4
Tuttavia, negli ultimi anni la competitività tra porti è mutata in modo radicale,
andando ben oltre la competizione tra range portuali, gruppi di porti, singoli porti od
operatori portuali, ed estendendosi fino alle catene logistiche di cui gli stessi porti
fanno parte (
2
).
In questo quadro, un porto sarà in grado di attrarre notevoli flussi di merci solo
se inserito in una efficiente catena di trasporto. Il successo di un porto, non dipende
solo dalle sue performance, ma anche dalle connessioni con gli altri anelli della
catena: società di spedizione, autorità portuali, società di transhipment, modalità di
trasporto terrestre.
Questo nuovo scenario, comporta anche mutamenti negli obiettivi del
management portuale, che, non dovranno più limitarsi solamente ad incrementare il
volume di merci movimentate, incrementare il valore aggiunto, aumentare
l’occupazione e massimizzare il profitto.
Il fine ultimo di ogni gestione portuale, dovrà essere quello di minimizzare il
costo della catena di trasporto. Per ridurre tale costo dovranno effettuarsi degli
scambi reciproci tra i diversi anelli della catena, nel senso che, se un porto deve
essere servito via terra a causa dei suoi bassi fondali, poiché il trasporto via mare
costa meno rispetto a quello via terra, ciò potrà essere compensato mediante una
riduzione dei costi nei trasporti interni. Ciò, spiega perché si stanno realizzando delle
alleanze strategiche all’interno delle catene logistiche (es. tra società di spedizione e
società di operatori portuali). In particolare, le società di spedizione si adattano
continuamente ai cambiamenti sviluppando nuove strategie operative e introducendo
nuove tecnologie per competere nella nuova economia globale (
3
).
Sicuramente un porto inserito in una catena di trasporto che minimizza il costo
globale, ha maggiori possibilità di essere scelto, tuttavia occorre tener presente che
l’utente portuale tiene conto non solo del costo globale della catena di cui lo stesso
porto fa parte, ma anche dei servizi che esso sarà in grado di offrire. In particolare le
società di spedizione chiedono che un porto sia localizzato vicino ad un mercato, che
i costi per raggiungerlo siano bassi, che le spese portuali e i tempi d’attesa in porto
siano bassi, obiettivi che possono essere ottenuti con un’alta produttività ed un
efficiente sistema informativo.
I porti che vogliono essere competitivi, devono tener conto di tutti questi fattori.
Ciò vale in particolare per i porti del Mediterraneo, che, potranno sfruttare la loro
posizione strategica lungo gli importanti assi di trasporto verso l’Asia, solo se
riusciranno ad inserirsi in importanti catene logistiche.
Altro fattore determinante per la competitività e quindi per il successo di un
porto, è il modello organizzativo/gestionale. Un porto che vuole essere competitivo,
non può prescindere da un modello organizzativo/gestionale efficiente. Dotarsi di un
modello organizzativo gestionale efficiente, e quindi essere competitivi, è diventata
un’esigenza ormai imprescindibile per porsi in un’ottica di concorrenzialità e di
apertura alle sfide imposte dalla globalizzazione dei mercati. La rilevanza dell’assetto
(
2
) Cfr. H. Meersman, E. Van de Voorde, The changing nature of port competitition: the possible
consequences for mediterranean ports. Atti del Convegno. Ruolo del Mediterraneo nell’ambito del
trasporto marittimo internazionale e nazionale, S.I.D.T., Cagliari 22-23 ottobre1998.
(
3
) Ibidem.
5
organizzativo/gestionale, quale determinante del successo di un porto, è facilmente
comprensibile qualora si consideri il porto come un sistema complesso di relazioni
industriali che vede la contemporanea, conflittuale e collaborativa presenza di diversi
operatori.
Il modo in cui ciascun porto riesce a distribuire i ruoli e le funzioni tra le figure
compresenti nel complesso portuale, diventa quindi fondamentale per il suo successo.
