II
professionalizzazione ormai necessari accanto allo slancio personale e alla buona
volontà del singolo che decide di fare volontariato.
Una nuova cultura dei servizi e della solidarietà si sta facendo strada e porta con sé il
corollario della necessità di formazione dei suoi operatori.
Il tema della formazione nel volontariato peraltro, pur essendo al centro del dibattito
attuale (Bramanti, 1994), non ha un significato univoco: viene intesa a volte come
momento di preparazione tecnica, a volte come momento informativo, a volte come
semplice rinforzo della motivazione. In questo come in altri settori si dovrebbe dunque
parlare di “formazioni” con caratteristiche ed obiettivi diversi.
A questa eterogeneità si contrappone però la sfida attuale di una formazione di qualità
il cui obiettivo principale sia di tipo metacognitivo: non si tratta più di fornire risposte,
ma di aiutare le persone a scoprire e riflettere sui problemi per mettere in atto
comportamenti autonomi ed adeguati alla situazione cui di volta in volta devono far
fronte (Rocchi, 1993). Si tratta di approfondire una coscienza dei problemi, più che una
conoscenza astratta, si tratta dunque di una formazione complessa.
Tutto ciò richiede la costruzione di percorsi formativi appositamente studiati in
relazione ai bisogni cui si vuole rispondere, all’utenza, al tipo di volontari cui ci si
rivolge, al contesto d’azione.
Si tratta di una ricerca-azione che richiede la continua raccolta di informazioni dal
contesto e la considerazione degli aspetti unici e peculiari che una situazione porta con
sé.
La formazione “ad hoc” è dunque necessaria, ed implica un processo di conoscenza
sempre aperto al nuovo e all’imprevisto, coerente col paradigma della complessità cui si
farà più volte riferimento nei seguenti capitoli.
Ecco perché la mia ricerca si pone come descrizione analitica di un’esperienza
concreta di valutazione, riprogettazione e messa in atto di un percorso formativo per
volontari ABIO (Associazione per il Bambino in Ospedale) di Crema.
Il valore di questo mio lavoro trova la sua legittimazione nella definizione che
Demetrio dà di ricerca empirica (Formenti, 1998b): secondo l’autore si deve fare ricerca
sulla formazione facendo formazione, focalizzando ed ingrandendo eventi formativi
concreti, facendo analisi locale, contestualizzata, sistemica degli elementi in gioco.
Secondo l’autore, per fare ciò si devono raccogliere i punti di vista dei soggetti
coinvolti, costruire una conoscenza complessa, mai finita e mai assoluta e penso di aver
esplicitato il suo paradigma di ricerca nel lavoro descritto nella presente tesi.
III
Si è trattato infatti di una ricerca che ha visto il mio intervento attivo in tutte le diverse
fasi in cui si è articolata, permettendomi una conoscenza diretta di diversi fenomeni che
fanno parte della dinamica formativa nel suo farsi.
La costruzione della conoscenza è venuta articolandosi come processo dialogico e
conversazionale tra le parti, una raccolta di narrazioni, come in effetti descritto da
Kaneklin e Scaratti (1998).
Mi riallaccio così ad un’altra linea guida del mio lavoro: l’approccio narrativo, da cui
peraltro nasce l’approccio autobiografico di Demetrio (Bruner, 1986; 1990; 1991).
La metafora narrativa ha guidato la mia modalità di ricerca sul campo nonché la
modalità espositiva della presente tesi, nella convinzione che la ricerca del significato,
nella formazione come in molte altre situazioni della vita, sia l’atteggiamento più
adeguato per immergerci costruttivamente nella complessità del reale così come oggi si
manifesta ( Bocchi, Ceruti, 1985; Fabbri, 1990).
Anche a livello scientifico, l’approccio narrativo trova la sua spendibilità così come
descritto efficacemente da Zanarini (1990, p.73): “diviene allora centrale in quest’ottica
[quella della complessità] il trasferimento dell’esperienza degli scienziati, la narrazione
(corsivo mio) di percorsi, il racconto di vicende di rapporto con l’oggetto della propria
scienza”.
E ancora (Ibidem, p.89) “sempre più allora i nostri scritti saranno ‘diari di viaggio’,
sempre più spazio in essi ci sarà per la riflessione sul senso che il viaggio ha per noi, sul
senso stesso dell’averlo intrapreso e del continuarlo”.
