II
Ma cos’è un testo teatrale? Prima di tutto, è necessario fare una distinzione 
tra testo spettacolare e testo drammatico. Il testo spettacolare, ossia lo 
spettacolo teatrale in tutta la sua completezza e complessità, costituisce 
evidentemente l’oggetto privilegiato per un’analisi semiotica che voglia 
tenere conto delle molteplici componenti dell’evento scenico. Tuttavia, dal 
punto di vista linguistico, il testo drammatico riveste un interesse particolare 
per il suo carattere di testo estetico basato sulla parola e dunque assimilabile 
in questo ad altre produzioni letterarie. 
Nel corso degli ultimi anni la semiotica, alla ricerca di un metalinguaggio 
scientificamente fondato che consenta la lettura di quella complessa 
stratificazione di sistemi significanti che è il teatro, si è soffermata a più 
riprese sul testo drammaturgico e sui suoi aspetti comunicativi. Uno dei 
nodi fondamentali attorno ai quali si è svolto il dibattito riguarda la 
dicotomia esistente fra testo e spettacolo; questa bipolarità tipica del 
fenomeno teatrale ha finito con l’orientare gli studi in due direzioni: da un 
lato
1
, si è ritenuto di individuare la specificità del testo teatrale nella sua 
opposizione rispetto agli altri generi letterari; dall’altro
2
, si è individuata la 
specificità della messa in scena nella sua opposizione con l’atto 
comunicativo quotidiano, soprattutto per ciò che pertiene alla componenete 
pragmatica. Un tentativo di unificazione fra questi due aspetti del fenomeno 
teatrale è rappresentato dalla proposta avanzata da Alessandro Serpieri
3
 di 
ancorare il testo scritto alla messa in scena, sottolineando la pertinenza, al 
fine di una corretta segmentazione, degli elementi deittici e performativi 
presenti nella lingua del testo teatrale. Tali categorie, provenienti 
                                                          
1
 SEGRE 1984. 
2
 RUFFINI 1981. 
 III
dall’analisi della comunicazione orale e riguardanti il livello della lingua più 
rivolto verso la fattualità immediata, quindi più direttamente coinvolto da 
fattori pragmatici, vengono applicate all’esame di testi scritti, quelli teatrali 
appunto, per provarne la duplice natura linguistica. 
 
2. La situazione del teatro in Italia negli anni ’60. 
Premesso che non è questa la sede per un’analisi approfondita della storia 
del teatro italiano e dei suoi mutamenti nel corso degli anni ’60, si cercherà 
comunque di darne alcune coordinate per inquadrare il periodo in cui Fo 
scrive le commedie analizzate nel presente lavoro (1959-1964)
4
. 
Per imprimere un’inversione di tendenza rispetto all’orientamento letterario 
che aveva sempre avuto il nostro teatro, ha operato anche in Italia, parte 
dell’avanguardia teatrale, evidenziando fondamentalmente due linee di 
ricerca differenziate ma tese ambedue a ridimensionare, se non a vanificare 
del tutto, il ruolo del testo e dunque della componente verbale. Si può solo 
accennare qui all’importanza, nel corso degli anni Sessanta, della 
contestazione operata in Francia da parte del teatro dell’assurdo contro il 
teatro da boulevard; alla scoperta del corpo e del gesto da parte del Living 
Theatre; fino alle esperienze di Grotowskij, Barba. Sono tutte proposte che 
trovano in Italia una ricezione attenta e interessata da parte di coloro che 
vanno meditando una concezione rivoluzionaria del teatro, sottratto al 
primato della parola e dunque libero di muoversi su un terreno totalmente 
svincolato dalla letterartura, orientato verso l’individuazione di codici 
                                                                                                                                                                                                