La ripartizione di ruoli e funzioni all’interno del complesso portuale, varia
sensibilmente secondo il significato attribuito al porto. Vale a dire, a seconda che il
porto sia considerato come “servizio pubblico” (Comprehensive Port Autority) o
come “contenitore di opportunità di business” (Landlord Port Autority). Nel primo
caso, la Port Autority tende ad operare in condizioni di quasi monopolio, assumendo
la gestione complessiva del porto, inteso come sistema a se stante, e quindi
esercitando direttamente le attività portuali (sbarco, imbarco, movimentazione,
stoccaggio). Nel secondo caso, il porto viene considerato non solo un mero servizio
pubblico ma un complesso di imprese e operatori. In questo secondo caso l’Autorità
portuale sviluppa un’attività di gestione del territorio e della programmazione delle
infrastrutture, lasciando alle imprese private lo svolgimento delle operazioni portuali.
Con un certo grado di approssimazione, possiamo dire che in Italia siamo
passati da una concezione imperniata sulla Comprehensive P.A., a quella della
Landlord P.A. Questa, infatti è la concezione di porto adottata dalla legge 84/94
sull’esempio del “concorrente di riferimento” dei porti italiani rappresentato dai
grandi porti del Nord Europa.
Il complesso dei porti del Northern Range, localizzato tra Amburgo e Le Havre,
evidenzia, infatti, una chiara ripartizione di ruoli e funzioni fra l’ente pubblico (a
livello locale e nazionale), l’Autorità Portuale e gli operatori privati, al cui interno i
diversi soggetti trovano un proprio specifico ambito di responsabilità. All’interno di
questo disegno complessivo, la figura delle Port Authorities emerge come un ente
dotato di una struttura “leggera” e non operativa le cui, funzioni prevalenti, sono
quelle strategiche di pianificazione e gestione delle aree, alcuni servizi comuni di
natura tecnica e l’attività di promozione.
I porti del Northern Range quindi considerano il porto come “contenitore di
business”, attribuendo alla Port Authority una funzione di indirizzo e regolazione ma
non un ruolo operativo. L’aver considerato, il porto quale “contenitore di business”,
ha consentito ai porti del Nord Europa di acquisire un notevole vantaggio competitivo
nei confronti della portualità italiana imperniata su una concezione del porto, quale
“servizio pubblico”.
La maggior efficienza dei porti del Nord Europa e i minori costi che hanno
potuto vantare nei confronti della portualità italiana, hanno fatto si che circa il 50%
delle merci gravitanti sull’Italia Settentrionale, se si escludono i prodotti petroliferi e
metallurgici, con origine destinazione paesi extraeuropei, trovavano conveniente
servirsi dei porti del Nord Europa non sfruttando le possibilità offerte dal
Mediterraneo, per cui da Milano era conveniente servirsi di Rotterdam e Amburgo,
con una percorrenza media di 1300 Km in più di terraferma, denotando come anche la
struttura e l’organizzazione del trasporto interno italiano presentassero delle
gravissime diseconomie, piuttosto che del porto di Genova.
6
L’Italia, infatti, pur occupando una posizione strategica, al centro del
Mediterraneo, non ha saputo sfruttare tale posizione perché non ha saputo cogliere
per tempo le profonde trasformazioni che avvenivano, fin dagli anni ’70 grazie
all’introduzione di tecnologie sempre più avanzate, nell’assetto dei sistemi di
trasporto. Sistemi, che oltre a società di gestione efficienti e organizzate richiedevano
tecnologie avanzate negli approdi, in quanto dall’organizzazione dei porti, dipende
l’efficienza e l’economicità dei trasporti marittimi. In tale situazione, venivano
privilegiati i porti caratterizzati da elevati livelli di efficienza e di produttività e da
una moderna rete infrastrutturale che consentiva di sfruttare i vantaggi
dell’intermodalità. Il trasporto, infatti, spesso in mano ad una stessa impresa, è andato
via via integrandosi nei processi e nelle catene produttivi, perdendo la sua autonomia,
il suo carattere di servizio, per assumere quello di fase del processo produttivo, per
cui, il produttore deve integrare il trasporto nella sua attività e organizzarlo in modo
che esso sia un elemento importante ai fini della competitività del suo prodotto,
considerando oltre al costo del trasporto door to door, la tempestività dell’arrivo delle
merci nel mercato finale e la qualità del prodotto a destinazione. L’obiettivo è quello
di rendere minimo il costo globale del trasporto tra l’origine e la destinazione, in
quanto il prodotto sceglierà la catena che gli permette di arrivare a destinazione alle
condizioni migliori. A tal fine, ogni porto deve dotarsi di un assetto
organizzativo/gestionale che gli consenta di migliorare il costo globale della catena di
cui fa parte, minimizzando il “suo” costo, rappresentato dai servizi resi, direttamente
o indirettamente, al traffico d’importazione tra l’arrivo della nave davanti al porto e
l’uscita delle merci dai recinti del porto (inversamente per il traffico di esportazione).
