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Si sono accentuati una serie di problemi che fanno già parte della vita delle persone comuni
e che nel disoccupato assumono forme più acute e dolorose. Ecco quindi le cronache
quotidiane che vanno dal litigio familiare un po' violento ai casi più dolorosi di suicidio.
Tuttavia una precisazione è d’obbligo: il disoccupato che abbiamo voluto analizzare non
vuole essere un caso patologico di depresso cronico, di persona con problemi collaterali
gravi che sommati a quelli del lavoro creino una situazione con poche vie d’uscita;
l’individuo oggetto della nostra analisi è quanto più possibile un disoccupato comune con
un livello di disagio che possiamo definire normale. In effetti la gamma delle possibili
situazioni è molto ampia. Si può andare dalle leggere forme di stress e insonnia a problemi
molto più seri che investono l’identità.
Abbiamo voluto limitarci a studiare quello che può generalmente accadere ad un lavoratore
comune che per varie ragioni perda il suo posto.
Una delle questioni più interessanti che si sono poste è quella sulla direzione della causalità,
ossia se il disagio sia un fenomeno antecedente o successivo alla disoccupazione. Si diventa
disoccupati a seguito di un disagio precedente, di “eventi di vita” sfavorevoli negli anni
prima oppure è la disoccupazione che ha un effetto di trascinamento e detonatore di
problemi latenti. Se si pensa all’evoluzione di alcune situazioni familiari la seconda ipotesi
è la più plausibile? Vedremo meglio in seguito.
La parte centrale della nostra ricerca si sofferma su uno degli aspetti più salienti del
fenomeno, ossia la crisi d’identità del disoccupato: vedremo come il disagio faccia
precipitare l’individuo in una spirale di auto-osservazione alla ricerca di un “io” che ha
perso le sue sicurezze, mentre i rapporti col sociale e con la famiglia divengono più
problematici.
In un capitolo della ricerca abbiamo cercato di vedere le fasi di questa crisi d’identità. Ad un
certo punto vi è pure stato il tentativo di stabilire le tappe di un calo dell’autostima che
dovrebbe avere un percorso caratteristico. Tuttavia ricordiamo che, sebbene il nostro sforzo
sia stato quello di cercare di descrivere situazioni generalmente comuni a tutti non esiste,
come ci ricorda Depolo, un modo unico di vivere il problema disoccupazione, ma esistono
“tante disoccupazioni” ognuna legata agli “eventi di vita” e alla peculiarità delle situazioni
di ognuno.
Tenendo presente questo concetto si capirà come il lavoro voglia essere un tentativo di
estrapolare dal gran numero di situazioni diverse quelle caratteristiche comuni che rendano
possibile una definizione generale del problema.
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Assieme al problema disoccupazione abbiamo voluto anche soffermarci sulla questione del
lavoro: due concetti molto legati.
In effetti agli albori della nostra ricerca uno dei primi argomenti che ci avevano interessato
era il problema della motivazione al lavoro. Nei primi capitoli ci si sofferma così sulle
definizioni e sui significati del lavoro in un’epoca come questa che sta segnando
l’evoluzione verso nuove forme di organizzazione e la definitiva entrata in un’era post
industriale, dove è in ballo la centralità del lavoro nella società.
Un concetto motivazionale che è emerso con spicco è quello di employment commitment.
Esso rende l’idea di coinvolgimento lavorativo ed ha qualche affinità col concetto di etica
protestante del lavoro.
L’ employment commitment indica il grado di importanza effettivamente attribuita al lavoro
inteso come attività umana, distaccandosi da ogni riferimento con una specifica occupazione
e contribuendo alla definizione dell’identità personale.
Il concetto, con le sue valenze motivazionali, è stato al centro della nostra ricerca anche
nell’ottica delle sue relazioni col disagio.
Argomento centrale della tesi è la verifica che a maggiori valenze del lavoro e a una
maggiore centralità di questo nella persona corrispondano livelli più acuti di disagio per la
frustrazione delle alte motivazioni; in questo senso il concetto di employment commitment
ci sarà di grande aiuto.
