ii
svolgere una serie rilevante di funzioni, quanto meno singolarmente, esso non è
questa mi sa la cagnona che assomiglia alle sesta vero?può prescindere da una
verifica delle reali capacità organizzative degli enti e della congruità delle loro
dimensioni territoriali alle funzioni affidate.
Il problema, pertanto, è quello della dimensione demografica ottimale dei nostri
comuni, della sua correlazione con i principi di efficienza ed efficacia dell’azione
amministrativa e dell’accorpamento di quelli più piccoli perché anch’essi
possano essere messi in condizione di rispondere alle sempre più pressanti
esigenze dei cittadini: in altre parole, le ragioni di una gestione razionale,
economica ed efficiente delle risorse, che in qualche modo si pone come
“condicio” del federalismo reale e non solo teorico, suggeriscono una spinta
all’aggregazione.
Allo stato attuale, dunque, l’esercizio congiunto ed integrato di funzioni e servizi
è divenuta la principale risposta al problema di dare al governo locale delle
dimensioni appropriate, in attuazione del principio di adeguatezza previsto dal
citato art. 118 della Costituzione.
Alla luce di quanto detto, il ridisegno, l’irrobustimento e la diffusione delle forme
associative diventano imprescindibili, e la dimensione numerica, l’ampiezza delle
circoscrizioni territoriali, nonché la struttura organizzativa delle amministrazioni
locali, sollecitano, in assenza di un radicale intervento sul numero di tali enti, lo
sviluppo di forme associative e l’istituzione di nuovi organismi sovracomunali.
La crescita dell’associazionismo in Italia risulta essere un dato innegabile:
dall’analisi svolta da Formez in collaborazione con l’Anci nel settembre 2004,
risulta che l’87% del campione dei comuni italiani intervistati gestisce servizi e
funzioni in forma associata. Il dato percentuale dimostra come gli enti locali
abbiano assunto l’importante consapevolezza che solo tramite una gestione per
iii
così dire “partecipata” delle funzioni e dei servizi sia possibile raggiungere quei
livelli di adeguatezza richiesti dalla Costituzione.
Questa è la soluzione coerente e logica in base ad un sistema che, nella nuova
architettura istituzionale, vuole rafforzare l’autonomia dei comuni e
conseguentemente le loro forme di associazione.
Il presente lavoro si compone di tre parti, ognuna delle quali si articola in diverse
sequenze che trattano temi specifici:
- La prima parte coincide con il Capitolo I.
Dopo il primo paragrafo, necessario a definire le origini storico-legislative
dell’autonomia comunale, il capitolo è interamente dedicato alle norme relative
alle autonomie locali presenti nella Costituzione repubblicana e alle leggi che, a
partire dal 1990, hanno modificato l’assetto e l’ordinamento dei nostri enti locali
(in particolare, in questa sezione, vengono analizzati i principali obiettivi ed i
tratti salienti di alcune delle leggi più importanti in materia di enti locali, vale a
dire la l. 142/90, la l. 81/1993, la l. 59/97, il d.lgs. 112/1998, la l. 265/99 ed il
Testo Unico 267/ 2000).
L’obiettivo di questa analisi è essenzialmente quello di evidenziare come nel
nostro Paese, l’autonomia e l’indipendenza dei comuni siano aumentati, nel
corso degli anni, in modo esponenziale, e come l’intento del legislatore,
nazionale e regionale, sia stato quello di accrescere gli spazi di
autodeterminazione del livello di governo più vicino ai cittadini.
iv
L’obiettivo cui è orientato il Capitolo I viene, inoltre, completato con una serie di
valutazioni sull’importanza del decentramento, dell’autonomia comunale e della
sussidiarietà e con una analisi, anche terminologica, dei tre termini sopra citati.
- La seconda parte è composta dai Capitoli II e III e rappresenta il fulcro del
lavoro.
In particolare nel Capitolo II vengono analizzate le problematiche inerenti alla
frammentazione comunale e riguardanti il ruolo istituzionale da attribuire ai c.d.
“piccoli comuni”, si analizza, poi, il percorso intrapreso (e non intrapreso) dalle
regioni per costruire, governare e valutare la politica a sostegno delle forme
associate alla luce del d.lgs. 112/1998 e del d.lgs. 267/2000 e si guarda, infine, ai
processi aggregativi possibili tra gli enti locali, con l’intento di dimostrare come
la cooperazione intercomunale possa consentire ai singoli enti di migliorare e, in
molti casi, di mantenere, una qualità di servizi adeguata alle esigenze delle
cittadinanze di competenza.
