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INTRODUZIONE
Sin dagli inizi delle proprie attività, molte aziende del settore FMCG (Fast Moving Consumer
Good), come Procter&Gamble, Henkel ed Unilever, hanno adottato una strategia di “House of
brands” nella quale, come sostengono gli autori Aaker, Kapferer e Muzellec, ogni brand del
portfolio è indipendente e non ha legami con la marca corporate. In tale prospettiva, si offrono
importanti benefici alle aziende che detengono un portfolio di marche ampio e diversificato.
Si tratta di multinazionali che commercializzano più brands all’interno della stessa categoria
merceologica e gestiscono prodotti che hanno difficoltà a differenziarsi poiché soddisfano bisogni
analoghi. Per contrastare la tendenza alla commoditisation, causata dall’incessante omologazione
dei prodotti sia sotto l’aspetto tecnologico che funzionale, è fondamentale per i brand managers far
leva sul potere della marca e adottare adeguate strategie di branding.
I managers sono attratti dal creare una nuova marca per attrarre nuovi segmenti di consumatori, ma
al tempo stesso, a causa degli alti costi, optano per la rivitalizzazione di una marca esistente nel
portfolio aziendale e nell’offrirla in una versione aggiornata, semplificata o ampliata. In tal caso, al
fine di sfruttare il valore di una marca, è necessario che i brand managers gestiscano il portfolio
aziendale in modo dinamico, rendendolo disponibile per le differenti richieste del mercato.
Nel contesto attuale si registrano dei cambiamenti nella struttura gerarchica tra corporate e product
brand che producono degli effetti significativi sull’immagine di alcuni prodotti e sulla natura dei
corporate brands; negli ultimi anni sono sempre più frequenti i casi di aziende operanti nel settore
FMCG, da sempre identificate come delle “House of brands”, che attuano strategie di corporate
branding finalizzate a far emergere l’identità aziendale.
Ultimamente si riscontrano strategie di corporate branding che sfruttano la forza dei product brands
per trasferirne le relative associazioni al corporate brand; i valori, le caratteristiche, il livello di
qualità associati ai product brands da parte del consumatore sono tutti elementi che potrebbero
essere trasferiti al corporate brand nel momento in cui viene riconosciuto il loro legame. Questa
trasferibilità di associazioni in senso verticale, dai product brands verso il corporate brand, è un
tema molto attuale e per ora sono pochi gli studi a riguardo.
Proprio per questo, il presente lavoro vuole indagare gli effetti del passaggio di P&G dall’adozione
di una strategia “house of brands” a una “branded house” grazie alla sua ultima campagna di
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comunicazione corporate; lo scopo della presente ricerca empirica è individuare se e fino a che
punto esiste un livello d’influenza tra il valore dei singoli product brands e quello di P&G e se
quest’influenza dipende dal numero di marche di prodotto e dal fit di categoria percepito. Il valore
dei brands è stato valutato in termini di Customer Brand Based Equity (CBBE) mediante l’utilizzo
del modello della Piramide CBBE di K. L. Keller, composta da 6 blocchi: prominenza,
performance, immagine, giudizi, sensazioni, risonanza. Per analizzare in quale modo la struttura
delle conoscenze dei consumatori relative ai valori e agli attributi associati al corporate brand può
subire dei cambiamenti in seguito ad attività che lo vedono protagonista, si utilizzano due differenti
prospettive teoriche: bookkeeping e subtyping. Tali approcci aiutano a capire fino a che punto può
verificarsi un’influenza dei product brands sul corporate brand; infatti, se quest’influenza è forte, è
probabile che il soggetto, qualora riconoscesse un legame intenso tra corporate brand e determinati
product brands, segua il processo di Bookkeeping mediante il quale il valore attribuito a P&G
risente delle opinioni e del valore attribuito a ciascuno dei brand ad esso legati. Per contro, questa
crescita incrementale del valore di P&G si ipotizza che possa arrestarsi nel momento in cui i
soggetti riconoscono troppi legami, favorendo un processo di Subtyping, nel quale l’idea di P&G
non si ancora ai product brands perché nei soggetti si crea confusione sui troppi legami, o magari
percepiscono un’incoerenza tra le categorie. Infine, vengono analizzati se e quali effetti di spillover
si ripercuotono sui product brands, quindi se il trasferimento di associazioni comporta una
diluizione della loro immagine o il depauperamento del loro valore.