Gli studi su cui ci siamo appoggiati sono nella maggioranza di matrice anglo-sassone e
americana, paesi dove lo studio psicologico della disoccupazione è assai sviluppato. E’
emerso così fortemente il concetto di etica protestante nel senso di una forte dedizione al
lavoro con affinità ai concetti di individualismo, ascetismo e industriosità. Esso è molto
legato al concetto di employment commitment per via dell’idea che il lavoro sia il miglior
uso del tempo che un uomo possa fare e non solo perché esso è strumentale per il
raggiungimento di ricompense esterne. Le difficoltà di adattare un simile argomento alla
mentalità italiana sono purtroppo ovvie.
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Riassumiamo l’ordine degli argomenti trattati :
- Nel primo capitolo ci saranno alcuni accenni sulla disoccupazione e verranno introdotti le
caratteristiche dell’istituto della mobilità, da cui abbiamo trattato il campione che verrà
studiato nella ricerca empirica.
- Nel secondo capitolo affronteremo la questione del lavoro e del suo significato,
soffermandoci in particolare sul significato della sua modernità. Si è cercato di vedere
alcuni aspetti del lavoro in particolare sugli attributi ideali e la sua centralità anche in
relazione al concetto di “employment committment” e alla differenza tra occupati e
disoccupati.
Si è qui fatto riferimento a studi come quelli di A. Cavalli e A. De Lillo, che riguardano i
giovani. La scelta, come vedremo, si è rivelata azzeccata. In essi rimangono più vivi certe
aspettative e certi valori sul lavoro che con l’età più matura sembrano affievolirsi.
- Il terzo capitolo entra nel vivo della questione del disagio, descrivendone i sintomi
essenziali sia fisici che psicologici e facendo un sunto sui risultati delle ricerche fino ad
oggi prodotte sull’argomento. Spiccano temi interessanti come quello della direzione della
causalità, della dimensione del tempo e del tentativo di costruire un modello di oscillazione
dell’autostima che sia valido per un generico disoccupato.
Il fatto poi che un percorso non possa definirsi unico per tutti è ben spiegato nella seconda
parte del capitolo, ove sono discussi i fattori modulatori che differenziano l’esperienza della
disoccupazione in tante storie soggettive diverse.
- Il quarto capitolo è quello psicologicamente più pregnante : vengono discussi i problemi
della crisi dell’identità e il calo dell’autostima. Ben evidenziata è la crisi dell’evoluzione
dell’Io, vittima in parte del contesto sociale e in parte dell’autodenigrazione e del rovello
dell’autoanalisi che emergono in seguito alla perdita delle precedenti sicurezze.
Spazio verrà anche dato alla questione fondamentale dell’attribuzione.
- Il quinto capitolo propone la teoria delle aspettative, di matrice peculiarmente
motivazionale; la teoria analizzata nelle sue origini teoriche viene qui messa in correlazione
con il fenomeno della disoccupazione : a maggiori aspettative e valenze del lavoro
dovrebbero corrispondere livelli più alti di disagio per la frustrazione delle attese di
partenza. La verifica di questa teoria è oggetto dell’ultima parte della ricerca dedicata
all’analisi empirica.
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- La ricerca empirica trattasi di una survey su una cinquantina di disoccupati estratti dalle
liste di mobilità dell’Agenzia per l’Impiego di Milano. Il campione è costituito a punto da
50 disoccupati di sesso maschile, di età compresa fra i 30 e i 50 anni. Si è cercato così di
evitare le due fasce più a rischio e più “protette” del mercato occupazionale italiano, ossia i
giovani e gli anziani. La ricerca, oltre a proporre la verifica della tesi espressa in
precedenza, sfrutta l’analisi fattoriale per alcune deduzioni concettuali e si concentra in
particolare sulle differenze di attitudini fra operai ed impiegati.
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CAPITOLO PRIMO
Cenni sulla Disoccupazione
INDICE
Alcune cause
La percezione sociale
Alcune definizioni
La mobilità: alcune cifre
“Tante disoccupazioni”
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ALCUNE CAUSE
Per la comprensione del fenomeno disoccupazione si possono osservare alcune variabili
riconducibili alle caratteristiche del mercato del lavoro. Tra queste, due sono
particolarmente interessanti.
