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3.3 La conferma scientifica dell’approccio e dell’ intervento olistico
Nel lontano 1952 ( Lipton, 2005) un dottore di nome Mason aveva tentato di curare
delle verruche ad un quindicenne con l’ipnosi. Quando fece vedere il paziente al
chirurgo che lo aveva in cura, questi sbarrando gli occhi disse a Mason che la
patologia trattata non erano verruche come erroneamente questi pensava, ma una
malattia rara e incurabile: l’ittiosi. Ma c’era di più, l’ittiosi è una malattia genetica.
Il medico e il ragazzo erano riusciti a fare qualcosa fino ad allora considerato
impossibile in quanto oltre ad aver fatto regredire fortemente la patologia, erano
anche riusciti a farlo con il potere della mente, senza l’ausilio di nessun farmaco o
placebo. Magia? Miracolo? Forse.
Nel XVII secolo, Descartes, meglio conosciuto come Cartesio, scartò la possibilità
che la mente potesse influenzare le caratteristiche fisiche del corpo ritenendo che
essendo questo composto di materia e la mente o psiche di sostanza non identificata,
comunque immateriale, di fatto questo fosse impossibile.
La biomedicina dell’epoca si convinse che l’ipotesi cartesiana fosse ineccepibile e vi
si adeguò. Dalla medicina all’epoca di Cartesio a quella attuale, sono passati però
quasi quattro secoli. Ma ancora oggi vi è molta difficoltà ad accettare l’idea che la
mente possa condizionare, e anche fortemente, la realtà somatica.
La neuroendocrinoimmunologia nasce negli anni venti (Bottaccioli, 1995) quando si
iniziò a dimostrare che alcuni neuroni dell’ipotalamo producevano sostanze di tipo
ormonale. Venti anni più tardi, si dimostrarono gli stretti rapporti che l’ipotalamo
detiene con l’ipofisi, ovvero la ghiandola endocrina che svolge un ruolo centrale in
tutto il sistema ormonale.
Si iniziava a percepire come il corpo non fosse una scatola fatta a settori stagni, ma
una realtà in cui le parti (psicofisiche) probabilmente comunicavano tra loro in modo
molto approfondito. L’ultimo colpo di maglio alle tradizionali separazioni tra i tre
sistemi (nervoso, endocrino e immunitario) si è avuto quando Blalock (1989) ha
dimostrato non solo che i tre sistemi tra loro comunicano, ma che questa
comunicazione è bidirezionale, ovvero va dal cervello alle cellule deputate alla difesa
immunitaria e da queste nuovamente al cervello, così come dal cervello alle cellule
endocrine e immunitarie e viceversa.
Da questo momento si era scoperta la chiave di volta: era nata la
psiconeuroendocrinoimmunologia.
Nel corso del tempo, si evidenziavano sempre di più le prove di come le attivazioni a
livello nervoso potessero influenzare il sistema endocrino (quindi ormonale) e, allo
stesso tempo, quello immunitario.
A titolo di esempio, di fronte ad un contesto di paura o pericolo percepito (siamo in
prossimità di un burrone e rischiamo di scivolare giù) in modo automatico
(Bottaccioli,1995) il battito cardiaco si fa più accelerato,il respiro diventa più corto, i
muscoli si contraggono e magari sudiamo freddo. Questo si verifica in modo tanto
più repentino se la reazione di paura è di quelle fulminanti.
Di fronte all’emergenza, attiviamo un comportamento di allontanamento e fuga dal
luogo o dalla situazione dalla quale ci sentiamo minacciati. Una reazione immediata
e ancestrale per garantire la sopravvivenza del nostro organismo al pericolo.
Nel momento in cui in cui ci sentiamo nuovamente al sicuro, la nostra reazione di
paura scompare, ci sentiamo più tranquilli ma, nei casi di forte paura vissuta,
percepiamo un senso di prostrazione e forte stanchezza. In pratica ci siamo esauriti.
