4
Tuttavia, negli ultimi anni la competitività tra porti è mutata in modo radicale, 
andando ben oltre la competizione tra range portuali, gruppi di porti, singoli porti od 
operatori portuali, ed estendendosi fino alle catene logistiche di cui gli stessi porti 
fanno parte (
2
). 
 
In questo quadro, un porto sarà in grado di attrarre notevoli flussi di merci solo 
se inserito in una efficiente catena di trasporto. Il successo di un porto, non dipende 
solo dalle sue performance, ma anche dalle connessioni con gli altri anelli della 
catena: società di spedizione, autorità portuali, società di transhipment, modalità di 
trasporto terrestre.  
 
Questo nuovo scenario, comporta anche mutamenti negli obiettivi del 
management portuale, che, non dovranno più limitarsi solamente ad incrementare il 
volume di merci movimentate, incrementare il valore aggiunto, aumentare 
l’occupazione e massimizzare il profitto. 
 
Il fine ultimo di ogni gestione portuale, dovrà essere quello di minimizzare il 
costo della catena di trasporto. Per ridurre tale costo dovranno effettuarsi degli 
scambi reciproci tra i diversi anelli della catena, nel senso che, se un porto deve 
essere servito via terra a causa dei suoi bassi fondali, poiché il trasporto via mare 
costa meno rispetto a quello via terra, ciò potrà essere compensato mediante una 
riduzione dei costi nei trasporti interni. Ciò, spiega perché si stanno realizzando delle 
alleanze strategiche all’interno delle catene logistiche (es. tra società di spedizione e 
società di operatori portuali). In particolare, le società di spedizione si adattano 
continuamente ai cambiamenti sviluppando nuove strategie operative e introducendo 
nuove tecnologie per competere nella nuova economia globale (
3
). 
 
Sicuramente un porto inserito in una catena di trasporto che minimizza il costo 
globale, ha maggiori possibilità di essere scelto, tuttavia occorre tener presente che 
l’utente portuale tiene conto non solo del costo globale della catena di cui lo stesso 
porto fa parte, ma anche dei servizi che esso sarà in grado di offrire. In particolare le 
società di spedizione chiedono che un porto sia localizzato vicino ad un mercato, che 
i costi per raggiungerlo siano bassi, che le spese portuali e i tempi d’attesa in porto 
siano bassi, obiettivi che possono essere ottenuti con un’alta produttività ed un 
efficiente sistema informativo.  
 
I porti che vogliono essere competitivi, devono tener conto di tutti questi fattori. 
Ciò vale in particolare per i porti del Mediterraneo, che, potranno sfruttare la loro 
posizione strategica lungo gli importanti assi di trasporto verso l’Asia, solo se 
riusciranno ad inserirsi in importanti catene logistiche. 
 
Altro fattore determinante per la competitività e quindi per il successo di un 
porto, è il modello organizzativo/gestionale. Un porto che vuole essere competitivo, 
non può prescindere da un modello organizzativo/gestionale efficiente. Dotarsi di un 
modello organizzativo gestionale efficiente, e quindi essere competitivi, è diventata 
un’esigenza ormai imprescindibile per porsi in un’ottica di concorrenzialità e di 
apertura alle sfide imposte dalla globalizzazione dei mercati. La rilevanza dell’assetto 
                                                 
     (
2
) Cfr. H. Meersman, E. Van de Voorde, The changing nature of port competitition: the possible 
consequences for mediterranean ports. Atti del Convegno. Ruolo del Mediterraneo nell’ambito del 
trasporto marittimo internazionale e nazionale, S.I.D.T., Cagliari 22-23 ottobre1998. 
     (
3
) Ibidem. 
 5
organizzativo/gestionale, quale determinante del successo di un porto, è facilmente 
comprensibile qualora si consideri il porto come un sistema complesso di relazioni 
industriali che vede la contemporanea, conflittuale e collaborativa presenza di diversi 
operatori.  
 
Il modo in cui ciascun porto riesce a distribuire i ruoli e le funzioni tra le figure 
compresenti nel complesso portuale, diventa quindi fondamentale per il suo successo. 
La ripartizione di ruoli e funzioni all’interno del complesso portuale, varia 
sensibilmente secondo il significato attribuito al porto.  Vale a dire, a seconda che il 
porto sia considerato come “servizio pubblico” (Comprehensive Port Autority) o 
come “contenitore di opportunità di business” (Landlord Port Autority). Nel primo 
caso, la Port Autority tende ad operare in condizioni di quasi monopolio, assumendo 
la gestione complessiva del porto, inteso come sistema a se stante, e quindi 
esercitando direttamente le attività portuali (sbarco, imbarco, movimentazione, 
stoccaggio). Nel secondo caso, il porto viene considerato non solo un mero servizio 
pubblico ma un complesso di imprese e operatori. In questo secondo caso l’Autorità 
portuale sviluppa un’attività di gestione del territorio e della programmazione delle 
infrastrutture, lasciando alle imprese private lo svolgimento delle operazioni portuali. 
 