La prima riguarda la crisi dei due tradizionali settori occupazionali: l’agricoltura e
l’industria. Infatti, anche se il settore terziario ha indiscutibilmente fornito nuove
opportunità di impiego, i dati raccolti negli USA e in Europa dimostrano che l’occupazione
industriale ed agricola- seppure con un andamento meno preoccupante in America- è caduta
in una crisi profonda fin dall’ inizio degli anni settanta. Un ruolo certamente non secondario
in questa trasformazione è addebitabile alla seconda causa in questione, l’introduzione delle
nuove tecnologie: se da un lato l’automazione e l’ampliamento della meccanizzazione
hanno accresciuto la produzione e sollevato gli addetti dai compiti più pesanti ed iniqui,
dall’altro hanno favorito una razionalizzazione dell’organizzazione del lavoro che ha
comportato un sostanziale ridimensionamento dell’esigenza dell’ apporto umano.
Ciò è avvenuto in presenza di altri due elementi caratteristici dell’attuale fase di
trasformazione del mercato del lavoro: lo spostamento di parte della produzione industriale
europea e nordamericana verso quei paesi dove il costo del lavoro è più basso (Asia e Sud
America) e la massiccia crescita della domanda di lavoro da parte delle donne. Nel primo
caso -l’aumento del costo del lavoro- occorre aggiungere che esso non ha comportato
solamente uno spostamento geografico dell’area produttiva industriale, ma ha anche
favorito un altro fenomeno recentemente impostosi all’attenzione dell’ opinione pubblica,
soprattutto nei paesi europei e mediterranei: l’immigrazione di lavoratori provenienti da
paesi in via di sviluppo (in particolare dal Nord-Africa e da alcune zone orientali). Se
dunque da un lato la nuova era tecnologica ha comportato una restrizione della richiesta di
mano d’opera nell’industria e nell’agricoltura, dall’altro ha favorito l’inizio di una
competizione per l’accaparramento delle occupazioni meno qualificate da parte di lavoratori
disposti ad accettare contratti con bassi salari.
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Le ragioni che hanno progressivamente portato ad una crescita della domanda di lavoro da
parte delle donne sono più complesse e riconducibili a ragioni non solo economiche, ma
sociali e culturali come l’affermazione di una tendenza alla pari opportunità tra i sessi
nell’educazione e nella ricerca della prima occupazione, il calo demografico e la diffusione
dei servizi assistenziali per l’infanzia con conseguente diminuzione del carico di lavoro
familiare per la donna.
In questo caso, però, le variazioni tra i diversi paesi europei sono notevoli. Il massiccio
ingresso della donna nel mercato del lavoro è un fenomeno relativamente nuovo solo nei
paesi a più recente industrializzazione; esso è infatti in buona parte legato al progressivo
passaggio da un’economia agricola ad una piccola e medio industriale, dove sono tra l’altro
comparse e si sono diffuse forme particolari di occupazione come quella a domicilio. Ciò
rappresenta una delle ragioni che rende difficile il censimento dell’occupazione femminile:
in molti casi, infatti, questioni legate anche a problemi fiscali o alla complessa distinzione
tra attività domestica e lavoro salariato limitano fortemente l’ affidabilità delle fonti
ufficiali.
Rimane tuttavia la chiarezza dei dati che mettono in evidenza come l’aumento dei tassi di
attività lavorativa abbia riguardato quasi esclusivamente le donne. Nella prima metà degli
anni Settanta le occupate negli USA erano il 34% dell’ intero mercato del lavoro, mentre
agli inizi degli anni Novanta tale percentuale era salita al 44%, a fronte di una sostanziale
stabilità dell’ occupazione maschile. In Europa l’andamento è simile: la percentuale delle
donne impiegate è salita nello stesso periodo dal 27 al 33%.
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LA PERCEZIONE SOCIALE
Sul problema disoccupazione si hanno da tempo a disposizione dati e informazioni assai
indicativi della complessità e della gravità generale del fenomeno, ma non è comparso, fino
a poco tempo fa, un automatico riconoscimento sociale di gravità da parte della società. Vi
sono dei fattori che possono rendere un problema saliente dal punto di vista sociale al di là
dei dati quantitativi e questi hanno una matrice ideologica, culturale e sociale in particolare
se si pensa al ruolo che possono giocare certi gruppi emergenti e i mass-media.