Questo è quello che avviene potremmo dire a livello di percezione.
75
A livello molto più profondo invece, la visione del pericolo, tramite il sistema
nervoso simpatico, attiva la ghiandola midollare del surrene che è preposta alla
secrezione di una miscela di adrenalina (80%) e noradrelanina (20%), ovvero gli
ormoni dello stress, in quantità dieci volte maggiore rispetto alla condizione normale
di non pericolo.
Negli anni Settanta e Ottanta numerosi studi americani e italiani (Pancheri, 1993)
hanno dimostrato come situazioni di stress non solo psicofisici ma anche emozionali,
possano, allo stesso modo della visione di un burrone, modificare il funzionamento
del sistema endocrino e quindi la secrezione degli ormoni dello stress. In particolare,
si è osservato come il forte livello di stress emozionale in pazienti in attesa di un
intervento chirurgico, abbiano determinato una forte attivazione dei principali sistemi
endocrini, misurabile attraverso l’aumento nel sangue di ormoni quali cortisolo,
adrenalina, noradrenalina e dopamina.
Nel 1936 Selye (Invernizzi, 2000), uno tra i primi studiosi a livello mondiale che si
interessò di stress, lo definì come:
“risposta non specifica dell’organismo a qualsiasi stimolo interno o esterno di tale
intensità e durata da evocare meccanismi di adattamento atti a stabilire
l’omeostasi”.
La condizione di stress è costituita dall’attivazione di meccanismi neurofisiologici
messi in azione al fine di ristabilire una condizione di equilibrio (eustress). Essa ha
un valore fisiologico e non patologico e si compone di tre fasi (Tab. 7):
1. Fase di allarme: l’organismo mobilita le sue difese attivando gli ormoni detti
dello stress (adrenalina e noradrenalina)
2. Fase di resistenza: in presenza di stress continuato, si verifica il
proseguimento della sovrapproduzione di cortisolo, che
però ha come conseguenza la soppressione delle difese
immunitarie (Plotnikoff, 1991)
3. Fase di esaurimento: emerge una condizione dove l’organismo non è più in
grado di riportare l’equilibrio e si ritrova in una
condizione di esaurimento successiva alla
iperattivazione costante e per tempi prolungati
(distress). In esperimenti di laboratorio, è stato provato
come l’organismo animale, non più protetto dal
cortisolo (contro gli stati infiammatori) presenti
profonde ulcerazioni della mucosa gastrica.
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Tab. 7 La curva delle tre fasi dello stress di Hans Selye
(http://fc.units.it/)
In rapporto al tipo di stress subito, alla sua durata e alla nostra capacità di
controllarlo, i sistemi endocrini vengono attivati in modo superiore alla norma e per
più tempo, determinando varie condizioni patologiche. Nella fattispecie:
disturbi somatoformi (Invernizzi, 2000) dove si riscontrano sintomi fisici non
attribuibili a patologie organiche, dove il sintomo somatico diventa
espressione di scarico dello stato di tensione emotiva.
Disturbi psichiatrici come disturbi dell’umore o disturbi d’ansia.
Diventa sempre più evidente come la logica meccanicista della medicina
ottocentesca che afferma: “una malattia una causa”, sia del tutto insufficiente
nell’affrontare la complessità delle realtà patologiche.
L’organismo si ammala non perché sia esposto ad una aggressione esterna batterica o
virale, bensì perché la sua risposta immunologica all’esposizione risulta insufficiente
nell’affrontarla. (naturalmente stiamo parlando di condizioni di normali patologie e
non gravi attacchi chimici, batteriologici o radioattivi).
Il microbiologo Pasteur (Bellavite, 2000) più di un secolo fa, ben prima che nascesse
la Psiconeuroendocrinoimmunologia, in punto di morte affermava:
“Il germe non è nulla, è il terreno che è tutto.”
