II
Ma cos’è un testo teatrale? Prima di tutto, è necessario fare una distinzione
tra testo spettacolare e testo drammatico. Il testo spettacolare, ossia lo
spettacolo teatrale in tutta la sua completezza e complessità, costituisce
evidentemente l’oggetto privilegiato per un’analisi semiotica che voglia
tenere conto delle molteplici componenti dell’evento scenico. Tuttavia, dal
punto di vista linguistico, il testo drammatico riveste un interesse particolare
per il suo carattere di testo estetico basato sulla parola e dunque assimilabile
in questo ad altre produzioni letterarie.
Nel corso degli ultimi anni la semiotica, alla ricerca di un metalinguaggio
scientificamente fondato che consenta la lettura di quella complessa
stratificazione di sistemi significanti che è il teatro, si è soffermata a più
riprese sul testo drammaturgico e sui suoi aspetti comunicativi. Uno dei
nodi fondamentali attorno ai quali si è svolto il dibattito riguarda la
dicotomia esistente fra testo e spettacolo; questa bipolarità tipica del
fenomeno teatrale ha finito con l’orientare gli studi in due direzioni: da un
lato
1
, si è ritenuto di individuare la specificità del testo teatrale nella sua
opposizione rispetto agli altri generi letterari; dall’altro
2
, si è individuata la
specificità della messa in scena nella sua opposizione con l’atto
comunicativo quotidiano, soprattutto per ciò che pertiene alla componenete
pragmatica. Un tentativo di unificazione fra questi due aspetti del fenomeno
teatrale è rappresentato dalla proposta avanzata da Alessandro Serpieri
3
di
ancorare il testo scritto alla messa in scena, sottolineando la pertinenza, al
fine di una corretta segmentazione, degli elementi deittici e performativi
presenti nella lingua del testo teatrale. Tali categorie, provenienti
1
SEGRE 1984.
2
RUFFINI 1981.
III
dall’analisi della comunicazione orale e riguardanti il livello della lingua più
rivolto verso la fattualità immediata, quindi più direttamente coinvolto da
fattori pragmatici, vengono applicate all’esame di testi scritti, quelli teatrali
appunto, per provarne la duplice natura linguistica.
2. La situazione del teatro in Italia negli anni ’60.
Premesso che non è questa la sede per un’analisi approfondita della storia
del teatro italiano e dei suoi mutamenti nel corso degli anni ’60, si cercherà
comunque di darne alcune coordinate per inquadrare il periodo in cui Fo
scrive le commedie analizzate nel presente lavoro (1959-1964)
4
.
Per imprimere un’inversione di tendenza rispetto all’orientamento letterario
che aveva sempre avuto il nostro teatro, ha operato anche in Italia, parte
dell’avanguardia teatrale, evidenziando fondamentalmente due linee di
ricerca differenziate ma tese ambedue a ridimensionare, se non a vanificare
del tutto, il ruolo del testo e dunque della componente verbale. Si può solo
accennare qui all’importanza, nel corso degli anni Sessanta, della
contestazione operata in Francia da parte del teatro dell’assurdo contro il
teatro da boulevard; alla scoperta del corpo e del gesto da parte del Living
Theatre; fino alle esperienze di Grotowskij, Barba. Sono tutte proposte che
trovano in Italia una ricezione attenta e interessata da parte di coloro che
vanno meditando una concezione rivoluzionaria del teatro, sottratto al
primato della parola e dunque libero di muoversi su un terreno totalmente
svincolato dalla letterartura, orientato verso l’individuazione di codici
3
SERPIERI 1977, p. 105.
4
Per un ulteriore approfondimento sull’argomento si vedano PUPPA 1990 e ANGELINI
1990 e 1991.
IV
alternativi a quello verbale (gestuale appunto, ma anche visivo e sonoro) e
alla loro organizzazione in sistemi coerenti.