Finché la disoccupazione è stata considerata come una modesta disfunzione, un prezzo più
che accettabile per mantenere un modello di economia aperta che in fondo riesce a
perseguire i suoi obbiettivi prioritari, scarso credito hanno ottenuto le innumerevoli
dimostrazioni circa la presenza di un’ ampia sottoutilizzazione della capacità di lavoro e i
costi sociali di tale realtà.
Oggi le cose stanno cambiando e probabilmente ciò si verifica non solo per la maggiore
ampiezza e visibilità collettiva del problema, ma per le stesse considerazioni prima esposte
di matrice culturale e sociale. Vediamo alcune di queste considerazioni:
* la minaccia per strati sempre maggiori della popolazione di restrizioni più o meno brusche
del proprio stile di vita. Si può parlare di perdita di status sociale e di devalorizzazione
personale che difficilmente vengono bilanciati dall’ingresso in un nuovo gruppo sociale
culturalmente svalorizzato (i disoccupati) , spesso in modo brusco, senza grandi possibilità
di opporre resistenza, né di esprimere le proprie esigenze di identità sociale.
* l’essere e più ancora il divenire disoccupati appaiono più facilmente collegabili ad un dato
strutturale ( la chiusura di una fabbrica, l’esplodere di una crisi locale) rispetto al processo
di impoverimento. Quest’ultimo è un processo meno netto, meno collegato ad un evento
preciso localizzato spazio temporalmente. Invece la percezione di una evidente causazione
strutturale della disoccupazione rende prioritaria l’idea che occorre intervenire subito sulle
ragioni che hanno determinato la perdita del lavoro e che ciò è più facile proprio perché la
diagnosi è già disponibile.
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* La concezione del lavoro prevalente in molti paesi occidentali, ponendo l’accento sui
valori del diritto dovere di lavorare per tutti i cittadini, implicitamente fa obbligo alla
società di garantire sufficienti occasioni di lavoro. Ciò comporta la possibilità di valutare
negativamente coloro che non si impegnano a fondo nella ricerca di un’occupazione ma
anche che sia messo sotto accusa il sistema sociale per non riuscire nel suo intento di
accogliere le legittime esigenze dei cittadini. E’ in questo senso che si giustifica una
differente immagine sociale del disoccupato fondata sulla trasformazione di fatti personali
disturbanti in problemi di carattere sociale. Si passa da un’ idea di accusa del disoccupato ad
una che riconosce le gravi disfunzioni del sistema e che si cura di analizzare i costi sociali e
soprattutto personali della infelice situazione in un’ottica solidaristica.
* Sebbene i primi coinvolti nella disoccupazione siano per lo più soggetti con mansioni
operaie di modesta qualificazione, ormai anche le categorie dei tecnici, degli impiegati e del
lavoro intellettuale appaiono esposte al rischio. Viene a modificarsi agli occhi di gruppi
sempre più vasti il significato della perdita del lavoro intesa ora come minaccia e
preoccupazione personale e non solo come problema astratto. Cominciare a vedere anche
pochi membri del proprio gruppo sociale di appartenenza coinvolti nella disoccupazione
rende più sensibili al problema.
* E’ da sottolineare anche l’apporto dei mass-media. Essi non solo parlano della
disoccupazione ma diffondono immagini convincenti sull’entità del fenomeno, sui suoi
gravi effetti sullo stile di vita delle persone. E’ ampiamente documentata l’ipotesi che la
disoccupazione rappresenti oggi il più grave problema nei paesi occidentali. L’influenza
massiccia e capillare dei mass-media risulta avere un peso significativo sull’elevata
attenzione con cui larghi strati della popolazione seguono oggi il problema della
disoccupazione
.
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ALCUNE DEFINIZIONI
Nelle classificazioni della disoccupazione, che seguono, è implicita l’idea di poter ripartire
la popolazione reale in differenti aggregati dai confini netti e impermeabili. Si tratta di un
artificio necessario ai fini di un conteggio plausibile delle persone implicate con la
disoccupazione che, tuttavia, si rivela troppo largamente arbitrario e di modesta importanza
per aiutarci a comprendere chi siano effettivamente i disoccupati e quali le caratteristiche
principali delle loro condizioni.