Considerando ogni singola sezione del presente lavoro, si ricorda che il primo capitolo passa in
rassegna i differenti studi presenti in letteratura attraverso cui è stato possibile inquadrare il concetto
di brand e il suo valore (“brand equity”), oltre che i vantaggi per le aziende che lo sfruttano o per i
consumatori che lo riconoscono. Inoltre, si considerano quegli studi che permettono d’individuare
l’architettura di un portfolio di marche e le sue evoluzioni, dato che oggigiorno è una realtà comune
che quasi tutte le aziende non gestiscano più un solo brand. Infine, si presentano i più recenti lavori
relativi al tema del corporate branding, oltre che le strategie e le attività che fanno leva sulla marca
corporate. Questo capitolo aiuterà il lettore a comprendere molti concetti e termini che verranno
utilizzati nei capitoli successivi.
Nella seconda parte si fa luce sul modello teorico della piramide di Keller alla base del presente
studio empirico, la quale permette di analizzare il valore dei brands in termini di CBBE, nonché
sulle prospettive teoriche di Bookkeeping e Subtyping utili ad analizzare i cambiamenti delle
conoscenze dei consumatori e, infine, sul concetto della coerenza di categoria percepita. Inoltre, si
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presentano le considerazioni alla base delle ipotesi di ricerca del presente studio empirico che si
colloca nel filone di ricerca passato in rassegna del capitolo precedente.
Il terzo capitolo è costituito dall’analisi del settore FMCG e dell’azienda Procter&Gamble nel
mercato italiano al fine di ottenere un quadro della stessa e dei suoi cambiamenti nelle strategie di
branding. Queste informazioni sono fondamentali per svolgere la ricerca, della quale viene illustrato
il metodo utilizzato che comprende un’analisi preliminare volta a verificare la fattibilità dello studio
e la successiva analisi empirica.
Il capitolo quarto presenta dettagliatamente l’interpretazione dei risultati ottenuti dall’analisi dei
dati raccolti sia dell’analisi preliminare che centrale, suddivisi in base alle ipotesi avanzate.
Il quinto ed ultimo capitolo illustra le implicazioni manageriali dello studio e le sue limitazioni,
oltre che le linee future di ricerca.
Infine, la conclusione è seguita da un appendice in cui sono riportati i questionari somministrati
nell’analisi preliminare e in quella centrale, oltre che le tabelle di output ottenute dall’elaborazione
dei dati mediante il software di analisi statistica SPSS Statistics 17.0.
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- CAPITOLO I -
QUADRO TEORICO DI RIFERIMENTO
Il presente capitolo ha l’intento di fare un excursus sugli studi presi in esame
per tale lavoro, i quali hanno permesso d’individuare un quadro di
riferimento per il tema del brand e delle strategie di corporate branding.
Nonostante l’attualità del tema, sono molti gli autori che dagli anni ’90 si
sono interessati e hanno sviluppato i propri lavori in tale ambito.
1. Il brand
Il concetto di brand non è facilmente sintetizzabile in un’unica definizione a causa della
sua multidimensionalità.
Nel corso degli anni, diversi autori hanno studiato differenti aspetti della marca, lasciando
in eredità svariate definizioni dello stesso.
Prima di tutto, è fondamentale distinguere i concetti di marchio e marca. Il primo termine
è riconducibile all’insieme degli elementi connotativi, siano essi testuali, visuali o sonori,
che compongono una marca e ne costituiscono l’entità legale, disciplinata dagli articoli da
7 a 28 del Codice della Proprietà Industriale (decreto legislativo n.30 del 10 febbraio
2005). Marrone
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ci ricorda come il marchio indica un segno, sia esso un logo o un nome,
indelebile di riconoscimento che permette di indicarne la provenienza o la proprietà di
modo che, qualora la ditta sia grande e rinominata, ne venga fuori una marca. Quest’ultima
esprime un concetto molto più ampio, di cui il marchio ne rappresenta solo una parte, che
spesso lo si trova tradotto col termine inglese brand.
Le pratiche di branding sono molto remote, come le prime apposizioni di marchi sugli
animali o sulle ceramiche greche per dichiararne l’origine e la proprietà, ma nel
diciannovesimo secolo, grazie allo sviluppo industriale, alla produzione in serie e allo
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G. Marrone, Il discorso di marca, modelli semiotici per il branding, terza edizione, Editori Laterza, Roma,
2007
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sviluppo di tecniche di pubblicità e di marketing, la diffusione di marche commerciali
prende piede.