Con un certo grado di approssimazione, possiamo dire che in Italia siamo 
passati da una concezione imperniata sulla Comprehensive P.A., a quella della 
Landlord P.A. Questa, infatti è la concezione di porto adottata dalla legge 84/94 
sull’esempio del “concorrente di riferimento” dei porti italiani rappresentato dai 
grandi porti del Nord Europa. 
 
Il complesso dei porti del Northern Range, localizzato tra Amburgo e Le Havre, 
evidenzia, infatti, una chiara ripartizione di ruoli e funzioni fra l’ente pubblico (a 
livello locale e nazionale), l’Autorità Portuale e gli operatori privati, al cui interno i 
diversi soggetti trovano un proprio specifico ambito di responsabilità. All’interno di 
questo disegno complessivo, la figura delle Port Authorities emerge come un ente 
dotato di una struttura “leggera” e non operativa le cui, funzioni prevalenti, sono 
quelle strategiche di pianificazione e gestione delle aree, alcuni servizi comuni di 
natura tecnica e l’attività di promozione.  
 
I porti del Northern Range quindi considerano il porto come “contenitore di 
business”, attribuendo alla Port Authority una funzione di indirizzo e regolazione ma 
non un ruolo operativo. L’aver considerato, il porto quale “contenitore di business”, 
ha consentito ai porti del Nord Europa di acquisire un notevole vantaggio competitivo 
nei confronti della portualità italiana imperniata su una concezione del porto, quale 
“servizio pubblico”.  
 
La maggior efficienza dei porti del Nord Europa e i minori costi che hanno 
potuto vantare nei confronti della portualità italiana, hanno fatto si che circa il 50% 
delle merci gravitanti sull’Italia Settentrionale, se si escludono i prodotti petroliferi e 
metallurgici, con origine destinazione paesi extraeuropei, trovavano conveniente 
servirsi dei porti del Nord Europa non sfruttando le possibilità offerte dal 
Mediterraneo, per cui da Milano era conveniente servirsi di Rotterdam e Amburgo, 
con una percorrenza media di 1300 Km in più di terraferma, denotando come anche la 
struttura e l’organizzazione del trasporto interno italiano presentassero delle 
gravissime diseconomie, piuttosto che del porto di Genova.  
 
 6
L’Italia, infatti, pur occupando una posizione strategica, al centro del 
Mediterraneo, non ha saputo sfruttare tale posizione perché non ha saputo cogliere 
per tempo le profonde trasformazioni che avvenivano, fin dagli anni ’70 grazie 
all’introduzione di tecnologie sempre più avanzate, nell’assetto dei sistemi di 
trasporto. Sistemi, che oltre a società di gestione efficienti e organizzate richiedevano 
tecnologie avanzate negli approdi, in quanto dall’organizzazione dei porti, dipende 
l’efficienza e l’economicità dei trasporti marittimi. In tale situazione, venivano 
privilegiati i porti caratterizzati da elevati livelli di efficienza e di produttività e da 
una moderna rete infrastrutturale che consentiva di sfruttare i vantaggi 
dell’intermodalità. Il trasporto, infatti, spesso in mano ad una stessa impresa, è andato 
via via integrandosi nei processi e nelle catene produttivi, perdendo la sua autonomia, 
il suo carattere di servizio, per assumere quello di fase del processo produttivo, per 
cui, il produttore deve integrare il trasporto nella sua attività e organizzarlo in modo 
che esso sia un elemento importante ai fini della competitività del suo prodotto, 
considerando oltre al costo del trasporto door to door, la tempestività dell’arrivo delle 
merci nel mercato finale e la qualità del prodotto a destinazione. L’obiettivo è quello 
di rendere minimo il costo globale del trasporto tra l’origine e la destinazione, in 
quanto il prodotto sceglierà la catena che gli permette di arrivare a destinazione alle 
condizioni migliori. A tal fine, ogni porto deve dotarsi di un assetto 
organizzativo/gestionale che gli consenta di migliorare il costo globale della catena di 
cui fa parte, minimizzando il “suo” costo, rappresentato  dai servizi resi, direttamente 
o indirettamente, al traffico d’importazione tra l’arrivo della nave davanti al porto e 
l’uscita delle merci dai recinti del porto (inversamente per il traffico di esportazione). 
 