L’ultimo paragrafo è interamente dedicato al commento dell’analisi condotta nel
settembre 2004 da Formez in collaborazione con Anci sullo stato attuale
dell’associazionismo nel nostro Paese e sulla diffusione delle forme associate di
gestione. Specificatamente, l’analisi ha la finalità precisa di identificare le forme
di gestione più diffuse e i servizi maggiormente interessati e, soprattutto, quella di
far emergere e quantificare il fabbisogno di assistenza tecnica per lo sviluppo di
servizi in forma associata.
Proprio alla luce dei risultati evidenziati in questa analisi, nasce la volontà di
analizzare l’istituto consortile quale forma associativa per la gestione di servizi e
funzioni.
v
Il Capitolo III, quindi, è totalmente dedicato al consorzio tra enti locali.
Nel primo paragrafo l’attenzione si focalizza, in particolare, sull’evoluzione
normativa dell’istituto consortile che rappresenta la forma associativa più
risalente nel tempo, ma anche quella che è riuscita a “divincolarsi” meglio
all’interno dell’ordinamento, in maniera tale da risultare, ancora oggi, uno
strumento fortemente all’avanguardia (tanto da rappresentare, dopo la
convenzione, la forma associativa più diffusa in Italia). Nello specifico in questa
sezione vengono analizzati i tratti salienti delle leggi che hanno contraddistinto lo
sviluppo storico del consorzio, fino all’attuale normativa di riferimento,
contenuta nel d.lgs. 267/2000.
Nel secondo paragrafo, invece, vengono analizzati nel dettaglio gli elementi
costitutivi e la struttura organizzativa.
- La terza parte è composta dai Capitoli IV e V
Nel Capitolo IV si è ritenuto necessario definire in breve, e quindi senza alcuna
pretesa di esaustività, la disciplina dei servizi pubblici locali e, contestualmente,
delle relative forme di gestione.
Dopo il primo paragrafo, essenziale per definire quello che è l’“oggetto” dei
servizi pubblici, il capitolo è dedicato alla rassegna di tutte le tappe legislative
che hanno portato all’attuale distinzione tra servizi pubblici a rilevanza
economica e servizi privi di tale rilevanza (in particolare l’attenzione si è
soffermata sulla l. 448/2001, sulla l. 269/2003 e, infine, sulla sentenza della Corte
Costituzionale 272/2004 che ha dichiarato illegittimo l’art. 113-bis del Testo
Unico degli enti locali).
vi
Nel l’ultima parte del capitolo vengono studiate singolarmente le forme di
gestione dei servizi.
Nell’ultimo Capitolo si è cercato, infine, di dare una prova empirica riguardo a
quello che si è affermato nei Capitoli II e III, in riferimento, cioè, alla
funzionalità dell’istituto consortile.
Si è scelto, così, di analizzare quale caso specifico, il “Consorzio G.A.I.A.” per la
gestione dei rifiuti solidi urbani (R.S.U.)
Nella prima parte del capitolo si delineano i principali obiettivi ed i tratti salienti
della normativa di riferimento degli R.S.U., il d.lgs. 22/1997, c.d. “decreto
Ronchi”, che recepisce importanti direttive europee in tema di rifiuti, mentre la
parte restante è interamente dedicata alla ricerca effettuata sul campo.
A tal fine è stato inviato ai Sindaci dei 48 comuni aderenti al “consorzio
G.A.I.A.” un questionario, strutturato in 9 quesiti, allo scopo di evidenziare i
risultati conseguiti e le esperienze maturate riguardo alla gestione del servizio
tramite l’istituto consortile, per verificarne l’effettiva efficacia.
E’ stato possibile, in questo modo, “ misurare” la funzionalità del l’istituto in
base a criteri di valutazione oggettivi quali gli aspetti tecnici-operativi della
gestione, gli aspetti occupazionali e di gestione patrimoniale del servizio, nella
fase precedente e successiva al l’anno in cui i singoli comuni hanno espresso la
volontà di aderire al consorzio stesso.
1
CAPITOLO I
LINEAMENTI GENERALI DEGLI ENTI LOCALI
Sommario: 1. Profilo storico delle autonomie dall’unità ad oggi: i comuni e le province
nel neo-costituito Regno d’Italia. – 2. Posizione costituzionale degli enti locali. – 2.1.