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Nel 1960, l’American Marketing Association (AMA) riconosce il brand come:
“la marca è un nome, un termine, un segno, un simbolo o qualunque altra
caratteristica che ha lo scopo di far identificare i beni o i servizi di un venditore
e di distinguerli da quelli della concorrenza”.
Questa prima definizione risulta essere l’incipit dalle quali le successive prederanno
spunto, le quali si distinguono per una maggiore precisione concettuale.
Il primo filone di studi si concentra maggiormente sulla funzione primaria che accompagna
la marca: è lo strumento che da sempre ha permesso ai produttori di distinguere le proprie
merci da quelle degli altri, quindi renderle riconoscibili agli occhi dei consumatori, al fine
di accompagnare le loro scelte. Lo studioso Kotler
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riprende quanto affermato dall’AMA e
vede il brand come
“… un nome, termine, segno, simbolo o disegno o combinazione di essi che
viene usato per identificare i prodotti o servizi di un venditore o gruppo di
venditori e per differenziarli da quelli dei loro concorrenti.”
Aaker
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sostiene che la marca
“… è un set di attività, o passività, collegate ad un segno distintivo (marchio,
nome, logo) che si aggiungono (o sottraggono) al valore generato da un
prodotto o servizio.”
La marca viene riconosciuta come l’espressione di un insieme di valori la cui
combinazione, grazie anche alle impressioni nate sul prodotto o servizio che li
differenziano da quelli della concorrenza, è in grado di motivare la scelta d’acquisto del
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T. Blacket, What is a Brand? Brands and Brandings, Profile Books, London, 2003, pag.14
3
P. Kotler e W.G. Scott, Marketing Management, Prentice-Hall international (Englewood Cliff, N.J.), 1991
4
D.A. Aaker,Brand equity, la gestione del valore della marca ,Franco Angeli , Milano, 2002
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consumatore. Le componenti di un brand, ossia il nome, il termine, il segno, il simbolo, lo
slogan o il packaging sono conosciute come “brand identities” proprio perché si tratta di
quegli elementi visivi o verbali che conferiscono identità al brand e permettono di
identificarlo.
Originariamente, le marche sono state viste come degli elementi che permettono la
differenzazione di un prodotto, ma con il passare degli anni alcuni studiosi come Keller
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estendono questa capacità anche a beneficio dei servizi, delle organizzazioni, degli sports,
delle arti, delle idee, delle persone e dei luoghi; tutti sono un possibile oggetto di attività di
branding. Questa estensione è in linea con gli studi che si concentrano sul valore aggiunto
di un prodotto di marca, il quale porta un soggetto a preferire un brand piuttosto che un
altro, seppure entrambi presentino delle caratteristiche simili e soddisfino gli stessi bisogni.
Kapferer sottolinea la centralità del consumatore, affermando che il brand comunica
significati e definisce l’immagine, le quali sono sì ideate e pensate dai managers, ma
risiedono nella mente del consumatore: è questo il luogo in cui il tangibile e l’intangibile
s’incontrano e si sviluppano le associazioni alla base del valore aggiunto della marca,
basato su dimensioni razionali e tangibili (relative alla funzione d’uso, alla performance
del prodotto), o simboliche, emotive e intangibili (connesse a ciò che la marca
rappresenta)
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Anche De Chernatony e McDonald riconoscono un ruolo importante alla figura
dell’acquirente e a tutti gli elementi unici del brand che sono in grado di soddisfare i suoi
bisogni e di creare valore, nonché le sue soddisfazioni derivanti dall’acquisto o l’utilizzo
dei prodotti da cui dipendono le sue percezioni e riflettono le associazioni che essi
attribuiscono al brand
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. A tal riguardo, sono molteplici gli studi che si sono soffermati sul
concetto e la struttura della “brand knowledge” poiché l’attività di branding crea strutture
mentali che facilitano la categorizzazione delle conoscenze sui prodotti e servizi.
L’organizzazione di tali strutture mentali è capace di influenzare ciò che arriva nella mente
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J. Motion, S. Leitch, R. J. Brodie, Equity in corporate co-branding: The case of adidas and the All Blacks,
European Journal of Marketing, Vol. 37 (7), pp. 1080 – 1094, Dicembre 200
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G. S. Wiedemann, To Reinforce a Branding Message, Total Communications Coordination is a Must,
presentation to the Direct Marketing Association, Ottobre 1999.
7
Vasquez, Rodolfo, A. Belen Del Rio eV. Iglesias, Consumer-Based Brand Equity: Development and
Validation of a Measurement Instrument, Journal of Marketing Management, Vol. 18 (1/2), pp. 27-48, 2002.