6
Particolare attenzione è data agli aspetti territoriali dell’innovazione,
osservando la distribuzione sull’intero territorio nazionale dell’attività
innovativa e comparando la performance tecnologica dell’Italia con quella
degli altri paesi industrializzati.
Il capitolo I presenta una panoramica sul problema della localizzazione
geografica delle attività innovative e cerca di spiegare perché le variabili
territoriali rappresentano elementi centrali ed importanti negli studi di
economia regionale.
Si è cercato di chiarire se le innovazioni industriali possano essere
considerate come meri fenomeni casuali nello spazio, oppure come il risultato
di una tendenza alla concentrazione in determinate aree. A tale proposito
vengono esposte le principali teorie spaziali del mutamento tecnologico,
distinguendo due filoni concettuali che, rispettivamente, pongono al centro
dell’analisi i fenomeni di agglomerazione e di diffusione geografica
dell’attività innovativa.
Il primo filone di studi spiega il processo di generazione delle
innovazioni tecnologiche e tenta di chiarire le ragioni principali che possono
dar luogo a fenomeni di concentrazione territoriale.
Il secondo filone, invece, formula spiegazioni teoriche dei fattori che
stanno alla base del superiore potenziale innovativo di certe regioni o aree
geografiche; concentra, inoltre, la sua attenzione sulle modalità e la velocità
con cui una nuova tecnologia si diffonde nel tempo e nello spazio.
7
Nell’ultima parte del capitolo si descrivono le «relazioni di prossimità»,
ossia i forti legami relazionali che si sviluppano tra gli agenti economici nei
cosiddetti «sistemi localizzati d’innovazione». Si discute, infine, del ruolo
delle esternalità di conoscenza – come fattore che favorisce la vicinanza
spaziale delle imprese – e delle varie forme di apprendimento nel processo
d’innovazione.
Il capitolo II fornisce una descrizione dettagliata del sistema innovativo
italiano. Si cerca, inizialmente, di dare una spiegazione del paradosso dello
«sviluppo non tecnologico» che ha caratterizzato gli ultimi cinquant’anni di
storia del nostro paese.
Per comprendere appieno le specificità del “modello Italia” a livello di
innovazione e diffusione della tecnologia sono stati presi in considerazione i
principali aspetti storici e strutturali della industrializzazione italiana. In
particolare si è parlato del processo di catching up tecnologico che è consistito
- durante gli anni del miracolo economico - nell’acquisizione agevole di
tecnologie già ampiamente sviluppate nei paesi leader ed incorporate in beni
di investimento.
Il dibattito si è poi soffermato sul carattere duale dell’economia italiana.
L’esistenza di fenomeni di dualismo di tipo regionale, dimensionale e
settoriale, ha svolto un ruolo di freno ad un rapido processo di sviluppo
tecnologico.
L’analisi dei dati statistici sull’innovazione ha portato ad individuare
due componenti nel «sistema innovativo» italiano, profondamente differenti in
8
termini di capacità tecnologica, organizzazione e performance economica. La
prima è rappresentata da un’ampia popolazione di piccole e medie imprese
che operano nei settori tradizionali (tessile, abbigliamento, calzature e
mobilio), nella meccanica strumentale e nei settori che forniscono beni
capitali. La seconda componente, invece, comprende diversi attori (grandi
imprese, università, istituti pubblici di ricerca, ecc.) che svolgono attività di
ricerca e sviluppo (R&S) su larga scala.
Dalle numerose indagini sulla ricerca scientifica e tecnologica è emersa
l’esistenza di una relazione positiva tra la dimensione d’impresa e la
propensione ad innovare; ciò nonostante è stato notato un progressivo
aumento – nel corso degli anni novanta – del contributo delle piccole e medie
imprese al potenziale innovativo nazionale.
Analizzando la distribuzione settoriale dell’attività innovativa si evince
il peculiare profilo dell’industria manifatturiera italiana, caratterizzata da
un’accentuata specializzazione nei settori a media e bassa tecnologia.
