4
CAPITOLO 1
Evoluzione economica in America Latina e in Cina
1.1. Introduzione
L’America Latina e Caraibica, alla quale da ora innanzi ci si riferirà - per comodità
- con il termine di America Latina, è composta una pluralità di Stati indipendenti
3
.
I dati forniti dalla Banca Mondiale rivelano che attualmente la regione si estende
su un’area di circa 21.7 milioni di chilometri quadrati, presenta una popolazione
di 525.2 milioni di persone e un PIL di 4.76 trilioni di dollari; inoltre, il tasso di
crescita atteso per il 2016 è pari a 0.8%. La Cina – ufficialmente Repubblica
Popolare Cinese – avente una superficie di 9.71 milioni di chilometri quadrati e
una popolazione di 1.36 miliardi di persone, è lo Stato più esteso a livello globale.
Il suo PIL è pari a 10.36 trilioni di dollari, mentre il tasso di crescita atteso per il
2016 si attesta intorno al 6.9%.
I due attori, protagonisti di tale elaborato, a partire dagli anni Novanta hanno dato
vita a quello che gli studiosi Gastón Fornés e Alan Butt-Philip hanno definito un
«Asse di mercati emergenti
4
» (Fornés e Butt-Philip 2012), le cui caratteristiche e
implicazioni verranno esaminate nei capitoli successivi. In questo capitolo,
puramente descrittivo, verranno ripercorse le principali tappe che hanno
caratterizzato l’evoluzione politico-economica dell’America Latina e della Cina,
per meglio comprendere i fattori endogeni che hanno consentito a due attori tanto
diversi di sviluppare una partnership commerciale senza eguali nel mondo
contemporaneo. A incentivare tale processo sono state la propensione dei paesi
3
In ordine alfabetico: Antigua e Barbuda, Argentina, Bahamas, Barbados, Belize, Brasile, Cile,
Colombia, Costa Rica, Cuba, Dominica, Ecuador, El Salvador, Giamaica, Grenada, Guatemala,
Guyana francese, Haiti, Honduras, Messico, Nicaragua, Paraguay, Perù, Porto Rico, Repubblica
Dominicana, Repubblica di Panamá, Saint Kitts e Nevis, Santa Lucia, Saint Vincent e Grenadine,
Stato Plurinazionale della Bolivia, Trinidad e Tobago, Uruguay, Venezuela (Wikipedia).
4
Il termine mercati emergenti, coniato da Antoine van Agtmael, economista della World Bank, si
riferisce a quei mercati che presentano un reddito medio pro-capite inferiore alla media mondiale
e ritmi di crescita più elevati rispetto ai paesi occidentali (Fornes e Butt-Philip 2012, 6).
5
latinoamericani a proiettare i propri commerci al di fuori dei confini regionali,
nonché l’ampia disponibilità di materie prime di cui essi godono. Risorse delle
quali la Cina è diventata il principale importatore allorché, in seguito alla fase
riformista degli anni Ottanta, ha iniziato a integrarsi all’economia globale,
trasformandosi nella cosiddetta «fabbrica del mondo». Attualmente, entrambi gli
attori attraversano una fase di decrescita economica, sebbene il caso
latinoamericano sia decisamente più preoccupante. In effetti, a causa della
diminuzione del pur sempre elevato PIL cinese, cui ha fatto seguito una riduzione
della domanda di materie prime e dunque una drastica svalutazione dei rispettivi
prezzi, i paesi latinoamericani hanno iniziato a sperimentare una riduzione del
proprio tasso di crescita. Ciò comprova, da un lato, la propensione dei paesi
dell’America Latina e Caraibica a ricorrere alle esportazioni quali principale fonte
di crescita, dall’altro la forte interconnessione esistente tra i due attori.