3
 SERPIERI 1977, p. 105. 
4
 Per un ulteriore approfondimento sull’argomento si vedano PUPPA 1990 e ANGELINI 
1990 e 1991. 
 IV
alternativi a quello verbale (gestuale appunto, ma anche visivo e sonoro) e 
alla loro organizzazione in sistemi coerenti. 
Parallelamente all’avanguardia si può individuare in Italia anche una linea 
di sviluppo del teatro di parola, quel teatro cioè che, pur accogliendo alcuni 
esiti delle riflessioni più recenti sulla comunicazione teatrale, continua 
tuttavia a considerare la parola come strumento espressivo privilegiato ed a 
mantenere inalterata, almeno nelle linee fondamentali, la struttura testuale. 
La lingua teatrale, come già detto, è una lingua particolare e la sua 
espressività non può essere misurata né sui parametri di giudizio validi per 
la lingua poetica e narrativa, nè su quelli validi per il parlato spontaneo. 
Essa è caratterizzata dalla centralità dei processi comunicativi: una 
comunicazione che si sdoppia in un vettore centripeto, rappresentato dal 
livello comunicativo interno al testo (quello che poi si struttura nel dialogo), 
e un vettore centrifugo, cioè il livello comunicativo che riguarda attori e 
dramma da una parte e pubblico dall’altra
5
. Di questa duplice potenzialità 
che caratterizza la comunicazione teatrale troviamo un riflesso anche a 
livello linguistico: la lingua teatrale dovrà infatti contenere elementi in 
grado di ancorarla al contesto extraverbale, pragmatico, come gli 
attualizzatori spazio-temporali (dimostrativi, deittici), le interiezioni, 
l’intonazione; ma nello stesso tempo la lingua teatrale risente anche della 
programmazione complessiva del testo, non soltanto sul piano dei contenuti 
e del dosaggio dell’informazione ma anche sul piano dell’espressione 
verbale, dove vengono eliminate le ridondanze tipiche del parlato 
spontaneo. 
                                                          
5
 STEFANELLI 1982, p. 168. 
 V
Si può tuttavia affermare che quegli anni hanno visto un’apertura da parte 
del teatro di parola verso le nuove varietà e i nuovi registri linguistici che si 
stavano affermando in ambito sociale; apertura sostenuta, oltre che da Fo 
(per quanto riguarda la realtà lombarda), da una personalità come Eduardo 
De Filippo, forte della tradizione napoletana. Di fatto la personalità di 
Eduardo riesce ad elevare questa tradizione al livello di una nuova 
“commedia umana” di ambiente partenopeo. Eduardo ha comunque molto 
lavorato sul suo dialetto per renderlo sempre più adeguato alle nuove 
tematiche (che si allontanavano sempre più dal semplice schema della farsa) 
fino ad approdare ad un italiano regionale di area campana più facilmente 
accessibile ad un pubblico appartenente a diverse zone geografiche. 
 
3. La situazione linguistica in Italia negli anni ’60. 
Posto che, anche per questo secondo argomento, non è questa la sede per 
una trattazione esauriente sull’argomento, si vuole comunque tracciare un 
breve panorama linguistico del periodo interessato. 
Nel corso del Novecento la lingua nazionale , non già come dato 
miticamente unitario e uniforme, come era nei programmi del Manzoni, ma 
come sistema vivente della tradizione letteraria in continuo processo di 
integrazione e di adattamento in tutte le sue funzioni, quale era nel pensiero 
dell’Ascoli, ha certamente attuato una cospicua unificazione linguistica del 
paese. Ma tale unificazione linguistica, sia sull’asse orizzontale (geografico) 
sia sull’asse verticale (sociale) è risultata non soltanto incompiuta, ma anche 
inadeguata. 
Nell’autunno del 1964, dal riconoscimento della incompiutezza e della 
inadeguatezza della unificazione linguistica, prendeva lo spunto uno 
 VI
scrittore sensibile come Pier Paolo Pasolini, a cui si deve l’ultimo clamoroso 
intervento nella “questione della lingua” del Novecento. Nato come 
conferenza, questo intervento fu infine pubblicato su «Rinascita» del 16 
dicembre 1964, con il titolo Nuove questioni linguistiche. Conscio del fatto 
che qualche cosa stesse succedendo nella lingua italiana negli anni del 
grande sviluppo economico del secondo dopoguerra, Pasolini dichiarava 
innanzitutto l’inesistenza di una lingua effettivamente unitaria e comune. 
Partendo da premesse marxiste  e gramsciane
6
, egli sosteneva che era nato 
un nuovo e unitario italiano, i cui centri irradiatori stavano al Nord del 
paese, lungo l’asse Milano-Torino, dove avevano sede le grandi fabbriche, e 
dove era diffusa e sviluppata la moderna cultura industriale. Il nuovo 
linguaggio tecnocratico doveva avere come ambiente di elaborazione le 
aziende e doveva opporsi al linguaggio tradizionale, proprio delle 
università, che aveva i suoi centri di diffusione a Roma e Firenze, le 
tramontate capitali della lingua. 
Tra chi partecipò alla discussione con Pasolini vi fu uno scrittore di 
altrettanta forza, Italo Calvino, il quale pose al centro del suo discorso il 
rapporto fra l’italiano e le altre principali lingue mondiali e la (non) 
traducibilità dell’italiano stesso. Accanito contro i dialetti bolsi e stantii, 
alzò la bandiera di una lingua concreta e precisa, che battesse in breccia le 
espressioni astratte e generiche e il terrore della esattezza e della semplicità 
                                                          