Parallelamente all’avanguardia si può individuare in Italia anche una linea
di sviluppo del teatro di parola, quel teatro cioè che, pur accogliendo alcuni
esiti delle riflessioni più recenti sulla comunicazione teatrale, continua
tuttavia a considerare la parola come strumento espressivo privilegiato ed a
mantenere inalterata, almeno nelle linee fondamentali, la struttura testuale.
La lingua teatrale, come già detto, è una lingua particolare e la sua
espressività non può essere misurata né sui parametri di giudizio validi per
la lingua poetica e narrativa, nè su quelli validi per il parlato spontaneo.
Essa è caratterizzata dalla centralità dei processi comunicativi: una
comunicazione che si sdoppia in un vettore centripeto, rappresentato dal
livello comunicativo interno al testo (quello che poi si struttura nel dialogo),
e un vettore centrifugo, cioè il livello comunicativo che riguarda attori e
dramma da una parte e pubblico dall’altra
5
. Di questa duplice potenzialità
che caratterizza la comunicazione teatrale troviamo un riflesso anche a
livello linguistico: la lingua teatrale dovrà infatti contenere elementi in
grado di ancorarla al contesto extraverbale, pragmatico, come gli
attualizzatori spazio-temporali (dimostrativi, deittici), le interiezioni,
l’intonazione; ma nello stesso tempo la lingua teatrale risente anche della
programmazione complessiva del testo, non soltanto sul piano dei contenuti
e del dosaggio dell’informazione ma anche sul piano dell’espressione
verbale, dove vengono eliminate le ridondanze tipiche del parlato
spontaneo.
5
STEFANELLI 1982, p. 168.
V
Si può tuttavia affermare che quegli anni hanno visto un’apertura da parte
del teatro di parola verso le nuove varietà e i nuovi registri linguistici che si
stavano affermando in ambito sociale; apertura sostenuta, oltre che da Fo
(per quanto riguarda la realtà lombarda), da una personalità come Eduardo
De Filippo, forte della tradizione napoletana. Di fatto la personalità di
Eduardo riesce ad elevare questa tradizione al livello di una nuova
“commedia umana” di ambiente partenopeo. Eduardo ha comunque molto
lavorato sul suo dialetto per renderlo sempre più adeguato alle nuove
tematiche (che si allontanavano sempre più dal semplice schema della farsa)
fino ad approdare ad un italiano regionale di area campana più facilmente
accessibile ad un pubblico appartenente a diverse zone geografiche.
3. La situazione linguistica in Italia negli anni ’60.
Posto che, anche per questo secondo argomento, non è questa la sede per
una trattazione esauriente sull’argomento, si vuole comunque tracciare un
breve panorama linguistico del periodo interessato.
Nel corso del Novecento la lingua nazionale , non già come dato
miticamente unitario e uniforme, come era nei programmi del Manzoni, ma
come sistema vivente della tradizione letteraria in continuo processo di
integrazione e di adattamento in tutte le sue funzioni, quale era nel pensiero
dell’Ascoli, ha certamente attuato una cospicua unificazione linguistica del
paese. Ma tale unificazione linguistica, sia sull’asse orizzontale (geografico)
sia sull’asse verticale (sociale) è risultata non soltanto incompiuta, ma anche
inadeguata.
Nell’autunno del 1964, dal riconoscimento della incompiutezza e della
inadeguatezza della unificazione linguistica, prendeva lo spunto uno
VI
scrittore sensibile come Pier Paolo Pasolini, a cui si deve l’ultimo clamoroso
intervento nella “questione della lingua” del Novecento. Nato come
conferenza, questo intervento fu infine pubblicato su «Rinascita» del 16
dicembre 1964, con il titolo Nuove questioni linguistiche. Conscio del fatto
che qualche cosa stesse succedendo nella lingua italiana negli anni del
grande sviluppo economico del secondo dopoguerra, Pasolini dichiarava
innanzitutto l’inesistenza di una lingua effettivamente unitaria e comune.