1.2. Dal modello primario-esportatore alla nascita di economie globali
Analizzare l’evoluzione economica dell’America Latina è fondamentale per
comprendere la natura dei fattori esogeni che hanno determinato la nascita di una
solida partnership commerciale con il Dragone cinese. I paesi dell’America Latina
svilupparono la propensione a specializzarsi in funzione della domanda estera sin
dall’epoca coloniale, in particolar modo a partire dal XVIII secolo. All’epoca,
infatti, le monarchie iberiche introdussero riforme commerciali che relegavano le
unità amministrative sudamericane al ruolo di mere fornitrici di materie prime,
nonché consumatrici delle proprie merci. Nel XIX secolo le colonie sudamericane
conseguirono l’indipendenza e vi si affermò il cosiddetto modello «primario-
esportatore», in virtù del quale l’America Latina si sarebbe specializzata
nell’esportazione di materie prime (minerali per l’industria e agricole per il
sostentamento della popolazione) verso l’Europa, e avrebbe importato manufatti
dal Vecchio Continente. Tale modello, se da un lato consentì ai paesi sudamericani
di sperimentare una fase di impetuosa crescita economica, dall’altro li indusse a
specializzarsi nella produzione dei beni richiesti dal mercato globale, e dunque a
6
far dipendere la stabilità delle proprie economie dall’andamento dei loro prezzi sui
mercati mondiali. Pertanto, a partire dalla prima guerra mondiale, allorché molte
economie della regione si trovarono di colpo private degli sbocchi sicuri per i
propri prodotti e dei beni lavorati che erano solite importare, tale modello iniziò a
vacillare. Tuttavia fu il crollo della borsa di Wall Street del 1929 a sancirne il
definitivo fallimento, provocando il collasso dei prezzi delle materie prime, evento
al quale molti governi reagirono ricorrendo a misure protezionistiche, mentre si
dava l’avvio al processo di industrializzazione (Zanatta 2010, 20-125).
Tra gli anni Quaranta e Cinquanta fu l’economista Raúl Prebisch
5
a proporre
un’alternativa plausibile al modello primario-esportatore. Difatti, egli gettò le basi
concettuali della «teoria della dipendenza», in base alla quale si riteneva che i paesi
del Terzo Mondo fossero soggiogati dai paesi del Primo Mondo, divenendone meri
fornitori di materie prime per alimentarne lo sviluppo dell’industria manifatturiera,
secondo uno schema «centro-periferia» (Ferraro 2008, 58-64). Prebisch suggerì
una misura protezionistica tesa a sostituire le importazioni con prodotti interni,
gettando le basi del modello «Industrializzazione per sostituzione delle
importazioni» (ISI), le cui conseguenze furono disastrose. In effetti, l’industria
non divenne il settore trainante in nessuno paese, dato che contribuiva per poco
più del 20% solo in quelli più avanzati (Argentina, Brasile, Cile e Messico) e in
misura estremamente minore altrove, ma neppure tese a concentrarsi in settori a
più alto valore aggiunto e innovazione tecnologica. Pertanto, l’applicazione del
modello ISI ebbe conseguenze diametralmente opposte rispetto a quelle auspicate,
dato che incentivò ulteriormente la dipendenza dei paesi latinoamericani dalle
potenze economiche più avanzate. Pertanto, fino agli anni Sessanta la crescita
economica in America Latina fu molto flebile, il che determinò il tramonto del
modello ISI, e il passaggio, negli anni Settanta, a un modello liberista, imperniato
sulla libertà del commercio internazionale. In più, in questa fase avvenne un
ulteriore processo fondamentale, le cui conseguenze di lungo periodo ebbero un
forte impatto sulla stabilità economica del subcontinente americano. In effetti,
5
«San Miguel de Tucumán 1901 - Santiago 1986. Formatosi all’Università di Buenos Aires, vi
insegnò fino al 1948. Nel 1935 contribuì a fondare e diresse (fino al 1943) la Banca Centrale della
Repubblica Argentina» (Dizionario di Economia e Finanza Treccani online). Nel 1950 assunse
anche la guida della Commissione Economica per l’America Latina delle Nazioni Unite (Dosman
2012, 11).
7
negli anni Settanta le banche statunitensi ed europee, avendo a disposizione molta
liquidità, concessero abbondanti prestiti ad alcune economie in via di sviluppo, tra
le quali figuravano i più grandi e industrializzati paesi dell’America Latina, che
poterono in tal modo finanziare il proprio sviluppo. Tali ingenti risorse
consentirono agli stati latinoamericani di intraprendere un percorso di crescita
economica, che si arrestò negli anni Ottanta, definiti non a caso la «decade
perduta», in quanto dominata da stagnazione e inflazione. A trascinare nel baratro
le economie le economie latinoamericane, furono tuttavia la crisi messicana “della
tequila” del 1982 – che esplose poiché il governo ricorse alla svalutazione della
moneta per saldare il debito estero – e la crisi argentina “del tango”, la quale sfociò
nell’iperinflazione che imperversò nel paese facendo sentire la propria eco anche
in Brasile, Perù, Bolivia e Nicaragua. Alla base di tali crisi vi erano fattori esogeni
quali la stagnazione economica mondiale, la conseguente riduzione drastica degli
investimenti diretti esteri e dei crediti che prima d’allora erano confluiti nella
regione, nonché l’impennata dei tassi di interesse, che trasformò il debito estero in
un onere estremamente gravoso per le già fragili economie latinoamericane.