6
 Considero qui il pensiero di Gramsci, svoltosi prima e durante il fascismo (in prigionia) 
ma noto e incisivo a partire dalla pubblicazione delle sue opere in questo dopoguerra. Al 
centro del pensiero gramsciano è la questione dell’unità linguistica italiana, compromessa 
per lui dall’umanesimo e dal successivo e cronico cosmopolitismo dei nostri intellettuali. 
Fermamente ostile alle posizioni manzoniane, cioè alla pretesa di imporre la lingua unitaria 
dall’alto, anche perché molto attento alle condizioni plurilinguistiche dell’Italia, Gramsci 
va considerato senz’altro filoascoliano; antipopulista, senonché questo atteggiamento 
prende in lui tinte di forte giacobinismo linguistico: il che comporta anzitutto un attacco 
frontale ai dialetti in quanto limitati, antiunitari e regressivi. 
 VII
semantiche. L’italiano poteva salvarsi, secondo Calvino, solo se diventava 
una lingua “strumentalmente moderna”, fatta di parole concrete e 
traducibili, liberandosi finalmente della fraseologia generica e degli astratti 
dell’ “antilingua”. 
La tesi di Pasolini cadeva in un momento particolare delle controversie 
letterarie. C’era stata ed era ancora in atto l’esperienza del “plurilinguismo” 
di Gadda; le polemiche sul neorealismo, con le sue implicazioni popolari e 
le parlate dialettali (Sciascia, Moravia) erano state sedate; le discussioni 
sulla neoavanguardia (Marinetti, Palazzeschi), con il suo rifiuto del 
linguaggio costituito e tradizionale erano in via di esaurimento; mentre 
l’interesse critico pareva concentrarsi sulla cosiddetta crisi di scrittura del 
romanzo, involto in quegli anni in un nuovo sperimentalismo. Coletti, 
parlando di narratori come Cassola, Bassani, Tomasi di Lampedusa, Natalia 
Ginzburg, osserva che la scelta da essi compiuta in favore della «lingua 
media e comune, dopo gli abbassamenti del neorealismo e le infrazioni 
espressionistiche e d’avanguardia, è innanzitutto, scelta di una lingua più 
ricca e, in parte, anche più complessa di quella ammessa dal romanzo 
dell’immediato dopoguerra»
7
. 
Coletti ha usato la categoria dei “italiano medio” per classificare il 
comportamento linguistico degli scrittori, per distinguere coloro che 
accettano di correre il rischio di una amputazione di ogni originalità 
stilistica, da coloro i quali, come il Gruppo ’63, come D’Arrigo, Testori, 
Busi, hanno preferito soluzioni di rottura, personali, arrischiate, magari 
scarsamente comunicative. 
                                                          