Di fronte a queste innovazioni, l’Italia si è presentata con un sistema inadeguato 
i cui gravosi costi, imposti per legge dallo Stato, le hanno fatto perdere a partire dal 
1975-76 quasi tutto il traffico marittimo mondiale. Sebbene, il Mediterraneo fosse 
interessato da un rilevantissimo flusso marittimo riguardante i traffici giramondo tra 
il versante orientale del Nord America ed il Medio Oriente, e quelli tra il Nord 
Europa e il Medio e L’Estremo Oriente, solo una piccola percentuale di questi, aveva 
interessato i porti mediterranei portandosi direttamente sui porti del Nord Europa.  
 
Ciò è avvenuto in quanto, in l’Italia, l’organizzazione e le prestazioni di servizi 
non si erano sufficientemente evoluti in funzione dei bisogni di mercato, e ciò per due 
ragioni: innanzitutto per la dispersione degli investimenti e delle strutture portuali con 
la conseguenza di un livello generale dei nostri porti tale da non consentire a nessuno 
di loro di competere con gli scali più concorrenziali ed efficienti del Nord Europa, e 
ancora per la loro arcaica gestione al di fuori di ogni logica di tipo imprenditoriale, 
per cui, non erano in grado di rispondere alle esigenze delle multinazionali che 
governano la quota maggioritaria dei flussi di traffico e chiedono, per le loro merci, 
rapidità, sicurezza, economicità di trasporto dal luogo di produzione al mercato 
finale. Perché la portualità italiana, dopo anni di stagnazione e di polemiche, cominci 
a fare notizia in positivo, occorre attendere la legge 84/94 che prevede un nuovo 
assetto organizzativo per i porti. In questi ultimi anni, infatti, grazie al nuovo assetto 
organizzativo, si sono registrati effetti positivi con incrementi dei traffici marittimi. 
 
Oggetto di questo lavoro è lo studio dell’assetto organizzativo/gestionale dei 
porti. L’intento, è stato quello di studiare l’assetto organizzativo/gestionale del porto 
industriale di Oristano, la cui genesi ed il cui sviluppo, hanno seguito canali 
alternativi rispetto ai canoni classici della portualità nazionale consentendogli di 
ottenere risultati in controtendenza rispetto alla stessa. Tuttavia, prima di arrivare al 
caso specifico era opportuno analizzare, il sistema portuale regionale e quindi 
 7
nazionale, cui, il porto appartiene tenendo presente la centralità del sistema portuale 
di appartenenza, nel Mediterraneo, crocevia dei traffici mondiali, nel trasporto delle 
merci.  
 
Il lavoro si articola in quattro parti. 
Nella prima parte (Capitolo I), volta a fornire un quadro sullo schema 
organizzativo/gestionale dei porti italiani, si parte dalla legge di riforma 
dell’ordinamento portuale (legge 84/94), quale punto d’arrivo del processo di 
trasformazione della  portualità italiana iniziato con la sentenza “Porto di Genova”, 
che introduce sia pure con un ritardo pluridecennale, rispetto agli scali più 
concorrenziali ed efficienti del Nord Europa, nuovi modelli organizzativi e di 
gestione portuale. Dopo una breve parentesi dedicata ad alcune tra le disposizioni più 
rilevanti contenute nella legge di riforma, si passa ad una descrizione di quello che 
era l’assetto organizzativo e gestionale dei porti prima della riforma, e quindi alle 
modifiche apportate allo stesso dalla legge di riforma, per poi concludere con un 
breve cenno alle strutture organizzative e gestionali dei porti europei che 
rappresentano il “concorrente di riferimento” dei porti italiani. 
 
Nella seconda parte (Capitolo II), si fa riferimento alla nuova configurazione 
assunta dal porto in seguito ai radicali mutamenti intervenuti a livello mondiale. Non 
più solo luogo di imbarco e sbarco delle merci ma, elemento integrato in un sistema 
di area industriale, e quindi fattore di sviluppo non solo dei traffici ma della stessa 
industria. Quindi, si fa riferimento al ruolo dell’impresa portuale nello schema 
organizzativo previsto dalla legge di riforma e in particolare alla liberalizzazione dei 
servizi portuali e alla privatizzazione delle banchine, per arrivare alla privatizzazione 
a livello internazionale e chiudere con la situazione esistente nei porti del centro Italia 
e del Mezzogiorno.  
 