L’art. 5 della Costituzione. – 2.2. Il riconoscimento e la promozione delle autonomie. –
2.3. Il decentramento. – 2.4. L’autonomia e l’autarchia degli enti. – 2.5. La riforma del
Titolo V della Costituzione. – 2.6. Il principio di sussidiarietà. – 3. Normative di rango
ordinario. – 3.1. La l. 142/1990. – 3.2. La l. 81/1993. – 3.3. Le riforme degli anni 1997-
1999: il “federalismo amministrativo”. – 3.3.1. Le leggi “Bassanini”. – 3.3.2. La l.
265/1999. – 3.4. Il d.lgs. 267/2000: il nuovo Testo Unico delle autonomie locali.
1. Profilo storico delle autonomie: i comuni e le province nel neo-costituito
Regno d’Italia.
Il 20 marzo 1865, Vittorio Emanuele II promulgò la legge per l’unificazione
amministrativa del Regno d’Italia
1
. Fu quella la conclusione di un quinquennio di
appassionate discussioni sui caratteri stessi dell’unificazione e sul profilo che
avrebbero dovuto assumere il regime liberale e l’assetto del nuovo Stato
2
.
Con tale fondamentale provvedimento, è stata prevista per la prima volta una
regolamentazione uniforme dell’ordinamento amministrativo del neo costituito
Regno d’Italia, in precedenza formato da un gran numero di ordinamenti diversi
3
.
Il rilievo del provvedimento è assai importante perché per la prima volta è stato
adottato sul territorio italiano un unico ordinamento riguardante i comuni e le
province. L’esigenza di favorire un’omogeneizzazione delle diverse realtà
geografiche è perciò particolarmente avvertita nel testo della legge.
1
Per i profili storici si cfr., tra gli altri: A. Petracchi, Le origini dell’ordinamento italiano
comunale e provinciale, Neri Pozza, Vicenza, 1962; C. Pavone, Amministrazione centrale e
amministrazione periferica da Rattazzi a Ricasoli (1859-1866), Giuffrè, Milano, 1964.
2
La l. 20 marzo 1865, n. 2248 è in realtà un complesso di norme, costituito da “allegati”. Il primo
allegato riguarda la legge sull’amministrazione comunale e provinciale, il secondo la legge sulla
sicurezza pubblica, il terzo la legge sulla sanità pubblica, il quarto la legge sull’istituzione del
consiglio di Stato, il quinto la legge sul contenzioso amministrativo, il sesto la legge sulle opere
pubbliche. Sul l’esperienza della legge del 1865 restano fondamentali i saggi raccolti nei due
volumi: A. Amorth (a cura di), Le province, Neri Pozza, Vicenza, 1968; M.S. Giannini (a cura di),
I comuni, Neri Pozza, Vicenza, 1967.
3
Sui problemi dell’unificazione vedasi: Storia d’Italia, Vol. IV, Einaudi, 1976, pp. 1667 e ss.
2
Il Regno era diviso in una serie di livelli amministrativi (province, circondari,
mandamenti e comuni) che dal centro giungevano fino ad investire la realtà
periferica
4
. Nel comune, cellula base del sistema, erano previsti, peraltro senza
nessuna distinzione di carattere territoriale, un consiglio comunale elettivo, una
giunta provinciale, un segretario comunale (stipendiato dal comune e da esso
stesso dipendente) ed un ufficio comunale
5
.
I consiglieri comunali (proporzionali al numero della popolazione del comune)
erano eletti dai cittadini di almeno ventuno anni “contribuenti” alle spese del
comune di appartenenza.
Il sindaco, nominato con decreto regio tra i consiglieri comunali, era definito dalla
legge “capo dell’amministrazione comunale e ufficiale del Governo” (art. 97): era
quindi, per un verso, rappresentativo della comunità locale, ma per altro verso,
anello terminale del potere centrale
6
.
La giunta era eletta dal consiglio comunale “nel suo seno” e “si rinnova ogni anno
per metà”, al fine di ricambiare frequentemente la classe dirigente politica
dell’ente.
Le norme della contabilità comunale, previste nel Capo VI della legge,
contenevano l’ossatura del sistema che arriverà sino ai nostri giorni. Le spese del
comune erano suddivise in “obbligatorie e facoltative” (le spese obbligatorie sono
espressamente indicate dall’art.115), con una ripartizione che sarà mantenuta
anche nei successivi Testi Unici.