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Alla luce di quanto esposto, considerare il paziente nella sua unità a livello globale,
dovrebbe essere l’obiettivo di qualsiasi tipo di medicina e non prerogativa univoca
delle medicine alternative che invece intervengono in modo esplicito con una visione
globale/olistica della diagnosi e della terapia. La valutazione dell’aspetto psichico
dovrebbe essere effettuata e tenuta in giusta considerazione in riferimento alla
patologia fisica del soggetto e della sua reattività soggettiva rispetto alla patologia
stessa. (ansia, paura, incapacità di fronteggiamento, etc.)
L’approccio olistico nella cura, diventa ancora più importante e completo nel
momento in cui questo non si ferma alla sola considerazione dell’aspetto psicofisico
dell’individuo, (per quanto fondamentale esso sia) ma quando chiama in causa anche
l’ambiente fisico e psicosociale nel quale la persona stessa è inserita.
Se la persona è sottoposta ad uno stress continuo nella realtà sociale nella quale è
inserita, questo stress porterà a logorare le difese immunitarie della stessa, la quale si
troverà esposta al rischio di contrarre patologie di vario tipo. Tanto maggiore sarà lo
stress ricevuto, tanto maggiore sarà l’impatto a livello immunitario e tanto maggiore
sarà quindi il pericolo di ammalarsi, anche di patologie estremamente gravi come
quelle oncologiche. (Simonton, 1996). Ecco perché nell’atto terapeutico diventa
fondamentale riconoscere queste dinamiche ma soprattutto affrontarle in modo
attento e comprensivo all’interno di una relazione medico paziente valida e
costruttiva come quella caratterizzata dall’ alleanza terapeutica.
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3.4 L’evoluzione della relazione medico paziente e l’alleanza terapeutica
Quando una persona, per problematiche fisiche o mentali, decide di chiedere aiuto ad
un terapeuta, inevitabilmente abbisogna di supporto, conoscenza e indirizzamento su
un percorso di sostegno e cura. Vuoi per lo stato di necessità e/o sofferenza, vuoi
anche per la sua ignoranza sull’argomento si crea in modo inevitabile un
disallineamento di posizione tra lo specialista (il conoscitore) e la persona
(il richiedente).
La relazione terapeutica che si instaura con queste peculiarità, dovrebbe essere però
anche caratterizzata da una relazione di fiducia e stima reciproca. Dovrebbe esistere
una condizione di “aff-fidamento” reciproco, proprio perché anche il medico deve
potersi “fidare” (Capunzo, 2007) del fatto che il paziente seguirà le sue indicazioni, e
deve poter contare sul fatto che il paziente sia motivato a risolvere il suo problema
clinico o quanto meno ad affrontarlo nel miglior modo possibile.
Questa condizione di aff-fidamento, si è evoluta nel corso del tempo.
In passato vigeva un tipo di relazione medico-paziente forse troppo impari:
la consegna era totale e acritica, la messa in discussione dei dettami medici non era
prevedibile, la relazione terapeutica poteva essere definita in termini di fede
incondizionata. Una relazione quasi mistica.
Il rapporto attuale si sta forse orientando in una direzione opposta alla precedente.
Il paziente non è più così succube o passivo. Egli è più consapevole, attento e
versatile perché si informa e spazia. Soprattutto è più diffidente, titubante e meno
“gestibile” anche, e soprattutto alla luce degli scandali e degli atteggiamenti
discutibili (come già visto) assunti troppo spesso da aziende farmaceutiche ed
esponenti medici ancorati sempre di più a pratiche difensive.
Come si è evoluto il rapporto medico paziente?
L’approccio Paternalistico
Nell’approccio Paternalistico, di derivazione Ippocratica, (Vegetti,1976) il medico,
come un buon padre di famiglia, decide e gestisce la terapia nella sua totale
discrezione e il paziente esegue con passiva acquiescenza e dipendenza. La libertà
del paziente è assente.