Viaggio e narrazione sono dunque le due immagini che più si adeguano a quanto da
me vissuto e sperimentato in questi mesi di lavoro, e che più esprimono
metaforicamente il senso di quanto in questa tesi è sintetizzato.
Come già accennato, si tratta di una ricerca sul campo che mi ha visto coinvolta in una
prima fase di analisi del contesto organizzativo e valutazione del corso di formazione
per volontari ABIO Crema (cap.1); a questa prima fase di analisi valutativa (cap.2) è
seguita la fase di riprogettazione del corso alla luce di quanto emerso dalle interviste da
me condotte (cap.3); infine ho partecipato alla messa in atto del nuovo progetto di
formazione cui ho fatto seguire una breve prima valutazione d’impatto (cap. 4).
1
CAPITOLO PRIMO
Il contesto d’azione: il mondo del volontariato e l’ABIO
1. IL MONDO DEL VOLONTARIATO IN ITALIA
Questa tesi si inserisce in un contesto preciso: quello del volontariato. Si tratta di una
realtà ben presente e sviluppata in Italia (nel 1997 erano iscritte ai registri regionali
quasi 12000 organizzazioni di volontariato), soprattutto nelle regioni settentrionali del
Paese (la Lombardia è la prima regione per numero di volontari e organizzazioni)
(ISTAT, 1999). Si tratta di associazioni, gruppi informali, fondazioni, in cui persone
decidono di dedicare parte del loro tempo ai più bisognosi, in diverse aree. Il mondo del
volontariato è peraltro eterogeneo nelle forme, nella modalità di azione e nell’utenza
oggetto d’attenzione, tanto che Tomai (1996) suggerisce di parlare di “volontariati”:
fino ad un trentennio fa si trattava per lo più di offrire servizi tipici di un welfare
leggero, con funzione di supporto rispetto agli interventi delle amministrazioni
pubbliche, ma da allora qualcosa è cambiato: “Il segnale che il mondo del volontariato
invia al momento attuale è quello di una realtà in profonda evoluzione, che dal modello
tradizionale assistenzialistico e amatoriale sta spiccando il volo verso una dimensione in
cui si coniugano solidarietà, promozione e professionalità della relazione d’aiuto”
(Boccacin, 1997, p.17). L’autrice ha potuto osservare una nuova tensione delle
organizzazioni di volontariato al continuo miglioramento, all’ottimizzazione dei servizi
offerti, affinché i servizi erogati possano sempre più integrare l’attività istituzionale,
muovendosi con flessibilità, autonomia e personalizzazione nello stile di intervento
(ISTAT,1999; Boccacin, 1997; Guglielmetti, Marta, Peri, 2000).
Il mondo del volontariato si pone così come risorsa da valorizzare e sostenere (Gario,
1996), affinché continui a porsi sul limite, e oltre il limite dell’attività istituzionale: basti
pensare che il settore non profit (di cui il volontariato è parte significativa) ha raggiunto
nel sociale risultati significativi anche laddove lo Stato si è arenato (Zamagni, 1996). Il
mondo del volontariato è dunque una realtà dinamica, in crescita, una crescita
determinata, secondo Zamagni, dalla necessità di far fronte alla complessità crescente
della società ed al conseguente bisogno di rivalutazione dei rapporti sociali primari,
quelli che prendono in considerazione la persona nel suo complesso: si tratterebbe di un
movimento di riscatto a fronte di quei valori di egoismo e individualismo sempre più
2
imperanti nelle nostre società moderne, tanto che Bausola (1983) parla di una società
dell’indifferenza; nello stesso contesto sociale si incontrano, insomma, spinte alla
frammentazione e istanze solidaristiche (Boccacin, 1994; Ranci, 1990), forze potenti
che si muovono in direzioni opposte. E per questo risulta importante approfondire lo
studio e la conoscenza di un fenomeno che ha nelle nostre società così ampia espansione
e rilevanza, affinché si possa apprendere da questa fonte nel modo migliore e la si possa
potenziare e indirizzare laddove maggiore è il bisogno: secondo Fadda e Mazzette
(1990) la potenzialità del volontariato sta proprio nel fatto che si muove dentro la
particolarità, raccogliendo le “emergenze” a partire dagli individui stessi, quindi con un
percorso inverso a quello statuale e con una flessibilità notevole, che permette di
adattarsi sempre a nuove sfide.