Il comune possedeva, quindi, una notevole capacità di imposizione tributaria
(poteva imporre dazi ed imposte) e una discreta autonomia finanziaria.
4
“Il Regno si divide in province, circondari, mandamenti e comuni”, art. 1 della l. 20 marzo 1865
n. 2248.
5
“Ogni comune ha un consiglio comunale ed una giunta municipale” nonché “ … un segretario
ed un uffizio comunale”, art. 10 della l. 20 marzo 1865 n.2248.
6
In pratica era il ministro dell’interno che, su suggerimento del prefetto, procedeva alla scelta.
Vedi G. Melis, Le contraddizioni del centralismo “debole”in Storia dell’amministrazione italiana
1861-1993, il Mulino, Bologna, 1999, p. 76.
3
Emergeva, però, la scelta di fondo di imporre agli enti locali le spese obbligatorie,
concependoli dunque come terminali periferici di politiche pubbliche delle quali
essi non potevano determinare la gestione
7
.
Inoltre, un complesso sistema di controlli facente capo al prefetto limitava
l’autonomia comunale
8
. Si delineava, infatti, la presenza di una robusta “catena”
di controlli sugli atti degli enti locali e la scelta di fondo di affidare questi
controlli al ministero dell’interno, istituendo uno stretto legame tra questo, il
prefetto e gli enti locali: questo legame rappresenta il tratto caratteristico del
sistema
9
.
La provincia era definita un “corpo morale” (art.152). Era costituita da un
consiglio provinciale (elettivo, il numero dei consiglieri cambia secondo le
dimensioni) e da una deputazione provinciale, “composta dal prefetto che la
convoca e la presiede e di membri eletti dal consiglio provinciale a maggioranza
assoluta di voti”.
La funzione principale di questo ente era sostanzialmente quella di dar luogo ad
una circoscrizione amministrativa uniforme per il nuovo Regno d’Italia. Le
attribuzioni delle province, indicate nell’art. 154, erano perciò assai limitate come
ente locale, ma di un certo spessore per quanto attiene il ruolo di controllo
esercitato dalla deputazione provinciale in rapporto al merito dell’attività
comunale
10
.
7
Proprio sulle spese obbligatorie, infatti, si giocherà, poi, gran parte del contenzioso per
l’affermazione dell’autonomia locale. Per un approfondimento vedi G. Melis, Le contraddizioni
del centralismo “debole”, in Storia dell’amministrazione italiana 1861-199, cit., pp.75 e ss.
8
La l. 14 giugno 1874, n. 1961, oltre ad assegnare allo Stato la quota di imposta dei fabbricanti,
già assegnata alle province, aumentò il controllo dell’autorità tutoria sui comuni in materia di
spese facoltative. In generale cfr. F. Volpi, Le finanze dei comuni e delle province del Regno
d’Italia 1860-1890, Archivio economico dell’Unificazione italiana, serie II, Vol. V, Ilte, Torino,
1962.
9
Vedi R. Romanelli, Centralismo e autonomie, in Storia dello Stato italiano dall’Unità ad oggi,
pp. 126 ss.
10
Vedi G. Lombardi, L’ordinamento degli enti locali, il Sole 24 ore, Milano 2001, pp.18-20.
4
Nel sistema delle autonomie locali così delineato appare fondamentale il ruolo del
prefetto
11
. Questo, infatti, rappresentava il potere esecutivo in tutta la provincia,
provvedeva all’esecuzione delle leggi, vigilava sull’andamento delle pubbliche
amministrazioni, sovrintendeva alla pubblica sicurezza (col diritto di disporre
della forza pubblica e di richiedere l’intervento della forza armata).
Doveva infine garantire la piena aderenza della politica provinciale e
(indirettamente) comunale a quella centrale: a lui direttamente o alla deputazione
provinciale da lui presieduta, la legge attribuiva i principali controlli sull’attività
degli enti locali
12
. Con la l. 20 marzo 1865, n. 2248, quindi, l’Italia si presentava
dopo l’unificazione con un ordinamento comunale e provinciale sostanzialmente
plasmato sul modello francese.
Il comune e la provincia sin da allora erano i due enti locali del sistema, con la
possibilità di costituire forme associative per la gestione dei servizi comunali.