La terza parte (Capitolo III), è dedicata ai porti della Sardegna, per la quale 
l’organizzazione e gestione dei porti acquistano particolare rilevanza, dato che per la 
sua conformazione geografica (isola), il 99 per cento delle merci in entrata e in uscita 
utilizza la modalità marittima, essendo la modalità aerea l’unica alternativa possibile. 
 
Infine, la quarta parte illustra un caso specifico: il porto industriale di Oristano 
che, per il particolare schema organizzativo/gestionale adottato, non ha risentito della 
crisi che ha caratterizzato la portualità nazionale. Fin dall’origine, esso si è 
caratterizzato per aver operato in regime di industriale autonomia operativa; la 
mancanza di una Compagnia Portuale, egregiamente sostituita a livello funzionale 
dalle cooperative, ha permesso un contenimento di costi ed una flessibilità operativa, 
che ha incentivato la localizzazione dei Terminal Operators. 
 
 8
 
 
 
CAPITOLO PRIMO  
 
MODELLI  ORGANIZZATIVI E GESTIONALI DEI 
PORTI ITALIANI 
 
 
§ 1.1. Quadro normativo di riferimento: l.84/94 
 
       Il nuovo assetto organizzativo e gestionale dei porti (industriali e commerciali) è 
delineato dalla legge di riforma dell’ordinamento portuale (
4
). La legge in esame, 
punto d'arrivo di quel processo di trasformazione della portualità italiana iniziato con 
la sentenza “Porto di Genova” (
5
), introduce, sia pure con un ritardo pluridecennale, 
(rispetto al rapido rinnovamento dei modelli di gestione portuale che caratterizzava 
gli scali più concorrenziali ed efficienti sul piano internazionale e in particolare, i 
maggiori centri marittimi del Nord Europa con i quali i nostri porti devono 
quotidianamente confrontarsi), nuovi modelli organizzativi e di gestione portuale.  
          
        Fino alla suddetta riforma, infatti, i porti italiani erano fermi alla situazione 
prebellica, con evidenti ripercussioni negative sulla loro competitività nel contesto 
internazionale. Ciò è avvenuto in quanto, legislatori e governanti, non hanno saputo 
adeguarsi per tempo alle profonde trasformazioni che avvenivano sul piano dei flussi 
di traffici, delle tecnologie disponibili, dell’organizzazione dei cicli trasportistici, 
dell’apertura e dello sviluppo di nuovi bacini d'utenza e dei nuovi assetti geo-politici 
ed economici dell’Europa  (
6
).  
 
In una situazione del genere, si capisce come l’inefficienza complessiva della 
portualità italiana, non potesse competere con la concorrenza interportuale sempre 
più intensa ed incisiva degli scali europei che hanno finito per “scavalcare” i porti 
italiani, nell’acquisizione dei traffici dell’hinterland europeo, tanto che si assiste ad 
un crescente flusso di merci “ricche” dei nostri porti verso quelli del mare del Nord. 
 
                                                 
     (
1
) La l. 28/1/1994,  n.84.  Per una disamina esauriente del contenuto della legge, Cfr. U. Marchese, 
Riforma portuale in Italia. Centralismo, autonomia, autogoverno, in Studi marittimi, n. 45, gennaio/ 
giugno 1994, pp. 22 ss.         
(
5
) Si tratta della ormai  nota sentenza della Corte di  Giustizia della Comunità Europea del 10 
Dicembre 1991 sul monopolio del lavoro portuale, in seguito alla quale, nell’ordinamento italiano, si 
sarebbe determinata, l’illegittimità: 
a)  dell’art.152 reg. cod. .nav., abrogato dalla legge 84/94, che richiedendo, ai lavoratori 
portuali, il requisito della cittadinanza italiana per l’iscrizione nei registri delle compagnie e dei 
gruppi, violava il principio della libera circolazione della manodopera negli Stati  membri e il 
divieto di discriminazioni fondate sulla nazionalità (artt.48 e 7 del Trattato); 
b)  degli artt.110 e111 c.nav., sui quali si incentrava la normativa interna relativa alle 
operazioni portuali;  il tema centrale della sentenza riguardava proprio la compatibilità dei suddetti 
articoli con gli artt.86 e 90 del Trattato. 
     (
6
) Cfr. F. D’Aniello, Fisionomia dell’Autorità Portuale,in Studi Marittimi, n. 45, gennaio/giugno 
1994, p. 5. 
 9
Del resto, l’immobilismo che ha caratterizzato l’ordinamento portuale italiano 
per circa mezzo secolo, non poteva non ripercuotersi sull’efficienza della portualità 
italiana, che ormai da tempo necessitava di una riforma volta ad eliminare le gestioni 
deficitarie degli enti autonomi portuale. 
 