Tornando all’eterogeneità del mondo del volontariato, essa si incontra anche nel
tentativo di creare un profilo del volontario: in realtà si ritrovano in questa categoria
persone diverse per genere, età, professione, livello socioculturale, accomunate dal
desiderio di fare qualcosa per il prossimo. Una caratterizzazione appare però, ed è
interessante rilevarla: una netta prevalenza della figura femminile nell’area del
volontariato socio-assistenziale, mentre gli uomini preferiscono gli ambiti della
protezione civile e della difesa ambientale (Rossi, Colozzi, 1984; Cesareo, Rossi, 1994).
Anche i servizi offerti, come dicevamo precedentemente, sono vari ed eterogenei: si
tratta di prestazioni legate all’emergenza sanitaria (ad es. donazione di sangue, attività
di soccorso), attività di cura (educative, di animazione, di assistenza domiciliare, di
ascolto), attività di ricerca, studio e documentazione, e un’area innovativa fa riferimento
alla promozione e alla difesa dei diritti civili. Fatta eccezione per queste due ultime e
recenti aree, i volontari si trovano dunque impegnati prevalentemente face to face con
soggetti che hanno bisogno di aiuto, e ciò ci permette di dire che il prodotto delle
diverse forme di volontariato, in tutti questi casi, è un “bene relazionale” (Donati,
1991), che pone in connessione diretta il volontario con l’utenza, in condizioni spesso
critiche o comunque delicate: per questo viene da diversi autori (Boccacin, 1997;
Badolato, Rizzi 1994; Bellamio, 1996; Marchesi, 1996) ribadita la necessità di una
preparazione adeguata del volontario, che permetta di declinare la motivazione e la
prosocialità in comportamenti competenti e qualitativamente coerenti al bisogno
emerso. Approfondirò questo tema nel paragrafo dedicato alla formazione dei volontari.
3
1.1. Motivazioni al volontariato
Ma cosa spinge le persone a dedicarsi al volontariato? Il tema è ampio e qualsiasi
analisi rischia di essere riduttiva e non soddisfacente: cominciamo col dire che gli studi
sul comportamento sociale positivo (che comprende al suo interno l’azione
volontaristica) sono iniziati circa quarant’anni fa, quindi sono relativamente recenti, e
hanno presto messo in luce un fenomeno assolutamente eterogeneo nelle sue
manifestazioni e plurideterminato a livello causale da fattori individuali, situazionali,
ambientali e dall’interazione fra questi (Asprea, Villone Betocchi, Oneroso Di Lisa,
1994). Volendo fare una semplificazione, che permetta una prima superficiale
comprensione del fenomeno, possiamo dire che il problema della motivazione si riduce
ad un dilemma: fino a che punto il comportamento altruistico, che spingerebbe a questo
tipo di attività, è altruistico? Ovvero: le persone si dedicano al volontariato per
altruismo o per motivi egoistici? In realtà penso sia impossibile rispondere a tale
domanda in modo univoco, piuttosto è interessante considerare la posizione di Consoli
(1994), Baumann, Cialdini, Kenrick (1981) e Batson, Bolen, Cross e Neuringer-
Benefiel (1986): questi e altri autori hanno superato la dicotomia altruismo-egoismo
(supportata da una morale comune che connota il primo polo come positivo e il secondo
come negativo), dal momento che i loro studi hanno messo in evidenza l’origine
egoistica di comportamenti altruistici e quindi l’impossibilità di distinguere realmente
questi due aspetti motivanti: nasce così l’ipotesi dell’edonismo: “L’altruismo non è altro
che una forma differente di egoismo” (Natale, 1994, p.63). I comportamenti di aiuto al
prossimo sarebbero dunque motivati fondamentalmente dal bisogno di innalzare
l’autostima, di autogratificarsi, di non essere valutato negativamente dagli altri, da
esigenze intime di varia natura e dal desiderio di mantenere una positiva immagine di sé
come persona buona, ovvero tutte motivazioni legate a se stessi piuttosto che agli altri.
Cautamente comunque gli stessi autori ci dicono che non si può affermare con certezza
che non esistano tratti di personalità altruistici, piuttosto diciamo che è difficile
discernere e fare una distinzione altruismo vs egoismo nel complesso intreccio che si
viene a formare tra le motivazioni di una persona, a sua volta determinate dalla
situazione specifica, da caratteristiche personali e situazionali (Miller, Powell, Seltzer,
1990).