7
 COLETTI 1993, p. 359. 
 VIII
La tesi pasoliniana fu ampiamente criticata. L’insieme delle obiezioni che le 
furono mosse chiarì in via definitiva che, con i nuovi indirizzi linguistici 
fortemente intrisi di elementi “tecnici”, non solo non era nato né stava per 
nascere alcun tipo di nuovo italiano nazionale, ma che l’unificazione 
nazionale dell’italiano comune era strettamente connessa con un reale 
incremento culturale della nazione tutta, nella complessità del suo tessuto 
sociale. 
Infatti, non solo le numerose sperimentazioni degli scrittori portarono a 
cambiamenti nella lingua; si tenga presente che contribuirono a modificare 
la situazione linguistica del tempo anche alcuni importanti fattori sociali. La 
televisione cominciò a trasmettere in maniera regolare nel gennaio 1954; la 
sua funzione linguistica si è così affiancata a quella dei media che già 
esistevano, giornali, radio, cinema.  
Tappa importante, inoltre, sul cammino di un’omologazione di tutti gli 
italiani fu, nel 1962, l’introduzione della scuola media unica, uguale per 
tutti, con obbligo scolastico fino ai quattordici anni. 
Negli anni Sessanta e Settanta, proseguendo una tradizione nata con le lotte 
operaie del primo Novecento, anche la fabbrica ha svolto una funzione di 
scuola, promuovendo e integrando nella realtà cittadina e industriale masse 
di origine contadina, che conoscevano soltanto il dialetto. 
Si fanno alcuni cenni alla situazione linguistica in Lombardia, terra di 
provenienza di Fo, nel periodo interessato. 
Nella regione esisteva ancora negli anni ’30-’40 una forte diglossia, e 
l’italiano, imposto dalla scuola e dalla politica del regime, era normalmente 
strumento di comunicazione solo tra le classi alte. 
 IX
Nel secondo dopoguerra, le cose cambiano radicalmente: la ricerca del 
benessere economico del Nord industrializzato si accompagna a una ricerca 
di promozione sociale e linguistica. Dopo la seconda guerra mondiale il 
«miracolo economico» di cui è stata protagonista principalmente l’area 
industrailizzata lombarda ha determinato in larga misura una rapida 
evoluzione nel quadro sociolinguistico e negli usi dell’italiano e dei dialetti, 
convogliando nella regione massicci flussi migratori, con punte vistosissime 
tra il ’50 e il ’70. L’integrazione linguistica degli immigrati era avvenuta 
principalmente, fino alla seconda guerra mondiale, sulla base del dialetto 
locale o di quello di maggior prestigio parlato nella zona, mentre negli anni 
del boom è avvenuta e avviene in italiano. 
Importante è inoltre il ruolo di punto di riferimento e di mediazione svolto 
da Milano, soprattutto per le parlate della Lombardia occidentale. 
 