Tuttavia queste crisi dimostrarono anche l’obsolescenza del modello dirigista e
rivolto al mercato interno, che rendeva la struttura produttiva latinoamericana
incapace di far fronte alle sfide poste da un mercato sempre più aperto. Dunque,
fu proprio a partire da quel momento che i paesi latinoamericani, afflitti da enormi
deficit, spesso sul punto di innescare temibili spirali inflazionistiche e indeboliti
dal gravoso debito estero, avvertirono la necessità di aprirsi all’economia
mondiale e diventare più competitivi. In effetti, furono negoziati piani di
aggiustamento strutturale con il Fondo Monetario Internazionale, i quali
annunciavano tagli alla spesa pubblica per riportare in equilibrio i bilanci pubblici,
politiche monetarie restrittive per contenere l’inflazione e svalutazioni per
stimolare le esportazioni.
Negli anni Novanta il modello liberista si diffuse a macchia d’olio in tutto il
subcontinente americano, dove furono introdotte riforme strutturali con l’obiettivo
di garantire che le economie potessero diventare più competitive ed equilibrate dal
punto di vista macroeconomico. In effetti, numerose imprese pubbliche furono
privatizzate, fu liberalizzato un numero crescente di settori, furono eliminate
alcune barriere d’ostacolo ai commerci, incoraggiando, altresì, l’afflusso di
8
capitali esteri, mentre l’inflazione fu ricondotta a livelli più bassi rispetto ai
decenni precedenti. Tali riforme ebbero un impatto positivo sulle economie
latinoamericane, le quali sperimentarono una crescita media annua dell’1.6%,
benché vi fossero evidenti differenze tra i singoli paesi: in effetti, Cile, Perù,
Argentina crebbero a ritmi molto più rapidi rispetto a Venezuela, Ecuador e
Paraguay. Tuttavia, in generale, tali riforme ebbero il pregio di favorire la
creazione delle condizioni necessarie affinché le economie latinoamericane
potessero ulteriormente integrarsi alla fitta rete del commercio mondiale.
Tuttavia, l’entusiasmo venne meno a causa della depressione che dilagò
rapidamente in tutta l’America Latina nella seconda metà degli anni Novanta,
dopo che gli organismi finanziari internazionali furono costretti ad assistere il
Messico nel 1994 e il Brasile nel 1998 per scongiurarne il crollo finanziario
(Zanatta 2010, 126-215). L’apice della crisi lo si raggiunse a partire dal dicembre
del 2001, allorché il governo di Buenos Aires cessò di onorare il debito estero,
ridusse la possibilità di effettuare prelievi sui depositi bancari e abbandonò il
sistema di currency board che ancorava il peso argentino al dollaro statunitense.
Tali circostanze nefaste furono determinate da una serie di fattori, i quali ebbero
l’effetto di determinare una brusca riduzione del tasso di crescita argentino, che
per tre anni si attestò su valori negativi. In primo luogo, la crisi finanziaria asiatica,
la quale sancì una drastica riduzione dei prezzi dei prodotti esportati
dall’Argentina; in secondo luogo, la rivalutazione del dollaro, cha causò una
perdita di competitività delle merci argentine; in fine, il crollo della valuta
brasiliana, che provocò una netta diminuzione delle entrate provenienti dalle
esportazioni. Tuttavia, i mercati finanziari non registrarono particolari turbamenti
fino al 2001, allorché l’incertezza circa le effettive capacità del governo argentino
di onorare il crescente debito estero e la stabilità della contrazione economica,
provocarono un brusco incremento dei rendimenti sui titoli di Stato argentini. La
situazione precipitò allorché «l’incertezza si estese alla durabilità dell’ancoraggio
della moneta e alla capacità del sistema finanziario di ripianare le passività in
dollari, sostenute in misura significativa dalle attività in pesos, compreso il debito
pubblico» (Ramon 2002, 1, traduzione dell’autore). In risposta al massiccio ritiro
di depositi bancari che ne conseguì, nel dicembre 2001, il governo di Buenos Aires
sospese il pagamento del debito estero e attuò una misura nota come “corralito”,
9
la quale prevede delle restrizioni in merito alla possibilità di prelevare contanti sui
depositi bancari. In aggiunta, nel gennaio del 2002, fu abbandonato anche
l’ancoraggio al dollaro statunitense. Data la persistente incertezza finanziaria, nel
corso del 2001, in Argentina i tassi di interesse continuarono a incrementare e il
deprezzamento del peso rispetto al dollaro ha raggiunto un valore pari al 356%
(ibidem).