Ma scendendo nello specifico, possiamo vedere cosa i volontari stessi hanno addotto
come motivazioni del loro operato in varie ricerche (Rossi, Boccacin, Bramanti, 1996;
4
Omoto, Snyder, 1995; Paolicchi, 1995) : diverse sono le risposte emerse a riguardo, il
quadro è complesso e variegato, anche se si sono tentate sintesi esplicatrici. In una
ricerca di Rossi, Boccacin, Bramanti (1996) su giovani volontari, per esempio, sono
emerse tre principali categorie di motivazioni:
• L’altruismo, il desiderio di aiutare gli altri;
• Bisogni personali di affiliazione o di saturazione di propri vuoti
esistenziali;
• Forte spinta idealistica e senso del dovere;
Queste stesse motivazioni possono essere sovrapposte a quelle trovate in altre ricerche
(Omoto, Snyder, 1995; Paolicchi, 1995), le quali fanno in ultima analisi riferimento,
come già detto, ad aspetti altruistici, fondamentalmente orientati all’altro, al dono
(Godbout, 1993), accanto ad aspetti più egoistici, in un mix ambivalente in cui troviamo
aspetti motivanti legati a sé, ed altri legati al prossimo (Badolato, Rizzi, 1994; Omoto,
Snyder, 1995; Melucci, 1991).
E’ interessante notare una certa analogia tra giovani e adulti volontari per quanto
riguarda le motivazioni (Rossi, Boccacin, Bramanti, 1996), ma vanno tenute presenti
peculiarità di significato che riguardano le generazioni più giovani; per il giovane infatti
l’esperienza di vicinanza e aiuto con persone bisognose si configura come possibilità di
crescita e sviluppo personale, di costruzione della propria identità sociale (Badolato,
Rizzi, 1994; Cigoli, 1997) e può quindi essere motivata da queste spinte, più o meno
consapevolmente.
Ciò che mi sembra primariamente importante sottolineare, è che probabilmente non
sarà mai possibile definire ogni aspetto della motivazione che spinge una singola
persona a scegliere di diventare volontaria: il nodo centrale è aiutare le persone a
riflettere sulle loro motivazioni, a prendere consapevolezza della loro implicazione
personale e di ciò che le spinge all’azione, al di là del generico, seppur nobile, “fare del
bene agli altri”. Perché “si potrà essere tanto più solidali con gli altri, quanto più si darà
spazio alle esigenze intime e profonde proprie, che necessariamente saranno presenti
nell’azione” (Rossi, 1996, p.48). Ciò significa considerare la consapevolezza dei fattori
motivanti come obiettivo formativo (cfr. § 1.2. Formazione dei volontari), alla luce del
peso che questa variabile avrà sull’attività svolta dal volontario, sia in termini di durata,
sia in termini di continuità, sia in termini di qualità del servizio offerto.
5
1.2. Formazione dei volontari
Il tema della formazione dei volontari è entrato nell’ultimo decennio al centro dei
dibattiti sul volontariato, e sempre più viene considerata la sua valenza strategica nella
preparazione dei volontari (Bramanti, 1994). L’orientamento attuale che vede le
organizzazioni del settore sempre più impegnate ad offrire servizi competenti e
professionalità coniugata a solidarietà (Boccacin, 1997), porta con sé l’esigenza di un
lavoro di preparazione col volontario che prenda in considerazione diversi aspetti, e
permetta di declinare la sua prosocialità in comportamenti e atteggiamenti adeguati,
perché “per fare il bene, oltre il cuore serve l’intelligenza, il metodo” (Comolli, 1996,
p.13). Se si punta alla qualità dei servizi, la formazione diventa imprescindibile
(Marchesi, 1996).
Diversi autori (Bramante, 1996; Lombardi, 1996; Spinelli, 1996; Gangeri, 1996)
hanno esplicitato quali dovrebbero essere le aree principalmente trattate per un’adeguata
formazione del volontario:
♦ Aspetto tecnico: si tratta di quelle competenze e abilità, legate allo specifico settore
di attività, che il volontario dovrebbe far proprie e condividere con gli altri volontari
dell’organizzazione di appartenenza ( pur nell’imprescindibilità di una prassi
personalistica di intervento); solitamente si tratta appunto di prestazioni scarsamente
standardizzabili (cura, animazione, sostegno psicologico), ma trovare linee guida e
aspetti condivisi d’azione è sicuramente necessario laddove non si voglia
improvvisare, bensì agire in modo competente.