Di fronte a queste innovazioni, l’Italia si è presentata con un sistema inadeguato
i cui gravosi costi, imposti per legge dallo Stato, le hanno fatto perdere a partire dal
1975-76 quasi tutto il traffico marittimo mondiale. Sebbene, il Mediterraneo fosse
interessato da un rilevantissimo flusso marittimo riguardante i traffici giramondo tra
il versante orientale del Nord America ed il Medio Oriente, e quelli tra il Nord
Europa e il Medio e L’Estremo Oriente, solo una piccola percentuale di questi, aveva
interessato i porti mediterranei portandosi direttamente sui porti del Nord Europa.
Ciò è avvenuto in quanto, in l’Italia, l’organizzazione e le prestazioni di servizi
non si erano sufficientemente evoluti in funzione dei bisogni di mercato, e ciò per due
ragioni: innanzitutto per la dispersione degli investimenti e delle strutture portuali con
la conseguenza di un livello generale dei nostri porti tale da non consentire a nessuno
di loro di competere con gli scali più concorrenziali ed efficienti del Nord Europa, e
ancora per la loro arcaica gestione al di fuori di ogni logica di tipo imprenditoriale,
per cui, non erano in grado di rispondere alle esigenze delle multinazionali che
governano la quota maggioritaria dei flussi di traffico e chiedono, per le loro merci,
rapidità, sicurezza, economicità di trasporto dal luogo di produzione al mercato
finale. Perché la portualità italiana, dopo anni di stagnazione e di polemiche, cominci
a fare notizia in positivo, occorre attendere la legge 84/94 che prevede un nuovo
assetto organizzativo per i porti. In questi ultimi anni, infatti, grazie al nuovo assetto
organizzativo, si sono registrati effetti positivi con incrementi dei traffici marittimi.
Oggetto di questo lavoro è lo studio dell’assetto organizzativo/gestionale dei
porti. L’intento, è stato quello di studiare l’assetto organizzativo/gestionale del porto
industriale di Oristano, la cui genesi ed il cui sviluppo, hanno seguito canali
alternativi rispetto ai canoni classici della portualità nazionale consentendogli di
ottenere risultati in controtendenza rispetto alla stessa. Tuttavia, prima di arrivare al
caso specifico era opportuno analizzare, il sistema portuale regionale e quindi
7
nazionale, cui, il porto appartiene tenendo presente la centralità del sistema portuale
di appartenenza, nel Mediterraneo, crocevia dei traffici mondiali, nel trasporto delle
merci.
Il lavoro si articola in quattro parti.
Nella prima parte (Capitolo I), volta a fornire un quadro sullo schema
organizzativo/gestionale dei porti italiani, si parte dalla legge di riforma
dell’ordinamento portuale (legge 84/94), quale punto d’arrivo del processo di
trasformazione della portualità italiana iniziato con la sentenza “Porto di Genova”,
che introduce sia pure con un ritardo pluridecennale, rispetto agli scali più
concorrenziali ed efficienti del Nord Europa, nuovi modelli organizzativi e di
gestione portuale. Dopo una breve parentesi dedicata ad alcune tra le disposizioni più
rilevanti contenute nella legge di riforma, si passa ad una descrizione di quello che
era l’assetto organizzativo e gestionale dei porti prima della riforma, e quindi alle
modifiche apportate allo stesso dalla legge di riforma, per poi concludere con un
breve cenno alle strutture organizzative e gestionali dei porti europei che
rappresentano il “concorrente di riferimento” dei porti italiani.
Nella seconda parte (Capitolo II), si fa riferimento alla nuova configurazione
assunta dal porto in seguito ai radicali mutamenti intervenuti a livello mondiale. Non
più solo luogo di imbarco e sbarco delle merci ma, elemento integrato in un sistema
di area industriale, e quindi fattore di sviluppo non solo dei traffici ma della stessa
industria. Quindi, si fa riferimento al ruolo dell’impresa portuale nello schema
organizzativo previsto dalla legge di riforma e in particolare alla liberalizzazione dei
servizi portuali e alla privatizzazione delle banchine, per arrivare alla privatizzazione
a livello internazionale e chiudere con la situazione esistente nei porti del centro Italia
e del Mezzogiorno.