A parte qualche lodevole eccezione, i suddetti enti, non hanno fornito risultati 
positivi, né hanno raggiunto il loro fondamentale fine di incrementare i traffici 
marittimi dei rispettivi scali e di favorire lo sviluppo commerciale ed industriale del 
retroterra (
7
). Anzi, assumendo interessi ulteriori e diversi rispetto a quelli delle 
categorie economiche amministrate, hanno costituito un appesantimento burocratico, 
anche in termini finanziari, tanto che il passivo finanziario, raggiunto da alcuni dei 
più importanti di essi, era ormai divenuto insostenibile per il bilancio dello Stato. 
 
La riforma globale del sistema portuale, oltre ad essere stata sollecitata dagli 
operatori del settore, è stata determinata dall’esigenza di adeguare il nostro 
ordinamento ai principi di diritto comunitario. Anzi, è stata imposta dalla  Corte di 
Giustizia Europea che ipotizzava nelle possibili anomalie normative e tariffarie delle 
gestioni delle maestranze portuali un abuso della posizione dominante  riconosciuta 
nella “riserva” ex art.110 c.nav.  
 
Prima della sentenza “Porto di Genova” (
8
), l’assetto organizzativo e gestionale 
dei porti italiani trovava la sua regolamentazione nel codice della navigazione e in 
particolare in un sistema incentrato sull’art.110 (che prevedeva l’obbligo per le 
aziende operanti in porto di avvalersi delle maestranze appartenenti  ai gruppi e alle 
compagnie portuali per l’effettuazione delle operazioni portuali) e sull’art.111 (che 
prevedeva il regime di concessione per le imprese che svolgevano operazioni portuali 
per conto terzi). 
 
Il vecchio sistema è stato messo in crisi proprio dalla suddetta sentenza, con la 
quale la Corte ha evidenziato l’incompatibilità degli artt.110 e 111 c.nav. con i 
principi di diritto comunitario.  
 
E in particolare, ha rilevato la contrarietà del monopolio legale previsto 
dall’art.110 c.nav. (
9
) coi principi comunitari in  materia di libertà e di concorrenza di 
mercato. 
 
Tuttavia, l’obbligo di avvalersi, per lo svolgimento delle operazioni portuali, 
delle maestranze delle compagnie portuali, veniva meno quando, sia pure in casi 
limitati ,“speciali” come recitava l’ultimo comma dell’art.110 c.nav., il Ministero 
della Marina Mercantile (ora Ministero dei Trasporti e della Navigazione) concedeva 
                                                 
     (
7
) Ibidem, p. 6. 
     (
8
) Per un'ampia analisi dei contenuti della sentenza, Cfr. C. Savona, Il nuovo assetto normativo 
della organizzazione e della gestione dei porti., Sardegna Economica, Cagliari 1997, pp. 11 ss. 
(
9
) L’art.110 c. nav. al 1 comma disponeva che le maestranze addette alle operazioni portuali, 
dovevano costituirsi in gruppi e compagnie portuali soggetti alla vigilanza dell’autorità preposta alla 
disciplina del  lavoro portuale. Lo stesso articolo, all’ultimo comma, legittimava, inoltre, le compagnie 
e i gruppi portuali all’attuazione esclusiva delle operazioni portuali in virtù della riserva prevista a loro 
favore dall’art.110, ultimo comma, c.n. che disponeva: “Salvo casi speciali stabiliti dal Ministro della 
Marina Mercantile l’esecuzione delle operazioni portuali è riservata alle compagnie o gruppi portuali”. 
 
 
 
 10
la cosiddetta  autonomia funzionale, che comunque nella pratica, ha avuto limitate e 
contestate applicazioni.  
 