Partendo da premesse marxiste e gramsciane
6
, egli sosteneva che era nato
un nuovo e unitario italiano, i cui centri irradiatori stavano al Nord del
paese, lungo l’asse Milano-Torino, dove avevano sede le grandi fabbriche, e
dove era diffusa e sviluppata la moderna cultura industriale. Il nuovo
linguaggio tecnocratico doveva avere come ambiente di elaborazione le
aziende e doveva opporsi al linguaggio tradizionale, proprio delle
università, che aveva i suoi centri di diffusione a Roma e Firenze, le
tramontate capitali della lingua.
Tra chi partecipò alla discussione con Pasolini vi fu uno scrittore di
altrettanta forza, Italo Calvino, il quale pose al centro del suo discorso il
rapporto fra l’italiano e le altre principali lingue mondiali e la (non)
traducibilità dell’italiano stesso. Accanito contro i dialetti bolsi e stantii,
alzò la bandiera di una lingua concreta e precisa, che battesse in breccia le
espressioni astratte e generiche e il terrore della esattezza e della semplicità
6
Considero qui il pensiero di Gramsci, svoltosi prima e durante il fascismo (in prigionia)
ma noto e incisivo a partire dalla pubblicazione delle sue opere in questo dopoguerra. Al
centro del pensiero gramsciano è la questione dell’unità linguistica italiana, compromessa
per lui dall’umanesimo e dal successivo e cronico cosmopolitismo dei nostri intellettuali.
Fermamente ostile alle posizioni manzoniane, cioè alla pretesa di imporre la lingua unitaria
dall’alto, anche perché molto attento alle condizioni plurilinguistiche dell’Italia, Gramsci
va considerato senz’altro filoascoliano; antipopulista, senonché questo atteggiamento
prende in lui tinte di forte giacobinismo linguistico: il che comporta anzitutto un attacco
frontale ai dialetti in quanto limitati, antiunitari e regressivi.
VII
semantiche. L’italiano poteva salvarsi, secondo Calvino, solo se diventava
una lingua “strumentalmente moderna”, fatta di parole concrete e
traducibili, liberandosi finalmente della fraseologia generica e degli astratti
dell’ “antilingua”.
La tesi di Pasolini cadeva in un momento particolare delle controversie
letterarie. C’era stata ed era ancora in atto l’esperienza del “plurilinguismo”
di Gadda; le polemiche sul neorealismo, con le sue implicazioni popolari e
le parlate dialettali (Sciascia, Moravia) erano state sedate; le discussioni
sulla neoavanguardia (Marinetti, Palazzeschi), con il suo rifiuto del
linguaggio costituito e tradizionale erano in via di esaurimento; mentre
l’interesse critico pareva concentrarsi sulla cosiddetta crisi di scrittura del
romanzo, involto in quegli anni in un nuovo sperimentalismo. Coletti,
parlando di narratori come Cassola, Bassani, Tomasi di Lampedusa, Natalia
Ginzburg, osserva che la scelta da essi compiuta in favore della «lingua
media e comune, dopo gli abbassamenti del neorealismo e le infrazioni
espressionistiche e d’avanguardia, è innanzitutto, scelta di una lingua più
ricca e, in parte, anche più complessa di quella ammessa dal romanzo
dell’immediato dopoguerra»
7
.
Coletti ha usato la categoria dei “italiano medio” per classificare il
comportamento linguistico degli scrittori, per distinguere coloro che
accettano di correre il rischio di una amputazione di ogni originalità
stilistica, da coloro i quali, come il Gruppo ’63, come D’Arrigo, Testori,
Busi, hanno preferito soluzioni di rottura, personali, arrischiate, magari
scarsamente comunicative.
7
COLETTI 1993, p. 359.