Cominciano già ad emergere alcuni tratti comuni che caratterizzeranno la storia
successiva degli enti locali:
ξ una discreta autonomia che si manifesta soprattutto nella possibilità di
eleggere i consiglieri;
ξ la previsione di spese obbligatorie che finiscono per connotare l’ente
locale come terminale periferico di politiche pubbliche;
11
Vedi S. Cassese, Il prefetto nella storia amministrativa, in Riv. Trim. dir. Pubbl., 1983, n. 4, pp.
1449 e ss.; cfr. anche Id., Centro e periferia in Italia. I grandi tornanti della loro storia, in ibidem,
1986, n. 2, pp. 594 ss.
12
Non a caso il sistema era generalmente chiamato “prefettizio”: l’amministrazione centrale
controllava un complesso di enti locali a due o tre gradi, uniformemente ordinati su tutto il
territorio, attraverso una rete di suoi organi locali che facevano capo appunto al prefetto (nome che
fu dato nel 1861 alla massima autorità governativa nella provincia). Il titolo primo della legge,
infatti, dava rilievo al ruolo del prefetto, il quale, in quanto dipendente dal Governo, diveniva il
soggetto di maggiore spessore per realizzare un tessuto ordinamentale uniforme nella fase più
delicata della nascita del Regno d’Italia. G. Melis, Le contraddizioni del centralismo “debole”, in
Storia dell’amministrazione italiana 1861-1993, cit., pp. 77 e ss.
5
ξ il “paradosso del sindaco”, rappresentante del potere locale da una parte, e
ufficiale di Governo, dall’altra
13
.
ξ esistenza dei particolarismi e delle “diversità” che rendono difficile il
progetto di un’Italia costruita “giacobinamente” dall’alto
14
.
Per quei tempi, evidentemente, si trattava di un sistema già avanzato, tenuto anche
conto della genesi storica che ha portato alla nascita del Paese
15
.
In coerenza con i tempi e con le esigenze di affrettare il processo unitario, la legge
comunale e provinciale delineò un sistema vivace ma limitato nella partecipazione
dei cittadini alla “cosa pubblica”.
In altre parole, il provvedimento in esame sembra essere affetto da una debolezza
originaria, determinata da una forte preoccupazione unitaria che non si rinviene in
altri Paesi europei. Si potrebbe parlare di una legge che rispondeva ad una logica
assolutistica al fondo “sospettosa” delle autonomie locali e che, concependo le
comunità non come soggetti autonomi originari tendeva ad affidarne il governo a
strumenti dirigistici e di accentramento
16
.
Una tale esigenza poneva, perciò, come snodo centrale di ogni possibile politica,
l’esaltazione dell’unità, l’esasperazione dell’organizzazione amministrativa
centrale e un atteggiamento prudente (se non addirittura diffidente) nei confronti
13
G. Melis, Storia dell’amministrazione italiana (1861-1993), cit., p. 78.
14
Concepita sulla carta con geometrica simmetria, all’atto pratico, la mappa delle istituzioni sul
territorio dovette tener conto dei molti particolarismi esistenti, dando luogo ad una realtà di fatto
più varia e difforme di quanto non suggerissero le norme e gli stessi assetti formali: l’ipotesi
razionalistica dell’uniformità si scontrava con l’insopprimibile presenza delle diversità. Si veda: L.
Gambi e F. Merloni (a cura di), L’irrazionale continuità del disegno geografico delle unità
politico-aministrative, in Amministrazioni pubbliche e territorio in Italia, il Mulino, Bologna,
1995, pp. 23 e ss.; C. Ghisalberti, Le Costituzioni “giacobine” (1796-1799), Milano, 1973.
15
La mancanza del suffragio universale diretto era condizione comune in Europa e non va
dimenticato che, solo pochi anni prima, quasi tutti i moti risorgimentali erano stati repressi nel
sangue da numerosi sovrani. Le stesse costituzioni erano octroyées, cioè “concesse” dal sovrano
con la riluttanza di chi non vuole cedere ad altri i propri poteri, che spesso si ritenevano spettanti
per investitura “divina”. La legge comunale e provinciale risente ovviamente di questo clima. G.
Lombardi, L’ordinamento degli enti locali, cit., p. 19; cfr. anche Storia d’Italia, op. e loc. cit., pp.
1670 e ss.
16
G. Lombardi, L’ordinamento degli enti locali, cit., pp.19-20.
6
delle autonomie locali, considerate come fattore di possibile instabilità del neo
costituito Regno.