L’analisi della distribuzione territoriale, inoltre, ha mostrato l’elevato grado di
pluralismo tecnologico esistente nel nostro paese: le venti regioni che
costituiscono il sistema regionale italiano, si è visto, sono profondamente
diverse in termini di capacità scientifica e tecnologica.
Dalla lettura dei dati «regionalizzati», si è riscontrato un accentuato
grado di polarizzazione geografica del fenomeno innovativo, con una forte
sperequazione territoriale tra il Nord e il Sud dell’Italia. Le regioni
settentrionali rappresentano il motore dei vantaggi tecnologici italiani; al
9
contrario, le regioni meridionali hanno una capacità autonoma di generare
innovazioni molto limitata.
Nella parte conclusiva del capitolo, infine, si sottolinea come la
principale causa di questo squilibrio territoriale, sia stata l’assenza di una
politica industriale incisiva, volta a favorire la diffusione delle attività
innovative dalle aree più sviluppate del paese a quelle marginali e depresse.
Nel III capitolo la trattazione assume una connotazione più ampia, nel
senso che si allarga l’orizzonte territoriale di riferimento per osservare il grado
d’innovatività dell’Italia nel contesto internazionale. A tal fine, per misurare la
performance tecnologica dei paesi si utilizzano tre indicatori: l’intensità
relativa delle spese per ricerca e sviluppo (R&S/Pil), i brevetti ed il
commercio internazionale di prodotti ad alta tecnologia.
Confrontando i dati dei vari paesi, relativi ai livelli di spesa per R&S in
percentuale del prodotto interno lordo, si è visto che i valori dell’Italia sono
inferiori a quelli osservati nei maggiori paesi OCSE.
Conferme del ritardo si ricavano anche dalle analisi dei brevetti e del
commercio mondiale dei prodotti high-tech, che rilevano la tendenza per
l’Italia ad accentuare la specializzazione nei settori caratterizzati da tecnologie
mature, in cui era già largamente presente all’inizio degli anni settanta.
Per spiegare le ragioni della diversità tecnologica tra i paesi si
espongono le due teorie principali che hanno acceso un ampio dibattito nella
letteratura: quella neoclassica e quella schumpeteriana.
10
Successivamente si discute sul ruolo delle politiche pubbliche di
sostegno all’innovazione. Per quanto riguarda l’Italia, si pone l’attenzione sul
ruolo dei parchi scientifici e tecnologici come motore di sviluppo locale e si
analizza il Programma Nazionale della Ricerca relativo al periodo 2001-2003.
A livello comunitario, infine, si prendono in considerazione i Programmi
Quadro della Comunità Europea a favore dello sviluppo e della diffusione
delle capacità innovative.
11
CAP. I
LA DISTRIBUZIONE TERRITORIALE
DELL’INNOVAZIONE TECNOLOGICA
1.1 La dimensione geografica dell’attività innovativa
Il problema della localizzazione geografica delle attività innovative ha
ricevuto, a partire dagli anni ottanta, molta attenzione da parte degli
economisti regionali col fiorire di studi su temi che vanno dall’ambiente
innovativo ai distretti industriali e tecnologici, ai parchi scientifici e, più
in generale, ai sistemi locali di innovazione e produzione.
Ancor più di recente, inoltre, “molti lavori condotti nello spirito
della cosiddetta geografia economica hanno cominciato ad esplorare
l’aspetto geografico delle esternalità di conoscenza (knowledge
spillovers)
1
e le relazioni localizzate fra ricerca universitaria, ricerca
privata e localizzazione di imprese innovative, sottolineando il ruolo
fondamentale che la prossimità geografica fra attori svolge nel mediare i
processi di produzione, trasmissione ed appropriabilità della conoscenza
tecnologica”
2
.
La recente letteratura sulla dimensione geografica dell’innovazione
tecnologica ha tentato di fornire una risposta al seguente interrogativo: è
1
Cfr. il paragrafo 1.5 del presente capitolo.