♦ Aspetto morale: si tratta di approfondire il tema delle motivazioni che hanno spinto
il volontario a tale scelta. Portarle alla consapevolezza fa sì che vengano
riconosciute e poi messe in comune e rielaborate in una visione condivisa da parte
dell’organizzazione di appartenenza. A sua volta, questo lavoro di riflessione è
fondamento necessario al consolidarsi delle motivazioni e alla creazione di
un’identità di gruppo che sostenga il volontario nella sua attività. Per questo è
importante anche portare alla luce le rappresentazioni interne che ognuno ha rispetto
ad alcuni oggetti importanti quali: il proprio ruolo, la propria idea di prendersi cura e
di volontariato. Come dice Bruner (1990, p.52) “i desideri possono condurci a
ritrovare dei significati in contesti in cui altri non li troverebbero”: ciò significa che
ogni persona può avvicinarsi al mondo del volontariato con fantasie e aspettative
diverse che, se non vengono lette e indirizzate, possono deviare l’attività del
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volontario verso modalità inappropriate se non dannose. E’ importante che si giunga
ad una visione condivisa di quella che dev’essere l’attività del volontario, se si punta
alla professionalità dell’intervento, considerando l’eterogeneità di elementi
motivanti (cfr. § 1.1. Motivazioni al volontariato), che possono portare una persona
a questo tipo di scelta.
♦ Aspetto psicologico: è quello che fa riferimento ai temi delle relazioni interpersonali
e degli aspetti psicologici (vissuto, emozioni) del volontario e dell’utente. In effetti
la formazione dell’ultimo decennio ha incontrato una domanda formativa sempre
più focalizzata sulla necessità di attrezzare i volontari per muoversi in un contesto
relazionale sovente delicato: il volontario incontra persone in difficoltà e
primariamente gli viene chiesto di saper entrare in contatto con questi soggetti nel
modo più adatto, senza urtarne la privacy, ma riuscendo a portare il suo sostegno.
Ciò non può essere lasciato solo alla sensibilità soggettiva, perché per fare il bene
occorre saperlo fare e in caso mettersi in condizione di impararlo (Spinelli, 1996).
Purtroppo la realtà dei corsi per volontari è ancora legata a forme di tipo
informativo/aggiornamento, dove l’aspetto principale è quello di una trasmissione del
sapere di tipo passivizzante sui formandi. L’obiettivo da raggiungere è invece quello di
fornire agli aspiranti volontari corsi di formazione veri e propri, dove al soggetto è
richiesta la partecipazione attiva, la riflessione, il gioco simbolico che porta alla luce
capacità antiche e nuove. Secondo Bello (1992), i principi da seguire nell’azione
formativa per volontari dovrebbero essere di questo tipo:
- attivizzare: rendere il soggetto partecipe del proprio
apprendimento;
- personalizzare: nessuna esperienza è educativa se non coinvolge
l’interiorità personale;
- socializzare: rendere capaci di visione cooperativa e di empatia
verso l’altro;
- professionalizzare: dare capacità e competenze adeguate;
- responsabilizzare: far cogliere interdipendenze tra azioni ed esiti.
Non è certo un compito facile: si tratta piuttosto di una sfida, che richiede di ottimizzare
le risorse disponibili (spesso scarse), e di creare un percorso ad hoc, rispetto al contesto
ed ai suoi bisogni, un percorso che dovrebbe seguire i volontari anche dopo il loro
inserimento attivo, affinché la formazione permanente permetta il sostegno del
volontario e la sua crescita continua di capacità e motivazioni, nonché la gestione di una
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importante dimensione organizzativa che fa riferimento alla coesione interna e al senso
di appartenenza (Rossi, 1996; Bramanti, 1994).
1.3. Volontariato in ospedale
Il ruolo del volontariato in ambito sanitario è destinato ad assumere un’importanza
sempre maggiore, principalmente per due ordini di fattori (Bonfioli, 1996):
• la scarsità di risorse umane e finanziarie che limita le possibilità di assistenza
adeguata;
• il concetto di “rete assistenziale” su cui si basa il Servizio Sanitario di un paese
moderno come il nostro e di cui il volontariato è parte integrante.