4. Nota biografica. 
Dario Fo nasce a San Giano (Varese) nel 1926. 
Inizia la sua carriera intorno al 1952 con Poer Nano e altre storie, ma si 
segnala al pubblico l’anno successivo insieme a Franco Parenti e Giustino 
Durano scrivendo e interpretando la rivista satirica Il dito nell’occhio, a cui 
segue nel 1954 I sani da legare. 
Dal 1957 inizia il connubio artistico e personale con Franca Rame e 
allestisce una sorta di antologia della farsa ottocentesca italiana, Ladri, 
manichini e donne nude e una serie di commedie tra le quali: Gli arcangeli 
non giocano a flipper (1959), Aveva due pistole con gli occhi bianchi e neri 
(1960), Chi ruba un piede è fortunato in amore (1961), Settimo: ruba un po’ 
meno (1964), La colpa è sempre del diavolo (1965)  e altre. 
 X
Nel 1968 Fo decide di abbandonare i tradizionali circuiti teatrali e fonda il 
gruppo «La Nuova Scena» che presenta nel 1969 Mistero buffo, in cui 
l’attore compare come unico interprete. Tra i monologhi recitati dall’attore 
ricordiamo anche Storia della tigre ed altre storie (1979). 
La sua ricerca di un teatro politico lo porta a scrivere testi come L’operaio 
conosce 300 parole, il padrone 1000: per questo lui è il padrone (1969) e 
Grande pantomima con bandiere e pupazzi piccoli e medi (1968), una 
presentazione satirica dei politici italiani. Nel 1970 costituisce il collettivo 
«La Comune» scrivendo e interpretando spettacoli costruiti su temi di 
attualità come Morte accidentale di un anarchico (1970), Pum, pum! chi è? 
La polizia! (1972), Non pago, non pago (1974), Il Fanfani rapito (1975), La 
marijuana della mamma è la più bella (1976). Nel 1981 scrive in 
collaborazione con Franca Rame Parti femminili. Tra i lavori più recenti si 
ricorda Il papa e la strega (1989), Zitti stiamo precipitando (1990), 
Parliamo di donne (1991, scritto in collaborazione con la Rame) e Johan 
Padan a la descoverta dell’America (1992). Tra gli ultimi testi scritti e 
diretti da Dario Fo segnaliamo Il diavolo con le zinne (1997), interpretato da 
Franca Rame e Giorgio Albertazzi, Marino libero, Marino innocente (1998) 
e Francesco, jullare de Deo, che sta portando in turnè nei teatri italiani in 
questo periodo. 
È  tra gli autori più rappresentati all’estero. A Parigi l’attore ha diretto nel 
1992 due farse di Molière per la Comédie Française: Le Médecin malgré lui 
e Le Médecin volant, e l’opera lirica Il Barbiere di Siviglia di G. Rossini. 
Tra i suoi scritti citiamo Manuale minimo dell’attore (1987), Totò. Manuale 
dell’attore comico (1991), Fabulazzo (1992) e la traduzione del Don 
Giovanni di Molière a cura dell’attore e di D. Gambelli. 
 XI
Nel 1997 Dari Fo è stato insignito del Premio Nobel per la letteratura. 
 
5. Le commedie. 
Nel 1959 Fo tira le somme della sua prima esperienza teatrale. Abbandonate 
le farse a cui si era dedicato nella seconda metà degli anni ’50
8
, egli inizia a 
scrivere commedie. 
La farsa si colloca nell’esperienza dell’autore come laboratorio di mestiere; 
farsa che era ispirata dai copioni della famiglia Rame (che faceva teatro di 
strada) e aggiornata con la rilettura di Feydeau e del teatro dell’assurdo
9
. 
Le commedie sono da ritenersi sintesi di fabulazione, farsa e arte comica, in 
continuo mutare di composizione; disponibilità coraggiosa al nuovo e 
continuità del vecchio si alternano in Fo. 
Dal ’59 al ’67, con il ritmo di un lavoro ogni autunno
10
, secondo la richiesta 
del mercato, Fo libera la sua maggiore produzione, quella che ne ha fatto lo 
scrittore del nostro teatro di oggi più rappresentato all’estero. “Io vengo da 
una famiglia di attori, fin da bambina ho visto allestire, costruire, scrivere 
spettacoli di tutti i generi, ma il metodo e la rapidità nello scrivere di Dario 
mi hanno sempre impressionata”, racconta Franca Rame
11
. 
        Le tre commedie analizzate sono: 
1) Gli arcangeli non giocano a flipper (1959) = Arcangeli; 
                                                          
8
 Un primo gruppo di farse, rappresentate nell’estate del ’58 al Piccolo di Milano, 
comprende: L’uomo nudo e l’uomo in frak, Non tutti i ladri vengono per nuocere, Gli 
imbianchini non hanno ricordi; un secondo gruppo, dato allo Stabile di Torino con la 
collaborazione di De Bosio, nel novembre del ’58, comprende: La Marcolfa, Un morto da 
vendere, I tre bravi. Infine, rappresentata nel luglio del ’58, I cadaveri si spediscono e le 
donne si spogliano.  
9
 Per un approfondimento sugli inizi della carriera di Dario Fo, si veda il volume di PUPPA 
1978, pp. 31-36. 
10
 A stendere gli Arcangeli Fo aveva impiegato venti giorni esatti, chiuso quasi senza 
mangiare e dormire in una stanza d’albergo di Cesenatico, secondo un rituale che poi si 
ripeterà puntualmente ogni estate. 
 XII
2) Aveva due pistole con gli occhi bianchi e neri (1960) = Aveva due 
pistole/Aveva due p.; 
3) Settimo: ruba un po’ meno (1964) = Settimo. 
 