2
BRESCHI S., “La geografia delle innovazioni tecnologiche”, in MALERBA F., Economia
dell’innovazione, Carocci, Roma, 2000, pp. 343-372
12
sufficiente considerare le innovazioni industriali come meri fenomeni
casuali nello spazio, oppure esiste una tendenza per le attività
tecnologiche a concentrarsi in determinate aree geografiche? E, in
quest’ultimo caso, quali fattori specifici possono contribuire a spiegare
particolari modelli spaziali di attività innovativa?
3
Una prima risposta a tale quesito ci è data dall’osservazione
empirica; è stato rilevato, infatti, che “lungi dal distribuirsi in modo
casuale nello spazio geografico, la produzione di innovazioni
tecnologiche tende ad agglomerarsi in certe regioni, province o città e
nelle aree ad esse contigue. Alcune regioni o insieme di aree territoriali
evidenziano, inoltre, una capacità innovativa persistentemente superiore
a quella di altre aree geografiche e forniscono un contributo (…)
maggiore, talvolta in modo assai rilevante, rispetto al loro peso
manifatturiero, testimoniando così l’esistenza di qualche forma di
rendimenti crescenti localizzati nell’attività innovativa”
4
.
A questo punto sorge un’altra domanda: a quali fattori deve essere
attribuito il superiore potenziale innovativo in certe regioni o aree
geografiche? E ancora: quali fattori spiegano le scelte di localizzazione
delle attività di ricerca e sviluppo delle imprese e la localizzazione delle
nuove imprese innovative?
3
BRESCHI S., “La dimensione spaziale del mutamento tecnologico: una proposta interpretativa”,
in Economia e politica industriale, 1995, n. 86, pp. 179-207
4
BRESCHI S., “La geografia…”, op. cit., pp. 343-372
13
Nel tentativo di rispondere a questi interrogativi, gli economisti
regionali hanno concentrato i propri sforzi in due direzioni principali
5
.
Da un lato, hanno cercato di formulare spiegazioni teoriche coerenti dei
fattori che stanno alla base dei processi di concentrazione territoriale
delle innovazioni tecnologiche e dei differenziali nel potenziale
innovativo fra regioni ed aree geografiche. Dall’altro lato, hanno prestato
particolare attenzione alla misurazione empirica della dimensione
spaziale del fenomeno innovativo, con l’intento di fornire una verifica
delle congetture e dei modelli teorici avanzati e di evidenziare eventuali
regolarità nella distribuzione spaziale delle capacità innovative e
tecnologiche.
Prima di esporre i due approcci principali intorno ai quali si sono
concentrate le teorie spaziali del mutamento tecnologico
6
, è opportuno
precisare che, nonostante l’animato dibattito culturale avviato negli anni
’50, la teoria della diffusione spaziale dell’innovazione non ha ricevuto
molta attenzione nella letteratura tradizionale di economia regionale.
E’ soltanto a partire dagli anni ’80 - come già ricordato in precedenza -
che si assiste ad un rinnovato interesse per questa problematica.
L’elemento che ha limitato uno sviluppo più persuasivo di questo filone
teorico consiste nella “oggettiva difficoltà dell’inserimento della
5
BRESCHI S., Ibidem
6
Cfr. il paragrafo 1.2 del presente capitolo.
14
dimensione «spaziale» nei modelli di diffusione della tecnologia e
dell’innovazione”
7
.
A questo proposito, va detto che l’elemento spaziale non deve
essere considerato come una dimensione in «più», un elemento di
complicazione di un modello astratto per avvicinarlo alla realtà; al
contrario, l’introduzione di tale elemento serve a chiarire alcuni processi
genetici dell’innovazione, in quanto questi ultimi posseggono spesso un
naturale ed ineliminabile contenuto spaziale.