Ciò significa che il volontariato non dovrebbe più essere visto come componente
opzionale dell’assistenza sanitaria, ma come parte integrante, laddove alle cure mediche
ed alle tecnologie si deve affiancare l’attenzione alla persona nel suo complesso: in
ospedale il dolore fisico viene alleviato dai farmaci, ma la sofferenza psicologica, la
solitudine, l’ansia, la paura, necessitano di un approccio umano che non può essere
mediato, se non dalla parola, dall’ascolto, dal sostegno e, con i bambini, dal gioco.
Inoltre il volontariato si pone come componente ideale di un’umanizzazione
dell’ospedale in quanto ha con sé un sigillo fondamentale: quello dell’azione gratuita
per cui offre al malato un dono, un sincero rapporto umano.
Se la salute non è solo assenza di malattia, ma piuttosto benessere globale della persona,
allora il supporto che il mondo volontario può dare all’attività di medici e infermieri è
innegabile, dal momento che l’enorme quantità di lavoro non permette a questi ultimi di
prestare l’attenzione necessaria anche agli aspetti di relazione e vicinanza umana. Non
va però sottovalutato il fatto che questo supporto, perché lo si possa definire tale, debba
essere il risultato di un processo di preparazione serio ed accurato, “è necessario che il
processo di formazione del volontario sia quasi professionale” (De Martis, 1992).
L’ospedale infatti è un ambiente complesso e carico di tensioni ed emotività, dove il
volontario deve sapersi inserire nel modo più proficuo possibile, senza ostacolare il
personale, senza imporre il proprio aiuto laddove non è richiesto. Il volontario in
ospedale promuove una “cultura della sofferenza”, che pone al centro il cittadino malato
e i suoi diritti di persona in difficoltà, ma deve saper fare tutto ciò nel rispetto dei suoi
spazi, e soprattutto del suo ruolo, che non deve mai venire ad ostacolare quello del
personale medico.
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Per quanto riguarda poi il reparto di pediatria, siamo di fronte ad un tipo di assistenza
che dev’essere pensata e preparata espressamente a misura di bambino. In Italia, i primi
importanti cambiamenti si sono realizzati solo intorno agli anni ’80 (quindi
recentemente), quando sono state istituite le leggi regionali sulla tutela affettiva,
psicologica ed educativa del minore ricoverato, e si è così permesso a figure quali
psicologi, animatori, volontari, di entrare in ospedale accanto ai medici (Aa.Vv., 2000).
Ne consegue che quest’area di studio e attività è ancora giovane e in fase di sviluppo, e
che prospettive ambiziose ed interessanti possono essere raggiunte, per fornire ai
bambini ricoverati e alle loro famiglie tutto il sostegno e la qualità delle cure cui hanno
diritto. Attualmente in Italia la possibilità di gioco per i bambini ricoverati è garantita
dalla presenza di volontari, e in particolare l’ABIO è stato il primo gruppo che si è
dedicato in modo organizzato a questo tipo di attività (Filippazzi,1997), ma in alcuni
Paesi quali la Svezia, la Francia, l’Olanda, l’animatore è entrato a far parte del personale
del reparto, e il gioco delle cure ospedaliere; Filippazzi descrive appunto alcune di
queste felici esperienze in cui l’attività degli animatori diventa utilissima per preparare
il bambino a vivere con maggior serenità la sua degenza in ospedale e gli eventuali
trattamenti, più o meno dolorosi ma comunque per lui spaventosi, cui andrà incontro; il
personale sanitario ne risulta avvantaggiato, essendo il bambino più collaborativo e
tranquillo, e il genitore stesso riceve così un notevole aiuto nella gestione di una
situazione stressante e ansiogena anche per lui. Queste esperienze dovrebbero fornire
un ottimistico modello da seguire anche in Italia, dove peraltro ci sono situazioni
sperimentali già in corso come quella dei Dottori Clown nel reparto di pediatria
dell’ospedale di Piacenza, figure professionali appositamente formate e attive grazie al
sostegno finanziario di enti o imprese private. Credo che cominciare da un’adeguata
preparazione dei volontari che attualmente si occupano dei bambini nei nostri ospedali
sia il primo passo da compiere per il raggiungimento di standards ottimali di cura e
attenzione al paziente.
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2. L’ABIO (ASSOCIAZIONE PER IL BAMBINO IN OSPEDALE)
Qui di seguito presenterò l’associazione, le sue caratteristiche peculiari e il suo corso
di formazione per aspiranti volontari così come sono emersi dalle interviste da me
condotte non solo ai volontari, ma anche ad attori istituzionali di rilievo all’interno
dell’associazione stessa (vicepresidente associazione, progettista del corso,
coordinatrice volontari). Rimando la descrizione degli aspetti metodologici e di analisi
dei protocolli ottenuti al capitolo 2.