Nel sito della Consulta di Bioetica Italiana, (www.consultadibioetica.org) si legge
che:
“ l’etica medica paternalistica è una concezione etica che prescrive di agire, o di
omettere di agire, per il bene di una persona senza che sia necessario chiedere il suo
assenso, in quanto si ritiene che colui che esercita la condotta paternalistica (nel
caso specifico il medico) abbia la competenza tecnica necessaria per decidere in
favore e per conto del beneficiario (il paziente). Da questa prospettiva, il medico è
impegnato a ripristinare una oggettiva condizione di salute (indipendente dalle
preferenze del paziente) e la relazione è fortemente asimmetrica poiché il paziente
viene considerato non solo privo della conoscenza tecnica ma anche incapace di
decidere moralmente”. Il Paternalismo si può esprimere ( Pellegrino,
Thomasma,1992 ) in una forma forte, dove la volontà decisionale del paziente è
assente del tutto, oppure debole quando le azioni mediche vengono intraprese in
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presenza di pazienti che non possono o non sono in grado (es. minore età ) di
esprimere un consenso che sia frutto di una scelta ragionata e libera.
Il Paternalismo, andando a ledere il diritto individuale all’autodeterminazione, risulta
essere un modello non più eticamente adeguato proprio perché non pone al centro il
rispetto per l’autonomia del paziente non dovrebbe più essere preso in
considerazione se non in condizioni molto particolari o comunque eccezionali.
L’approccio Informato/ Contrattualistico
La rivendicazione di sempre maggiori spazi di autonomia da parte dei cittadini, ha
contribuito a creare un contesto favorevole per l’approvazione da parte
dell’American Hospital Association nel 1973 della Carta dei diritti del paziente
(Patient’s Bill of Rights) (D.M.,1995).
In questo documento viene reclamato il diritto del paziente ad essere informato e
partecipe delle decisioni terapeutiche che lo riguardano. Una rivendicazione
importante che comporta il riconoscimento della volontà del paziente ed il rispetto
della sua autonomia decisionale che sfocia nel secondo approccio, definito
Informato. Rispetto al precedente, qui domina una realtà autonoma dove il paziente
viene informato sulle eventuali terapie ma può scegliere in autonomia totale il
trattamento. La capacità di acquisire informazioni, porta la persona a livelli di
conoscenza che sono pari se non spesso più alti di quelli dello stesso specialista.
L’asimmetria tra le parti si riduce di molto. Il tentativo di svincolamento da una
posizione schiacciante, che in sé portava però ad una fiducia incondizionata, ha
comportato una condizione di autonomia ma anche, e soprattutto, di solitudine e
totale assunzione di responsabilità che spesso purtroppo è deleteria (vedi le cure fai
da te o il rifiuto totale dei protocolli medici).
Risolvendo il problema dell’asimmetria del rapporto dell’approccio Paternalistico,
L’approccio informato non risolve però il problema legato alla relazione tra il
medico e il paziente. Serve la presenza di un dialogo tra gli attori, che ancora però
non è sentito come condizione fondante e insostituibile nella relazione medica.
Diventa elemento principale, il definire e il mettere in chiaro e per iscritto ciò che si
deve o non si deve fare, così in caso di contestazioni diventa possibile attribuire le
responsabilità alle parti. La fiducia verso l’operatore viene meno e solo dopo avere
contrattato e protocollato i termini del rapporto, diventa possibile procedere con
l’approccio terapeutico.
Gli attori in questo contesto, sono diventati tre: il medico, il paziente e l’avvocato.
Il risultato è che il medico, con l’unico scopo di mettersi al sicuro da eventuali
conseguenze legali, adotta tutta una serie di procedure che si identificano nella
medicina difensiva (come visto in precedenza) dove segue in maniera rigida il
protocollo, oppure si rifiuta di prendere in carico il paziente quando questi sia
“un caso difficile e a rischio”.
Serve un compromesso che riporti il rapporto tra medico e paziente ad una
condizione più umana, dove elemento più importante non sia più il protocollo o la
tutela legale, ma la fiducia, l’ascolto e il rispetto reciproco.