La terza parte (Capitolo III), è dedicata ai porti della Sardegna, per la quale
l’organizzazione e gestione dei porti acquistano particolare rilevanza, dato che per la
sua conformazione geografica (isola), il 99 per cento delle merci in entrata e in uscita
utilizza la modalità marittima, essendo la modalità aerea l’unica alternativa possibile.
Infine, la quarta parte illustra un caso specifico: il porto industriale di Oristano
che, per il particolare schema organizzativo/gestionale adottato, non ha risentito della
crisi che ha caratterizzato la portualità nazionale. Fin dall’origine, esso si è
caratterizzato per aver operato in regime di industriale autonomia operativa; la
mancanza di una Compagnia Portuale, egregiamente sostituita a livello funzionale
dalle cooperative, ha permesso un contenimento di costi ed una flessibilità operativa,
che ha incentivato la localizzazione dei Terminal Operators.
8
CAPITOLO PRIMO
MODELLI ORGANIZZATIVI E GESTIONALI DEI
PORTI ITALIANI
§ 1.1. Quadro normativo di riferimento: l.84/94
Il nuovo assetto organizzativo e gestionale dei porti (industriali e commerciali) è
delineato dalla legge di riforma dell’ordinamento portuale (
4
). La legge in esame,
punto d'arrivo di quel processo di trasformazione della portualità italiana iniziato con
la sentenza “Porto di Genova” (
5
), introduce, sia pure con un ritardo pluridecennale,
(rispetto al rapido rinnovamento dei modelli di gestione portuale che caratterizzava
gli scali più concorrenziali ed efficienti sul piano internazionale e in particolare, i
maggiori centri marittimi del Nord Europa con i quali i nostri porti devono
quotidianamente confrontarsi), nuovi modelli organizzativi e di gestione portuale.
Fino alla suddetta riforma, infatti, i porti italiani erano fermi alla situazione
prebellica, con evidenti ripercussioni negative sulla loro competitività nel contesto
internazionale. Ciò è avvenuto in quanto, legislatori e governanti, non hanno saputo
adeguarsi per tempo alle profonde trasformazioni che avvenivano sul piano dei flussi
di traffici, delle tecnologie disponibili, dell’organizzazione dei cicli trasportistici,
dell’apertura e dello sviluppo di nuovi bacini d'utenza e dei nuovi assetti geo-politici
ed economici dell’Europa (
6
).
In una situazione del genere, si capisce come l’inefficienza complessiva della
portualità italiana, non potesse competere con la concorrenza interportuale sempre
più intensa ed incisiva degli scali europei che hanno finito per “scavalcare” i porti
italiani, nell’acquisizione dei traffici dell’hinterland europeo, tanto che si assiste ad
un crescente flusso di merci “ricche” dei nostri porti verso quelli del mare del Nord.
(
1
) La l. 28/1/1994, n.84. Per una disamina esauriente del contenuto della legge, Cfr. U. Marchese,
Riforma portuale in Italia. Centralismo, autonomia, autogoverno, in Studi marittimi, n. 45, gennaio/
giugno 1994, pp. 22 ss.
(
5
) Si tratta della ormai nota sentenza della Corte di Giustizia della Comunità Europea del 10
Dicembre 1991 sul monopolio del lavoro portuale, in seguito alla quale, nell’ordinamento italiano, si
sarebbe determinata, l’illegittimità:
a) dell’art.152 reg. cod. .nav., abrogato dalla legge 84/94, che richiedendo, ai lavoratori
portuali, il requisito della cittadinanza italiana per l’iscrizione nei registri delle compagnie e dei
gruppi, violava il principio della libera circolazione della manodopera negli Stati membri e il
divieto di discriminazioni fondate sulla nazionalità (artt.48 e 7 del Trattato);
b) degli artt.110 e111 c.nav., sui quali si incentrava la normativa interna relativa alle
operazioni portuali; il tema centrale della sentenza riguardava proprio la compatibilità dei suddetti
articoli con gli artt.86 e 90 del Trattato.