Si tratta del prodotto di “incontri narrativi” che mi hanno permesso di ricostruire un
testo ricco di spunti e informazioni interessanti su diversi aspetti della vita associativa:
la scelta di ascolto di molteplici punti di vista è stata dettata dal desiderio di creare un
testo complesso e variegato, sicuramente parziale ma indicativo di una molteplicità di
aree da considerare, di aspetti da valutare, nell’ottica di una complessità irriducibile
della vita organizzativa, specie di quella volta alla produzione di servizi (Bruno, 1999).
E’ evidente il richiamo ad un approccio narrativo (Bruner, 1990; Kaneklin, Scaratti,
1998), con l’obiettivo di ricostruire un contesto di comprensione dell’ambiente
organizzativo necessario alla progettazione di interventi che siano appunto costruiti ad
hoc: la raccolta di narrazioni significative permette di mappare gli elementi tipici della
realtà associativa, la pluralità delle posizioni crea un intreccio di significati ed immagini
che rimandano alla multidimensionalità della vita organizzativa, tra emozione,
cognizione, pensiero e fantasia (Weick, 1997). Il testo che ne è nato è quindi frutto di un
processo di interpretazione delle interviste, guidato dalla consapevolezza che la
conoscenza avviene sempre in una dimensione relazionale e negoziale, ed in quanto tale
non è mai assoluta ed oggettiva, ma piuttosto sensata e ragionevole (Kaneklin,
Scaratti,1999). Per un approfondimento del tema narrativo rimando al capitolo 2 (§ 2.4.
Strumento).
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2.1. Come è nata
L’ABIO è un’associazione aconfessionale e apartitica di volontari, nata con lo scopo
di “umanizzare” l’ospedale per aiutare i bambini a sdrammatizzare il ricovero e la
malattia: è la rappresentante italiana di EACH (European Association for Children in
Hospital), la quale raccoglie le associazioni impegnate nei vari Paesi europei per il
benessere del bambino in ospedale. A Crema l’ABIO è stata fondata ufficialmente
nell’agosto del 1999, ma l’idea si è sviluppata e ha preso forma prima, nella primavera
dello stesso anno; l’idea di fondare un’associazione di questo tipo è nata dalla
convergenza di interessi diversi:
- il primario del reparto di pediatria, che ha conosciuto l’ABIO ad un convegno ed
ha auspicato la sua creazione anche nel suo reparto;
- l’ufficio relazioni con il pubblico dell’Azienda Ospedaliera, che ha tra i suoi
mandati quello dell’accoglienza e che cercava una modalità adeguata per
accogliere il bambino in ospedale;
- una docente di scuola superiore della città che era interessata ad un’associazione
del genere anche come momento formativo per i suoi allievi, affinché
avvicinandosi ad una realtà del genere ne facessero un momento di crescita.
Dalla coalizione di queste forze è nato l’impegno comune per la fondazione dell’ABIO,
cui hanno partecipato concretamente l’attuale vicepresidente, in quanto impiegata
dell’ufficio relazioni con il pubblico, lo psicologo responsabile della formazione e
risorse umane dell’azienda ospedaliera, il primario del reparto di pediatria, una docente
in una scuola superiore, e infine la caposala del reparto di pediatria.
Così, dopo aver raccolto informazioni dalle altre ABIO sparse sul territorio, in
particolare da quella di Milano, è nata l’ABIO Crema: non esiste comunque un ABIO
nazionale, quindi ogni singola associazione è autonoma e si gestisce in libertà.
In particolare l’ABIO Crema è nata appunto da un progetto che la vicepresidente
definisce “autodidattico”, prendendo solo spunto dalle associazioni già presenti e poi
sviluppandosi seguendo linee proprie; per esempio nella progettazione del corso di
formazione dei volontari (cfr. § 3. Il corso di formazione) e nella particolare domanda
rivolta ai giovani affinché entrino a far parte dell’associazione stessa come parte attiva
(cfr. § 2.2. Obiettivi dell’ABIO).