“Da un canto infatti la diffusione dell’informazione, organizzativa
e tecnologica, avviene attraverso infrastrutture di comunicazione che
hanno una indubbia base territoriale; d’altro canto, gli elementi del
«selection environment»
8
che circonda l’impresa e fortemente determina
la probabilità di adozione di una certa innovazione in un certo momento
sono strettamente connessi alle caratteristiche culturali, organizzative,
politiche ed economiche dell’ambiente geografico”
9
.
Questi elementi consentono di comprendere meglio i fenomeni di
«pluralismo tecnologico»
10
che possono essere considerati come l’effetto
7
CAMAGNI R., CAPPELLIN R., GAROFOLI G., (a cura di), Cambiamento tecnologico e
diffusione territoriale, Franco Angeli, Milano, 1984, pp. 337
8
Il concetto di selection environment è definito da Molle come un complesso di fattori che
operano come stimolo o come vincolo rispetto ad una particolare traiettoria tecnologica (cfr.
MOLLE W.T.M., “Potenziali regionali di innovazione nella comunità europea”, in CAMAGNI R.,
CAPPELLIN R., GAROFOLI G., Cambiamento tecnologico e diffusione territoriale, op. cit., pp.
109-127).
9
CAMAGNI R., CAPPELLIN R., GAROFOLI G., “Cambiamento tecnologico…”, op. cit., pp.
337
10
Con questo termine si intende il divario tecnologico che esiste tra le regioni all’interno di un
sistema produttivo nazionale.
15
di differenti condizioni spaziali nei prezzi relativi dei fattori e nelle
condizioni ambientali. Pertanto, la mancata esplicitazione della variabile
spaziale nei modelli di diffusione tecnologica, si traduce in una loro
debolezza ed incompletezza.
Secondo Momigliano
11
, l’esigenza che si è sentita negli ultimi
anni di integrare gli studi del progresso tecnico con approcci di tipo
geografico, è stata frutto di approcci interdisciplinari delle teorie
dell’innovazione con le teorie dell’economia spaziale, ed è stata
sollecitata fondamentalmente da due ragioni:
1. dall’accresciuta consapevolezza che per una interpretazione
adeguata dei processi innovativi bisogna considerare il fatto che
gli stessi si determinano all’interno di sistemi economici
nazionali caratterizzati da una pluralità di regioni economiche
diversamente connotate; e che perciò è necessario tener conto
della differente influenza esercitata sulle relazioni indagate dalle
diversità strutturali, economiche, sociali, culturali di una
molteplicità di aree presenti in ogni sistema economico
nazionale;
2. dalla consapevolezza che tale tipo di analisi è indispensabile per
suggerire indirizzi di politiche e strumenti di intervento per
11
MOMIGLIANO F., “Revisione di modelli interpretativi delle determinanti ed effetti dell’attività
innovativa, della aggregazione spaziale dei centri di R&S e della diffusione intraindustriale e
territoriale delle innovazioni tecnologiche”, in CAMAGNI R., CAPPELLIN R., GAROFOLI G.,
Cambiamento tecnologico e diffusione territoriale, op. cit., pp. 19-57
16
l’innovazione più adeguati agli obiettivi che tali politiche
intendono perseguire.
È pertanto chiaro che le variabili territoriali rappresentano elementi
centrali ed importanti della discussione e non vanno considerate una
dimensione aggiuntiva del problema teorico: tutta una serie di aspetti
legati alle innovazioni tecnologiche e alla loro diffusione, non possono
essere analizzati, se non prendendo in considerazione lo spazio
economico di riferimento.
“Questo appare particolarmente rilevante in un contesto (…) in cui
le nuove forme di comportamento di impresa, rivolte a stabilire accordi
di cooperazione (…) e reti di rapporti sovraregionali, sembrerebbero
annichilire lo spazio in quanto variabile economica rilevante”
12
.