(
6
) Cfr. F. D’Aniello, Fisionomia dell’Autorità Portuale,in Studi Marittimi, n. 45, gennaio/giugno
1994, p. 5.
9
Del resto, l’immobilismo che ha caratterizzato l’ordinamento portuale italiano
per circa mezzo secolo, non poteva non ripercuotersi sull’efficienza della portualità
italiana, che ormai da tempo necessitava di una riforma volta ad eliminare le gestioni
deficitarie degli enti autonomi portuale.
A parte qualche lodevole eccezione, i suddetti enti, non hanno fornito risultati
positivi, né hanno raggiunto il loro fondamentale fine di incrementare i traffici
marittimi dei rispettivi scali e di favorire lo sviluppo commerciale ed industriale del
retroterra (
7
). Anzi, assumendo interessi ulteriori e diversi rispetto a quelli delle
categorie economiche amministrate, hanno costituito un appesantimento burocratico,
anche in termini finanziari, tanto che il passivo finanziario, raggiunto da alcuni dei
più importanti di essi, era ormai divenuto insostenibile per il bilancio dello Stato.
La riforma globale del sistema portuale, oltre ad essere stata sollecitata dagli
operatori del settore, è stata determinata dall’esigenza di adeguare il nostro
ordinamento ai principi di diritto comunitario. Anzi, è stata imposta dalla Corte di
Giustizia Europea che ipotizzava nelle possibili anomalie normative e tariffarie delle
gestioni delle maestranze portuali un abuso della posizione dominante riconosciuta
nella “riserva” ex art.110 c.nav.
Prima della sentenza “Porto di Genova” (
8
), l’assetto organizzativo e gestionale
dei porti italiani trovava la sua regolamentazione nel codice della navigazione e in
particolare in un sistema incentrato sull’art.110 (che prevedeva l’obbligo per le
aziende operanti in porto di avvalersi delle maestranze appartenenti ai gruppi e alle
compagnie portuali per l’effettuazione delle operazioni portuali) e sull’art.111 (che
prevedeva il regime di concessione per le imprese che svolgevano operazioni portuali
per conto terzi).
Il vecchio sistema è stato messo in crisi proprio dalla suddetta sentenza, con la
quale la Corte ha evidenziato l’incompatibilità degli artt.110 e 111 c.nav. con i
principi di diritto comunitario.
E in particolare, ha rilevato la contrarietà del monopolio legale previsto
dall’art.110 c.nav. (
9
) coi principi comunitari in materia di libertà e di concorrenza di
mercato.
Tuttavia, l’obbligo di avvalersi, per lo svolgimento delle operazioni portuali,
delle maestranze delle compagnie portuali, veniva meno quando, sia pure in casi
limitati ,“speciali” come recitava l’ultimo comma dell’art.110 c.nav., il Ministero
della Marina Mercantile (ora Ministero dei Trasporti e della Navigazione) concedeva
(
7
) Ibidem, p. 6.
(
8
) Per un'ampia analisi dei contenuti della sentenza, Cfr. C. Savona, Il nuovo assetto normativo
della organizzazione e della gestione dei porti., Sardegna Economica, Cagliari 1997, pp. 11 ss.
(
9
) L’art.110 c. nav. al 1 comma disponeva che le maestranze addette alle operazioni portuali,
dovevano costituirsi in gruppi e compagnie portuali soggetti alla vigilanza dell’autorità preposta alla
disciplina del lavoro portuale. Lo stesso articolo, all’ultimo comma, legittimava, inoltre, le compagnie
e i gruppi portuali all’attuazione esclusiva delle operazioni portuali in virtù della riserva prevista a loro
favore dall’art.110, ultimo comma, c.n. che disponeva: “Salvo casi speciali stabiliti dal Ministro della
Marina Mercantile l’esecuzione delle operazioni portuali è riservata alle compagnie o gruppi portuali”.
10
la cosiddetta autonomia funzionale, che comunque nella pratica, ha avuto limitate e
contestate applicazioni.