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2.2. Obiettivi dell’ABIO
Gli obiettivi che l’associazione si è posta alla nascita sono fondamentalmente tre,
anche se si attuano e concretizzano nell’unica azione del volontariato coi bambini in
ospedale; si tratta in effetti di diversi aspetti di un’unica realtà:
- da un lato creare un’associazione di volontariato che entrasse a colmare quel
divario che esiste in ospedale tra ciò che il paziente si aspetta a livello di
relazioni umane e vicinanza, e ciò che la struttura riesce a garantire: questo a
fronte anche dell’ormai nota carenza di personale infermieristico che colpisce i
nostri ospedali, facendo sì che il personale esistente sia già sovraccarico di
lavoro per occuparsi anche in modo adeguato dell’accoglienza; questo aspetto
relazionale risulta rilevante nel reparto di pediatria anche nei confronti dei
genitori che si trovano, con preoccupazioni e ansie, accanto ai loro bambini
ammalati;
- in particolare, l’associazione è nata per rendere più piacevole, o perlomeno per
alleviare la degenza, di quello che è il “cliente” forse più sensibile dell’ospedale,
il bambino, che soffre dell’essere allontanato dai luoghi a lui familiari e più
difficilmente comprende il perché di ciò che gli sta accadendo, quando sta male
e quando viene portato in ospedale: ” da oltre trent’anni è chiaro che nel
bambino la combinazione malattia/ricovero provoca un pesante disturbo che si
manifesta con crescente ansia di separazione, alterazione del sonno e
dell’aggressività. Il ricovero nei primi anni di vita può avere conseguenze sullo
sviluppo e il comportamento anche a distanza di anni” (Filippazzi, 1997, p.60).
Per ciò è importante creare momenti di svago e contribuire attraverso un certo
tipo di animazione e attività ludiche ad evitare che quella ospedaliera sia per lui
un’esperienza traumatica;
- infine, l’ABIO Crema ha un obiettivo interno che la contraddistingue dalle altre
associazioni omonime: come detto in precedenza, vuole rivolgersi soprattutto ai
giovani, per quanto riguarda il reclutamento dei volontari, in quanto crede che
questa possa essere per loro un’esperienza importante, fonte di crescita
personale, di valori e soddisfazioni. Quest’impronta è stata data all’inizio dalla
docente che ha partecipato alla creazione dell’associazione, ma si è mantenuta
nel tempo perché ha trovato l’approvazione degli altri membri dell’ABIO, anche
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se ciò provoca problemi e difficoltà specificamente legati all’età dei volontari,
come vedremo in seguito (cfr. § 2.4. Volontari e attività in reparto).
2.3. Struttura dell’associazione
L’associazione è strutturata istituzionalmente e organizzata da statuto: c’è una
presidente, una vicepresidente, un consiglio direttivo formato da figure di una certa
rilevanza nell’azienda ospedaliera o che comunque hanno partecipato alla fondazione
stessa dell’ABIO, un tesoriere ed un segretario; accanto a queste figure ci sono poi i
volontari, che sono attivi in reparto, e i soci sostenitori. Il consiglio è eletto dai soci ogni
tre anni e li rappresenta: i membri del direttivo si incontrano almeno tre volte l’anno per
discutere di bilancio, raccolta fondi, nuove edizioni del corso di formazione, problemi
all’interno dell’associazione, organizzazione di eventi pubblici.
Oltre a questi ruoli istituzionali, è stata “nominata”, all’interno del consiglio direttivo,
la coordinatrice dei volontari: questa signora si occupa di gestire in modo più diretto il
rapporto con i volontari, occupandosi della copertura dei turni in reparto, ed essendo per
loro punto di riferimento, nonché “ponte” con la parte più istituzionalizzata
dell’associazione.
Per quanto riguarda l’aspetto economico, l’associazione si autofinanzia tramite la
quota associativa annua richiesta ai soci e tramite la raccolta di fondi, richiesti a banche,
aziende che producono per l’infanzia o ai privati durante manifestazioni in cui l’ABIO
si fa conoscere, ad esempio durante la Giornata del Volontariato. I fondi vengono poi
principalmente usati per l’acquisto di giochi e prodotti di cancelleria.
2.4. Volontari e attività in reparto
Ma cosa fa concretamente un volontario ABIO in reparto, e chi sono questi volontari?
Si tratta di una sessantina di persone, per lo più di sesso femminile, appartenenti
prevalentemente alle fasce d’età :
- dai 20 ai 35 anni;
- dai 50 anni in su;