Diverso, invece, è il regime in cui agivano le imprese concessionarie operanti, 
per conto terzi. Infatti, l’art.111 c.nav., presupponeva, nell’ambito di uno stesso 
porto, una pluralità di imprese potenzialmente in concorrenza tra loro e considerava, 
fatto eccezionale, la possibilità dell’amministrazione concedente di ridurre il numero 
delle imprese stesse e di stabilirne il numero massimo. Inoltre, all’ultimo comma, 
prevedeva: “in ogni caso l’impresa concessionaria deve avvalersi per l’esecuzione 
delle operazioni portuali, esclusivamente delle maestranze costituite nelle compagnie 
o nei gruppi”. 
 
E’ vero che l’art.111 c.nav., a differenza dell’art.110 c.nav., non prevedeva 
alcuna situazione di monopolio legale; la concessione, infatti, non riguardava un 
servizio pubblico essenziale, o particolari poteri o funzioni, ma le operazioni di carico 
e scarico delle merci, ed era necessaria per rimuovere, nell’interesse del titolare, i 
limiti posti, per motivi di pubblico interesse alla libera esplicazione dell’attività 
economica all’interno del porto, all’interno cioè di un bene pubblico demaniale di 
pertinenza esclusiva dello Stato.       
 
Solo l’ultimo comma dell’art.111 c.nav. era in contrasto con le norme del 
trattato in materia di libera concorrenza. Tuttavia, la Corte  ha censurato l’intero 
articolo poiché di fatto le imprese concessionarie potevano godere di una posizione 
dominante. Per la Corte, infatti, perché si abbia violazione del Trattato, non è 
sufficiente che vi sia in astratto abuso di posizione dominante, ma occorre che si 
abusi concretamente di tale posizione.  
 
Tale abuso si poteva verificare quando le imprese concessionarie approfittando 
della posizione occupata in virtù della concessione fornivano prestazioni equivalenti 
a condizioni dissimili (ad es. praticando a chi richiedeva i servizi, tariffe o condizioni 
negoziali non eque).  
 
Ciò avveniva ogni qualvolta - o per il ristretto numero delle imprese operanti o 
per l’esistenza di qualsiasi altro fattore - la libera concorrenza risultava turbata (
10
). 
 
All’indomani della pronuncia della sentenza con la quale la Corte evidenziava 
la contrarietà del codice della navigazione con l’ordinamento comunitario, la 
situazione nei porti italiani non era certamente cambiata. Le compagnie portuali 
continuavano ad avvantaggiarsi “dell’obbligo di avvalersi delle maestranze delle 
compagnie per l’effettuazione delle operazioni portuali” e le imprese concessionarie 
che godevano di una posizione di monopolio di fatto, continuavano a sfruttare tale 
posizione. 
 
                                                 
     (
10
) Nei porti italiani una situazione di  monopolio, si era venuta a creare da alcuni decenni, con 
riferimento ad alcuni Enti (ad es. il Provveditorato al porto di Venezia) che avevano assunto 
direttamente l’esercizio delle operazioni portuali, mentre altri (ad es. nel porto di Genova Società 
Merci Convenzionali e Terminali Contenitori) avevano costituito società da loro controllate che 
avevano la concessione esclusiva per svolgere questa attività. Cfr. C. Savona, op. cit., p. 18. 
 11
        Naturalmente, le compagnie portuali e le imprese concessionarie, non avrebbero 
mai rinunciato  spontaneamente ai privilegi di cui godevano per conformarsi alle 
direttive della Corte in assenza di una specifica disposizione legislativa che glielo 
imponesse. E’ così che ad un anno dalla sentenza, si arriva ad un provvedimento 
normativo d’urgenza con il quale finalmente si è data attuazione sul piano normativo 
alle direttive della Comunità Europea. 
 
L’effetto principale del provvedimento in esame, è stato quello di abrogare le 
norme codicistiche censurate dalla Corte per incompatibilità con l’ordinamento 
comunitario anche se sarebbe stata auspicabile, una riforma globale del sistema 
portuale. Infatti, sebbene fossero state recepite le indicazioni della Corte di Giustizia 
nel senso di un radicale mutamento nella normativa italiana in materia portuale, tali 
indicazioni non sono state sviluppate al fine di fornire una compiuta 
regolamentazione che permettesse di rilanciare la portualità italiana rendendola più 
competitiva attraverso una riorganizzazione efficiente dei porti. 
         
       Alla regolamentazione di cui aveva bisogno la portualità italiana per riacquistare 
competitività a livello internazionale, si arriva il 28 gennaio 1994, quando il 
Parlamento italiano, emana la tanto attesa legge di riforma dell’ordinamento portuale 
(l.84/94) (
11
). 
 
 
                                                 
(
11
) In suppl.. ordinario alla G.U. n. 28 del 4 febbraio 1994.