Le conseguenze della crisi argentina ebbero ripercussioni negative in tutta
l’America Latina, sebbene, a partire dal 2002, l’economia regionale iniziò a
intraprendere un virtuoso percorso di crescita costante a tassi medi di circa il 6%
annuo, perlomeno fino al 2008. Complice anche la riduzione del tasso
d’inflazione, in questa fase la regione registrò una forte affluenza di capitali
stranieri, il che consentì ai paesi di sgravarsi del peso del debito estero, accumulare
riserve internazionali e risparmiare e fare, pertanto, tornare in attivo le bilance dei
pagamenti (Zanatta 2010, 126-250). In più, in questa fase la regione iniziò anche
a forgiare partnership commerciali e finanziarie con i paesi asiatici, in primis la
Cina, che ne plasmeranno profondamente il destino dal punto di vista economico,
come si osserverà nel capitolo successivo.
1.3. Il rallentamento della crescita economica in America Latina: quali
soluzioni?
Come osservato nel paragrafo precedente, nel corso dell’ultimo ventennio in
America Latina hanno avuto luogo una serie di mutamenti radicali a livello
politico, macroeconomico e sociale, i cui risultati sono stati favorevoli in termini
di sviluppo e modernizzazione. A dimostrazione di ciò concorrono una serie di
fattori: innanzitutto, gli indicatori demografici e relativi al capitale umano sono
migliorati sensibilmente, considerando il fatto che la popolazione della regione si
presenta giovane e che il tasso di disoccupazione è diminuito. La crescita
economica ha alimentato anche un’espansione della classe media
6
, i cui membri
6
Alla quale, secondo la Banca Mondiale, appartengono gli individui che hanno a disposizione 10-
50 dollari al giorno per il proprio sostentamento (BM 2015b).
10
sono aumentati del 50% tra il 2003 – allorché erano pari a circa 103 milioni – e il
2009, quando hanno raggiunto i 152 milioni. Sebbene, a fronte della crescita della
classe media brasiliana (dal 39% al 50% tra il 2002 e il 2009), il Messico, la
seconda economia della regione, abbia registrato un incremento limitato (dal 35 al
39% tra il 2002 e il 2011). Ad ogni modo, nel 2011 è stato conseguito un risultato
sorprendente, poiché per la prima volta nella storia dell’America Latina il numero
di indigenti è stato surclassato dalla quantità di individui appartenenti alla classe
media. Le proiezioni mostrano che tale tendenza e le relative conseguenze –
l’aumento del potere d’acquisto e la propensione dei consumatori ad acquistare
beni e servizi più sofisticati e più alto valore aggiunto – sono destinati a durare nel
corso del tempo (Credit Suisse 2014, 22-26). Tuttavia, sebbene la classe media
rappresenti il 34% della popolazione complessiva della regione, vi è un 38%
rappresentato dagli individui che hanno abbandonato la condizione di povertà
assoluta
7
, i quali restano esposti al pericolo di ricadere in tale condizione.
Tra i tanti obiettivi conseguiti nel XXI secolo, vanno comunque, annoverati anche
quelli inerenti gli aspetti ambientali, politici ed economici. Effettivamente,
l’America Latina è divenuta «una vetrina mondiale per alcune delle pratiche
ecologiche più innovative. […] La regione presenta la minore matrice energetica
ad alta intensità di carbonio a livello mondiale, pari al 6% delle emissioni di gas
serra» (BM 2015b, traduzione dell’autore). Dal punto di vista politico, si è
registrata una maggiore stabilità, mentre per quanto concerne gli aspetti
economico-finanziari, i governi si sono dimostrati capaci di contenere l’inflazione
in misura maggiore rispetto ai decenni precedenti e a proteggersi dai fattori esterni
di instabilità. In effetti, a differenza di quanto accaduto negli anni Novanta, nella
regione non hanno avuto luogo episodi di crisi e neppure la recessione globale del
2007-2010 ha provocato effetti particolarmente critici in capo alle economie
latinoamericane. Dunque, vi è stata una netta svolta rispetto al passato, quando le
problematiche economiche mondiali esercitavano un impatto estremamente
deleterio sulla stabilità economico-finanziaria dei fragili paesi latinoamericani. In
più, la maggior parte di essi sta tentando di risolvere il problema relativo
all’eccessiva dipendenza dalle materie prime, che li ha storicamente resi
7
Condizione propria, secondo la Banca Mondiale, degli individui che hanno a disposizione 4-10
dollari al giorno per il proprio sostentamento (BM 2015b).