12
CAMAGNI R., “Cambiamento tecnologico, «milieu» locale e reti di imprese: verso una teoria
dinamica dello spazio economico”, in Economia e politica industriale, 1989, n. 64, pp. 209-236
17
1.2 Le principali teorie spaziali del mutamento tecnologico
La ricerca teorica sull’innovazione tecnologica e la sua dimensione nello
spazio può essere distinta in due filoni concettuali che, rispettivamente,
pongono al centro dell’analisi i fenomeni di agglomerazione e di
diffusione geografica dell’attività innovativa
13
.
L’interesse principale del primo filone di ricerche è legato alle
dimensioni spaziali del processo di generazione delle innovazioni
tecnologiche e l’obiettivo esplicito è quello di chiarire le ragioni
fondamentali che possono dare conto dell’esistenza di fenomeni di
concentrazione geografica delle attività innovative.
Nella seconda area di ricerca, invece, l’analisi è diretta a chiarire
in che modo lo spazio e la distanza dal luogo di origine dell’innovazione
– intesa sia in senso «fisico» che «socio-economico» - possano
influenzare le modalità ed il tempo di diffusione geografica
dell’innovazione stessa.
13
IAMMARINO S., PRISCO M. R., SILVANI A., “Alla ricerca di un modello vincente di
innovazione regionale: alcune considerazioni sull’esperienza italiana”, in L’industria, 1999, XX, n.
3 pp. 537-565
18
1.3 L’agglomerazione territoriale dell’attività innovativa
Con gli sviluppi recenti nel campo della teoria della crescita è stato
dimostrato che, in presenza di rendimenti crescenti ed esternalità
geograficamente localizzate, possono darsi fenomeni di agglomerazione
geografica delle attività economiche e produttive
14
.
In realtà, l’idea che attività economiche simili o complementari tendano
a concentrarsi nello spazio in un numero finito di località non
rappresenta una novità nell’analisi economica ed anzi è stata al centro di
numerose teorie della crescita regionale che si rifanno alla pionieristica
formulazione del concetto di economie esterne da parte di Alfred
Marshall.
Secondo l’intuizione originaria di questo autore, “la concentrazione
geografica delle attività produttive sarebbe da attribuire all’esistenza,
accanto ad economie di scala interne alle imprese, di economie di
agglomerazione o esterne
15
, il cui effetto sarebbe quello di ridurre in
modo sostanziale i costi di produzione delle imprese localizzate in una
14
ROMER P. M., “Increasing returns and long run growth”, in Journal of political economy, 1986,
94, n. 5, pp. 1002-1037
15
Le economie esterne o esternalità sono definite da Brosio come gli effetti – che possono risultare
sia vantaggiosi che svantaggiosi – provocati sull’attività di produzione di un soggetto dall’attività
di produzione di un altro soggetto, che non si riflettono nei prezzi pagati o ricevuti (cfr. BROSIO
G., Economia e finanza pubblica, Nuova Italia Scientifica, Roma, 1993, pp. 707).
19
certa area”
16
e le cui fonti sarebbero da ricondurre a tre fattori
fondamentali
17
:
a. sfruttamento di un capitale fisso sociale – in modo particolare
infrastrutture di comunicazione, trasporto ed energia – che
contribuisce al elevare la produttività di tutte le industrie presenti
in un’area;
b. creazione di effetti di sinergia che, attraverso la riduzione dei costi
di transazione all’interno dell’area e la possibilità di
specializzazione e collaborazione fra imprese all’interno del ciclo
produttivo, aumentano l’efficienza complessiva dell’industria;
c. presenza di indivisibilità nella fornitura di particolari beni e
servizi; la concentrazione di più imprese favorisce, ad esempio, la
formazione di un bacino di manodopera specializzata e
l’accumulazione localizzata di competenze tecniche attraverso
processi di apprendimento collettivo.
16
MARSHALL A., Principi di economia, UTET, Torino, 1972, pp. 871
17
CAMAGNI R., Economia urbana: principi e modelli teorici, Nuova Italia Scientifica, Roma,
1992, pp. 431