infine, per quanto
riguarda il testo letterario e la sua funzione, ci si affida alle parole dell’autore stesso:
“In realtà, seppure tratti di argomenti quali la morte e le relazioni di Elfi e Uomini con
il Tempo ed Arda e fra di essi, il suo reale intento è drammatico: di mostrare la
generosità della mente di Finrod, il suo affetto e la sua compassione per Andreth e le
tragiche situazioni che di sicuro emersero negli incontri di Elfi e Uomini.”13
12 Zacchi, Morini, a cura di, Manuale di traduzioni dall’inglese, Bruno Mondadori, Milano, 2002, p. 9
13 Cfr. trad. it. Athrabeth Finrod ah Andreth in questo elaborato a p. 75
11
Da queste riflessioni consegue l’individuazione, lungo l’intero capitolo, di diverse
“voci” o autori. Il primo che incontriamo è il curatore, ovvero Christopher Tolkien; se lo
stile di quest’ultimo rimane lo stesso in tutti i suoi interventi, dall’inizio alla fine del
capitolo, in quanto ricopre questo unico ruolo, lo stesso non si può dire per J.R.R. Tolkien: le
due forme testuali da lui prodotte sono talmente distinte che sarebbe comunque impossibile
aspettarsi di vedere in esse lo stesso stile. Pertanto si riconoscono uno stile narrativo ed uno
stile saggistico.
Queste caratteristiche stilistiche sono riconducibili ad una scelta dell’autore, il quale,
all’interno della rosa di possibilità offerte dalla propria lingua, ne predilige una, rendendo
personale l’uso della lingua. L’idioletto (ovvero, l’insieme degli usi linguistici di un
individuo) dell’autore è parte integrante del messaggio ed è degno di considerazione. Si
propone ora un’analisi più dettagliata di questi tre stili.
2.1 Stile del curatore
Fin dalle prime righe, lo stile di Christopher Tolkien si rivela essere piuttosto
complicato, rendendo palese la sua formazione umanistica e dimostrando l’attenzione e la
cura filologica che egli riserva al testo dell’Ahtrabeth.
Dal punto di vista sintattico, l’organizzazione è caratterizzata da periodi lunghi e
complessi, tendenti soprattutto all’ipotassi. Anche il lessico è estremamente formale: si può
osservare una propensione all’uso di parole di matrice romanza, generalmente percepite
come più dotte (ad esempio, il verbo to contest, oggigiorno più usato in campo legale);
termini che, se non desueti, di rado si incontrano nell’inglese corrente e solo in testi
estremamente formali (è il caso dell’aggettivo extant e della congiunzione for con significato
poiché); inoltre è anche presente una costruzione in latino, terminus ad quem.
Inoltre, vengono utilizzati termini specifici appartenenti al campo semantico della
scrittura e dell’editoria, quali manuscript, draft, typewriter, top copy, carbon copy,
amanuensis typescript. La presenza di tali termini non è stata causa di problemi al momento
della traduzione, ma, in un’epoca dominata dall’uso del computer e dalle conseguenti
notevoli agevolazioni pratiche, si è resa necessaria una verifica della giusta comprensione di
alcune di queste parole, l’uso dei cui referenti ormai appartiene al passato.
Queste considerazioni sullo stile vanno sommate ad un’ulteriore tendenza, all’interno del
linguaggio di Christopher Tolkien, che rende il suo stile riconoscibile. Ci si riferisce all’uso