L’approccio contrattualistico, pur essendo importante, alla fine si è definito in una
condizione di stallo.
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L’alleanza terapeutica
Nel suo lavoro ventennale di assistenza ai malati terminali, la psichiatra Kubler Ross
(1991) ripeteva sempre che:
“Quello che sto tentando di dirvi è che la conoscenza è utile, ma la sola conoscenza
non è in grado di aiutare nessuno. Senza usare la testa, il cuore è l’anima non si può
aiutare nessuno. Questo mi hanno insegnato i cosiddetti pazienti inguaribili e gli
schizofrenici”.
O ancora:
“ l’unico motivo che scoraggia queste persone dal raccontare le loro esperienze, è la
nostra incredibile tendenza (dei medici) ad etichettare, sminuire o negare le storie
che ci mettono a disagio, perché non rientrano nei nostri schemi scientifici e
religiosi.”
L’unione forte e fiduciosa tra le parti in vista di un comune obiettivo, emerge sempre
più come necessità nell’ambito del trattamento e del rapporto terapeutico. Necessita
una nuova forma di relazione medico-paziente dove diventa fondamentale il
coinvolgimento attivo e la responsabilizzazione di quest’ultimo nella gestione della
sua malattia.
Quali sono le caratteristiche che possono definire una soddisfacente relazione tra
medico e paziente?
Essa non può e non deve essere gestita in termini di fede (ciò che dice il medico è
sempre giusto e indiscutibile), ma in termini di fiducia.
Affinché questa possa esistere, deve essere mantenuto un alto livello di
comunicazione e informazione tra le parti e quindi di partecipazione reciproca.
La comunicazione, l’informazione e la partecipazione portano ad un aumento di
competenza e di consapevolezza di sé da parte del paziente, un aumento della
promozione della responsabilizzazione nella gestione della propria salute e una
diminuzione della passività, della dipendenza e della soggezione. Caratteristiche
queste che sfociano nell’Alleanza Terapeutica. Questo concetto nasce in ambito
psicanalitico con Zetzel nel 1958 (Invernizzi, 2000). Un alto livello di partecipazione
e comunicazione di informazioni diventa possibile solo se il medico è in grado di
comunicare, ascoltare e guidare.
La comunicazione della diagnosi e la conseguente terapia, con tutti gli eventuali
rischi che questa possa comportare, è difficile specie quando si parla con (o di)
persone molto giovani affette da malattie molto gravi (es. oncologiche).
La diagnosi e la cura non possono e non devono risolversi quindi nella sola
comunicazione dei sintomi ma devono estendersi anche all’ascolto e alla
comprensione di come il paziente descrive il suo problema, dei vissuti emotivi che
emergono, delle interpretazioni, degli svantaggi e dei vantaggi che questi ne possa
ricavare, delle enfatizzazioni di un sintomo piuttosto che di un altro, delle paure,
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speranze e delusioni.
Spesso gli operatori non sanno (o non sono disposti) ad ascoltare, specie quando le
loro opinioni vengono messe in discussione. Ciò che quindi dovrebbe caratterizzare
un buon rapporto medico-paziente, non è tanto l’esigenza di acquisire o trasmettere
informazioni tecniche fini a loro stesse, (obiettivo importante ma del tutto
insufficiente), ma il modo o il come con il quale queste vengono trasmesse e la
reazione ad esse, nonché la possibilità di essere accolti e ascoltati non solo nella
presentazione dei sintomi ma anche nel bisogno della loro espressione. Sicuramente
non vi è questa esigenza in un contesto di medicina d’urgenza dove l’intervento è
attuato in un contesto acuto, ma la stessa si presenta in contesti cronici, e con
patologie psicosomatiche (Pepeu, 2003) purtroppo sempre maggiormente presenti.