L’edizione di riferimento è: Dario Fo, Le commedie di Dario Fo, 13 voll., 
Torino, Einaudi, 1966-1998, in particolare i voll. I e II. 
 
Gli arcangeli non giocano a flipper. 
È la prima commedia in tre atti di Fo
12
.  
Lo spunto di Gli arcangeli non giocano a flipper gli era venuto da una 
novella di Augusto Frassineti, uno scrittore che aveva collaborato alla 
sceneggiatura de Lo svitato (1956). La chiave del racconto di Frassineti era 
lo sbaglio anagrafico per cui un uomo viene registrato come cane, mettendo 
così in moto una serie di situazioni paradossali in cui si satireggiava la 
burocrazia di stato. Questo tema, che in Frassineti è centrale, diventa nel 
copione di Fo uno dei tanti motivi che, assieme ad altri, dà vita a una 
girandola di situazioni incastrate una nell’altra.  
Rispetto alle farse, nella commedia sono presenti alcune grosse novità. 
Innanzitutto compaiono due personaggi autonomi, delineati a tutto tondo, un 
lui/lei coppia con una sua love story progressivamente emergente. Un’altra 
novità è data dalla presenza in scena, per la prima volta, di un gruppo 
socialmente determinato, non più il concentrato precedente di tipi fissi-
absurdisti. Infine la scelta dei personaggi, tutti sottoproletari e “balordi”, 
                                                                                                                                                                                                