Per tali ragioni, mentre in altri Paesi europei, l’ammodernamento della struttura
statale avveniva proprio attraverso il potenziamento dello sviluppo delle
autonomie locali, in Italia il neonato Stato nasceva indipendentemente dalle
autonomie o, addirittura, contro di esse.
Quando effettivamente, una volta rinsaldata l’unità, sarebbe stato possibile
concentrarsi sul ruolo istituzionale da attribuire alle autonomie locali, altri fattori
storici
17
favorirono l’avvento del fascismo e fecero venire meno le condizioni per
un riordino dello Stato in senso autonomistico
18
. Il regime esasperò il centralismo
statale, operò in sede locale l’affiancamento degli organi di partito agli organi
amministrativi tradizionali e tolse qualunque spazio politico al sistema delle
autonomie locali.
Nel dopoguerra l’anelito di libertà che scosse l’Europa e il conseguente
affrancamento dall’esperienza totalitaria consentì anche al nostro Paese di fissare
principi di grande rilievo in tema di autonomie locali e di ripristinare l’elezione
dei consigli comunali e provinciali
19
.
Con l’adozione della Carta costituzionale del 1948, il costituente non riservò
particolare spazio alle autonomie locali
20
. Specificatamente, degli articoli che
venivano ricompresi nel Titolo V dedicato a “Regioni, province e comuni”, la
gran parte era rivolta a definire i tratti fondamentali delle prime, mentre a comuni
17
Lo scoppio della prima guerra mondiale, l’avventura coloniale e la gestione di una rovinosa
ricostruzione post bellica.
18
In tal modo si ebbe una restaurazione autoritaria nell’ordinamento delle autonomie, al punto che
dopo la modifica elettiva per la scelta del sindaco, realizzata dallo Stato liberale, l’ordinamento
autoritario ne ripristinava la nomina governativa e introduceva pesanti forme d’ingerenza nel già
debole tessuto autonomistico.
19
D.lgs. 7 gennaio 1946, n.1.
20
Per un’analisi dettagliata dei processi storici che hanno portato all’approvazione della
Costituzione del 1948, per tutto ciò che concerne l’elaborazione e la stesura del “nuovo” testo
costituzionale si veda: F. Cuocolo, Cenni di storia costituzionale italiana, in Istituzioni di dir.
pubbl., Giuffrè, Milano, 2000, pp. 167 e ss.
7
e province facevano riferimento poche disposizioni, che tendevano, ora a stabilire
alcuni principi essenziali, accompagnati da ampi rinvii alla legge ordinaria, ora a
regolare alcuni specifici aspetti, quali la regolazione dei confini delle istituzioni di
nuovi enti, ora (e soprattutto) ad inserire comuni e province nel nuovo quadro
contrassegnato dalla presenza delle regioni, fissando i criteri di rapporto, dalla
delega di funzioni ai controlli sugli atti
21
.
L’articolo 5 della Costituzione
22
contiene, tuttavia, indicazioni in tema di
autonomie locali veramente innovative e quasi “rivoluzionarie” rispetto a quelli
che erano i canoni tradizionali della nostra scienza amministrativa
23
.
Da allora fino al 1990 non sono intervenute modifiche sostanziali all’ordinamento
comunale e provinciale, salvo talune leggi particolari che però non hanno toccato,
l’impianto generale dell’ordinamento.
Lo scorso decennio, invece, ha segnato in maniera cospicua l’evoluzione
dell’ordinamento i cui orientamenti sono stati organicamente trasferiti in un
nuovo ed importante Testo Unico: il d.lgs. 267/2000.
21
Per maggiori approfondimenti vedasi: L. Vandelli, Le autonomie locali nella Costituzione del
1948, in Il sistema delle autonomie locali, il Mulino, Bologna, Nuova ed. 2005, pp. 22 e ss.
22
Cfr. par. succ..
23
Anche per tenere conto dell’articolo 5 il Parlamento, con la l. n. 277 del 1949, modificò
l’articolo 19 del Testo Unico leggi comuni e province approvato nel 1934 per eliminare in capo ai
prefetti quell’”eccesso di discrezionalità che non sarebbe stato più conciliabile con i principi
dell’ordinamento democratico dello Stato, sanciti dalla Costituzione”(circ. min. int. 22 giugno
1949, n. 15900 D.G.A.C.).