Diverso, invece, è il regime in cui agivano le imprese concessionarie operanti,
per conto terzi. Infatti, l’art.111 c.nav., presupponeva, nell’ambito di uno stesso
porto, una pluralità di imprese potenzialmente in concorrenza tra loro e considerava,
fatto eccezionale, la possibilità dell’amministrazione concedente di ridurre il numero
delle imprese stesse e di stabilirne il numero massimo. Inoltre, all’ultimo comma,
prevedeva: “in ogni caso l’impresa concessionaria deve avvalersi per l’esecuzione
delle operazioni portuali, esclusivamente delle maestranze costituite nelle compagnie
o nei gruppi”.
E’ vero che l’art.111 c.nav., a differenza dell’art.110 c.nav., non prevedeva
alcuna situazione di monopolio legale; la concessione, infatti, non riguardava un
servizio pubblico essenziale, o particolari poteri o funzioni, ma le operazioni di carico
e scarico delle merci, ed era necessaria per rimuovere, nell’interesse del titolare, i
limiti posti, per motivi di pubblico interesse alla libera esplicazione dell’attività
economica all’interno del porto, all’interno cioè di un bene pubblico demaniale di
pertinenza esclusiva dello Stato.
Solo l’ultimo comma dell’art.111 c.nav. era in contrasto con le norme del
trattato in materia di libera concorrenza. Tuttavia, la Corte ha censurato l’intero
articolo poiché di fatto le imprese concessionarie potevano godere di una posizione
dominante. Per la Corte, infatti, perché si abbia violazione del Trattato, non è
sufficiente che vi sia in astratto abuso di posizione dominante, ma occorre che si
abusi concretamente di tale posizione.
Tale abuso si poteva verificare quando le imprese concessionarie approfittando
della posizione occupata in virtù della concessione fornivano prestazioni equivalenti
a condizioni dissimili (ad es. praticando a chi richiedeva i servizi, tariffe o condizioni
negoziali non eque).
Ciò avveniva ogni qualvolta - o per il ristretto numero delle imprese operanti o
per l’esistenza di qualsiasi altro fattore - la libera concorrenza risultava turbata (
10
).
All’indomani della pronuncia della sentenza con la quale la Corte evidenziava
la contrarietà del codice della navigazione con l’ordinamento comunitario, la
situazione nei porti italiani non era certamente cambiata. Le compagnie portuali
continuavano ad avvantaggiarsi “dell’obbligo di avvalersi delle maestranze delle
compagnie per l’effettuazione delle operazioni portuali” e le imprese concessionarie
che godevano di una posizione di monopolio di fatto, continuavano a sfruttare tale
posizione.
(
10
) Nei porti italiani una situazione di monopolio, si era venuta a creare da alcuni decenni, con
riferimento ad alcuni Enti (ad es. il Provveditorato al porto di Venezia) che avevano assunto
direttamente l’esercizio delle operazioni portuali, mentre altri (ad es. nel porto di Genova Società
Merci Convenzionali e Terminali Contenitori) avevano costituito società da loro controllate che
avevano la concessione esclusiva per svolgere questa attività. Cfr. C. Savona, op. cit., p. 18.
11
Naturalmente, le compagnie portuali e le imprese concessionarie, non avrebbero
mai rinunciato spontaneamente ai privilegi di cui godevano per conformarsi alle
direttive della Corte in assenza di una specifica disposizione legislativa che glielo
imponesse. E’ così che ad un anno dalla sentenza, si arriva ad un provvedimento
normativo d’urgenza con il quale finalmente si è data attuazione sul piano normativo
alle direttive della Comunità Europea.
L’effetto principale del provvedimento in esame, è stato quello di abrogare le
norme codicistiche censurate dalla Corte per incompatibilità con l’ordinamento
comunitario anche se sarebbe stata auspicabile, una riforma globale del sistema
portuale. Infatti, sebbene fossero state recepite le indicazioni della Corte di Giustizia
nel senso di un radicale mutamento nella normativa italiana in materia portuale, tali
indicazioni non sono state sviluppate al fine di fornire una compiuta
regolamentazione che permettesse di rilanciare la portualità italiana rendendola più
competitiva attraverso una riorganizzazione efficiente dei porti.
Alla regolamentazione di cui aveva bisogno la portualità italiana per riacquistare
competitività a livello internazionale, si arriva il 28 gennaio 1994, quando il
Parlamento italiano, emana la tanto attesa legge di riforma dell’ordinamento portuale
(l.84/94) (
11
).
(
11
) In suppl.. ordinario alla G.U. n. 28 del 4 febbraio 1994.