Secondo le definizioni usate dall’ISTAT dal 1984, nell’ambito della più grande categoria di
“persone in cerca di lavoro” si considerano:
1) Disoccupati in senso stretto coloro che, avendo 14 anni e più, si dichiarano tali ;
affermando di cercare un lavoro ed essendo disponibili ad accettarlo; giustificando la
perdita del lavoro precedente sulla base di almeno una di queste tre cause: licenziamento,
dimissioni, fine del rapporto di lavoro a tempo determinato (essi, inoltre devono aver
dichiarato se inizieranno in epoca successiva all’indagine un lavoro alle dipendenze o
un’attività in proprio)
2) Persone in cerca di una prima occupazione coloro che, avendo 14 anni e più non hanno
mai lavorato; sono alla ricerca di un lavoro e sono in grado di accettarlo se offerto; oppure
intendono mettersi in proprio e hanno attuato i mezzi per attuare ciò.
3) Altre persone in cerca di lavoro coloro che si dichiarano in condizione non professionale
(casalinghe, studenti, ritirati dal lavoro) ma sono alla ricerca di un lavoro; oppure
disoccupati dichiaratisi tali e persone in cerca di prima occupazione che hanno intenzione di
mettersi in proprio non avendo, però, ancora predisposto i mezzi per esercitarlo
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Oltre a queste classi di disoccupati si può ampliare il campo del mondo del lavoro parlando
di:
4) Sottoccupati coloro che, considerati all’interno della categoria degli occupati, hanno
svolto un numero di ore lavorative inferiori alle abituali e coloro che lavorano part-time.
5) Non forze lavoro quelli che non hanno un lavoro né lo hanno cercato. Si tratta casalinghe,
studenti, ritirati dal lavoro, inabili, militari e la popolazione fino a tredici anni di età.
Dato fondamentale appare quindi non solo la condizione di non occupazione ma
l’involontarietà di tale condizione. Che poi appaia aleatorio il che cosa significhi aver
ricercato un lavoro nella settimana prima della rilevazione è vero. Di che cosa si tiene
conto? Della modalità di ricerca, della frequenza e della intensità dell’impegno profuso dal
soggetto? E se la ricerca risulta impossibile o inutile in un certo bacino socioeconomico il
soggetto dovrà essere categorizzato come rinunciatario, rassegnato, e dunque uscire dal
gruppo dei disoccupati effettivi?
Inoltre, è presente un certo pregiudizio sulla stabilità dei fenomeni descritti e sull’esistenza
di precise barriere tra gli aggregati di popolazione individuati in base alle definizioni
adottate. E’ probabile che l’uso di tali definizioni e la conseguente attribuzione dei soggetti
all’una o all’altra categoria avessero senso in una fase dello sviluppo economico in cui le
condizioni del mercato del lavoro (i flussi nelle due direzioni dentro-fuori) erano nettamente
definibili in un certo intervallo temporale, con una notevole stabilità e omogeneità delle
carriere lavorative. Attualmente la notevole segmentazione del mercato occupazionale e la
diversa partecipazione ad esso rendono queste categorie valide queste partizioni solo per
brevi intervalli di tempo.
Vi sono poi forme di disoccupazione “mascherata”: ci si riferisce a:
i) Pensionamento anticipato per cui un certo numero di persone in prossimità dell’ età di
pensione scompare dalle forze di lavoro, ma resta in larga misura disponibile a lavorare
ii) Attività di aggiornamento e qualificazione che alleggeriscono il numero dei disoccupati
in quanto queste attività vengono considerate temporanei parcheggi al di fuori dell’ambito
disoccupazione.
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iii) I lavoratori scoraggiati cioè una quota di individui che, a causa dei continui insuccessi
nella ricerca del lavoro, ad un certo punto smettono di impegnarsi nella ricerca di un’
occupazione. Anche questa fascia diminuisce il computo dei disoccupati totali, venendo
artificiosamente conteggiata nelle “non forze di lavoro”.