11
 “Una testimonianza di Franca Rame”, introduzione alle Commedie politiche di Dario Fo, 
Einaudi, Torino, 1975. 
12
 Gli arcangeli non giocano a flipper è stata rappresentata la prima volta l’11 novembre 
1959 al teatro Odeon di Milano. 
 XIII
come fino ad allora era successo solo nel teatro dialettale. Sono dei balordi 
bonari, sorta di proletariato di periferia che vive di espedienti per 
sopravvivere. Il loro lessico è gergale, con traduzioni-perifrasi prese dalla 
strada dove ricorrono come idioletti “faccia di palta” e “sei proprio un 
pistola”. 
Al Lungo, il protagonista, un ragazzone di periferia buono, credulone e 
sempre beffato dagli amici, durante i tre atti della commedia, ne capitano di 
tutte. Da un finto matrimonio con una biondona buona e gentile che risulterà 
poi una prostituta, alla scoperta di essere stato registrato all’anagrafe come 
cane bracco per il tiro birbone di un vecchio impiegato che prima di andare 
in pensione aveva manomesso numerosi documenti per vendicarsi dei torti 
subiti. Dalla effettiva trasformazione in cane, con un frenetico passaggio fra 
gli accalappiacani del canile municipale, alla metamorfosi in ministro in 
viaggio su un treno riservato, con uno scambio continuo di travestimenti e 
di persone, fino alla soluzione finale: è il momento del risveglio, tutta la 
storia agita in scena è stata infatti un sogno del Lungo, che era caduto 
sbattendo la testa nel primo atto. Una volta caduto sul piano reale, il sogno 
rivela la sua carica profetica, realizzandosi clamorosamente. Basta che il 
Lungo, deluso nei suoi entusiasmi onirici, davanti alla sposa che gli viene 
mostrata come un orrendo manichino, si metta a imprecare contro questi 
paradossali Arcangeli (il destino?) che scrollano i poveracci facendogli fare 
tilt quando meno se l’aspettano, perché subito si sveli l’autenticità del 
messaggio notturno. Il pupazzo infatti si libera dal trucco e ridiventa la bella 
e prosperosa Angela. 
Una commedia a volte squinternata dove Fo aveva messo dentro un po’ di 
tutto, perfino la sua passione morbosa per i flipper, di cui era un giocatore 
 XIV
instancabile. E da cui sprigionava una specie di “follia innocente”, ma anche 
una voglia di mettere in grottesco il mondo e la realtà così com’erano: con 
la schiera dei burocrati-impiegati che nel secondo atto erano rappresentati 
come manichini irrigiditi che ripetevano all’infinito gli stessi gesti e che si 
esibivano in canzoncine paradossali; con altri spunti garbatamente polemici 
contro la retorica delle istituzioni quando il Lungo si finge ministro e con il 
vero ministro stupido e corrotto, anche se siamo ancora lontani dalle accuse 
esplicite alla classe politica di Settimo: ruba un po’ meno; ed infine 
soprattutto con la figura del Lungo che, come sostiene Fo, “è quasi una 
maschera da commedia dell’arte, vittima degli scherzi e dei lazzi degli altri 
personaggi”. Il Lungo è il più balordo dei balordi, perché ha fatto della sua 
condizione un mestiere alle spalle degli amici, si fa passare per scemo, si 
presta a far la vittima dei loro giochi per cavarne di che vivere. Ed è 
significativo che sia proprio il Lungo, icona scenica di Fo, ad autodefinirsi 
“giullare”. Negli Arcangeli infatti, in un dialogo fra il Lungo e la Bionda, 
compare per la prima volta nel teatro di Fo, la nozione di giullare (si pensi 
all’importanza di questa figura nel teatro di Fo che seguirà, vale per tutti 
l’esempio di Mistero buffo):  
LUNGO Quello di farmi sfottere è un po’ come il mio mestiere. 
BIONDA Il mestiere di farsi sfottere? 
LUNGO Sì. Hai in mente i giullari? 
BIONDA E... certo che li ho in mente. (Erudita, enciclopedica) I giullari 
erano quelli che facevano ridere i monarchici... E’ giusto? 
LUNGO Giustissimo. E anche per me è la stessa cosa... con la sola 
differenza che non essendoci più i monarchici faccio ridere gli amici del 
caffè, sono il Rigoletto dei poveri, insomma... Ma l’importante è che mi 
guadagno anch’io il mio stipendio. 
BIONDA (stupita, incredula) Ti danno uno stipendio? 
 XV
LUNGO Guadagno certo più che se facessi l’impiegato, e lavoro molto 
meno. Guarda, tutto quello che ho addosso me lo hanno prestato loro (I, 
2, p.26). 
 
In questa commedia Fo dà vita a una lingua casereccia, una lingua parlata 
compiaciuta nel ricorrere a parole correnti e spesso stonate. Le battute 
hanno il ritmo rapido e le inflessioni popolari di una lingua da «periferia 
lombarda»
13
. 
 
Aveva due pistole con gli occhi bianchi e neri. 
Se gli Arcangeli erano un rifacimento della commedia surreale, con prelievi 
dalla tradizione leggera-rosa da boulevard, l’anno successivo, nel ’60
14
, Fo 
punta a un altro territorio, a diversi indici linguistici, a una mescolanza di 
cinema americano gangsteristico. 
La vicenda, che si rifà ad un clamoroso caso di cronaca, è situata tra la fine 
della prima guerra mondiale e l’avvento del fascismo. Stavolta la struttura 
non è basata, come negli Arcangeli, sulle peripezie oniroidi di un 
personaggio, ma è una specie di gangster-story, una commedia nera legata 
allo schema della doppia agnizione, ossia lo scambio di identità tra due 
figure opposte, tipizzate all’estremo, il prete colto da amnesia e il gangster 
sosia che vuole approfittarne, con la bella Luisa, che funge da terzo polo 
dinamico, oggetto erotico che motiva gli screzi tra i due.  
Il buono (il prete-democristiano) e il cattivo (il bandito-fascista) sono 
dissociati, ma insieme riavvicinati perché impersonati dallo stesso attore. 
                                                          
13
 la notazione appartine allo stesso Fo ed è riportata in VALENTINI 1997, p.66.