Diventa fondamentale definire una alleanza terapeutica intesa all’emersione di un
impegno comune delle parti nell’esplorare insieme i problemi, nonché a far emergere
una fiducia comune attraverso la definizione di un realistico obiettivo orientato alla
guarigione o, se possibile, al miglioramento dello status del paziente.
ALLEANZA
TERAPEUTICA
COMPRENSIONE
E ACCETTAZIONE
SOSTEGNO PER
RAGGIUNGERE
GLI OBIETTIVI
ESPRESSIONE
DEL PAZIENTE
ASSUNZIONE
RESPONSABILITA
' DEL PAZIENTE
RISPETTO E
FIDUCIA
APERTURA
RECIPROCA
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ALTA PARTECIPAZIONE
E COMUNICAZIONE RECIPROCA DI INFORMAZIONI
ALTA FIDUCIA
AUMENTO DIMINUZIONE
COMPETENZA PASSIVITA’
CONSAPEVOLEZZA DIPENDENZA
RESPONSABILIZZAZIONE SOGGEZIONE
ALLEANZA TERAPEUTICA
MIGLIOR ESITO DELLA CURA
Schema 7 – Esito della cura in funzione della partecipazione e comunicazione
delle informazioni
Schema 6 – Le caratteristiche dell’alleanza terapeutica
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In un contesto di vera attenzione, diventa fondamentale non solo quindi curare la
persona, ma soprattutto l’averne cura, ri-portando al centro dell’agire scientifico, la
figura umana come realtà indivisibile di corpo, psiche ed emozioni.
Una combinazione di attenzione e cura a livello cognitivo ed emozionale oltre che
fisico, (Di Blasi, Harkness et al., 2001) ha prodotto un consistente effetto in termini
di miglioramento delle condizioni di salute dei pazienti. I medici che avevano creato
una relazione calda ed empatica con i loro pazienti, rassicurandoli sul fatto che
sarebbero stati meglio, ottenevano risultati opposti rispetto ai colleghi impersonali,
formali e incerti.
E’ opportuno ricordare che troppo frequentemente l’approccio bio-medico
(Zani,Palmonari, 1996), molto di più di quello bio-psicosociale, interviene in una
condizione di prevenzione terziaria ovvero con la cura e la riabilitazione di patologie
ormai conclamate. Si fa sempre più strada invece il bisogno e l’attenzione ad una
prevenzione primaria (es. screening), dove si cerca di identificare i sintomi del
primissimo insorgere della patologia e dove le alterazioni non comportano ancora
disturbi oggettivi ma possono costituire la fase clinica precoce della malattia.
Risulta però di fatto ancora insufficiente l’attenzione che viene riservata alla stessa
Prevenzione Primaria, ovvero a quella condizione che permette il mantenimento di
uno stato di benessere che non è, e non deve essere solo necessariamente fisico ma
soprattutto psicologico. Negli anni ’70 era già emerso come l’alternativa al modello
medico (Fuligni,Romito, 2002) potesse essere costituita dal modello preventivo, la
cui attuazione poteva passare attraverso due orientamenti:
realizzazione di interventi con lo scopo di ridurre il danno
attenzione alla promozione della salute e del benessere psicologico mediante
programmi di prevenzione del rischio e di educazione
L’importanza dell’attuazione della prevenzione primaria diventa evidente nel
contesto di una valida alleanza terapeutica, dove il paziente viene non solo “istruito”
durante la cura ma anche educato e responsabilizzato nell’atto del prendersi cura
della propria persona, ripristinando e mantenendo in questo modo, uno status di
salute psicofisica da mantenersi nel tempo.
L’istruzione raggiunge i risultati migliori nel momento in cui viene personalizzata.
Già il famoso psichiatra Erickson (Watzlawick,Nardone, 1997), affermava che:
“La psicoterapia per il paziente A non è la psicoterapia per il paziente B ”.
In altre parole la terapia, per essere efficace, deve tenere conto non solo di ciò che
viene detto, ma anche come e a chi.