VIII
La tesi pasoliniana fu ampiamente criticata. L’insieme delle obiezioni che le
furono mosse chiarì in via definitiva che, con i nuovi indirizzi linguistici
fortemente intrisi di elementi “tecnici”, non solo non era nato né stava per
nascere alcun tipo di nuovo italiano nazionale, ma che l’unificazione
nazionale dell’italiano comune era strettamente connessa con un reale
incremento culturale della nazione tutta, nella complessità del suo tessuto
sociale.
Infatti, non solo le numerose sperimentazioni degli scrittori portarono a
cambiamenti nella lingua; si tenga presente che contribuirono a modificare
la situazione linguistica del tempo anche alcuni importanti fattori sociali. La
televisione cominciò a trasmettere in maniera regolare nel gennaio 1954; la
sua funzione linguistica si è così affiancata a quella dei media che già
esistevano, giornali, radio, cinema.
Tappa importante, inoltre, sul cammino di un’omologazione di tutti gli
italiani fu, nel 1962, l’introduzione della scuola media unica, uguale per
tutti, con obbligo scolastico fino ai quattordici anni.
Negli anni Sessanta e Settanta, proseguendo una tradizione nata con le lotte
operaie del primo Novecento, anche la fabbrica ha svolto una funzione di
scuola, promuovendo e integrando nella realtà cittadina e industriale masse
di origine contadina, che conoscevano soltanto il dialetto.
Si fanno alcuni cenni alla situazione linguistica in Lombardia, terra di
provenienza di Fo, nel periodo interessato.
Nella regione esisteva ancora negli anni ’30-’40 una forte diglossia, e
l’italiano, imposto dalla scuola e dalla politica del regime, era normalmente
strumento di comunicazione solo tra le classi alte.
IX
Nel secondo dopoguerra, le cose cambiano radicalmente: la ricerca del
benessere economico del Nord industrializzato si accompagna a una ricerca
di promozione sociale e linguistica. Dopo la seconda guerra mondiale il
«miracolo economico» di cui è stata protagonista principalmente l’area
industrailizzata lombarda ha determinato in larga misura una rapida
evoluzione nel quadro sociolinguistico e negli usi dell’italiano e dei dialetti,
convogliando nella regione massicci flussi migratori, con punte vistosissime
tra il ’50 e il ’70. L’integrazione linguistica degli immigrati era avvenuta
principalmente, fino alla seconda guerra mondiale, sulla base del dialetto
locale o di quello di maggior prestigio parlato nella zona, mentre negli anni
del boom è avvenuta e avviene in italiano.
Importante è inoltre il ruolo di punto di riferimento e di mediazione svolto
da Milano, soprattutto per le parlate della Lombardia occidentale.
4. Nota biografica.
Dario Fo nasce a San Giano (Varese) nel 1926.
Inizia la sua carriera intorno al 1952 con Poer Nano e altre storie, ma si
segnala al pubblico l’anno successivo insieme a Franco Parenti e Giustino
Durano scrivendo e interpretando la rivista satirica Il dito nell’occhio, a cui
segue nel 1954 I sani da legare.
Dal 1957 inizia il connubio artistico e personale con Franca Rame e
allestisce una sorta di antologia della farsa ottocentesca italiana, Ladri,
manichini e donne nude e una serie di commedie tra le quali: Gli arcangeli
non giocano a flipper (1959), Aveva due pistole con gli occhi bianchi e neri
(1960), Chi ruba un piede è fortunato in amore (1961), Settimo: ruba un po’
meno (1964), La colpa è sempre del diavolo (1965) e altre.
X
Nel 1968 Fo decide di abbandonare i tradizionali circuiti teatrali e fonda il
gruppo «La Nuova Scena» che presenta nel 1969 Mistero buffo, in cui
l’attore compare come unico interprete. Tra i monologhi recitati dall’attore
ricordiamo anche Storia della tigre ed altre storie (1979).
La sua ricerca di un teatro politico lo porta a scrivere testi come L’operaio
conosce 300 parole, il padrone 1000: per questo lui è il padrone (1969) e
Grande pantomima con bandiere e pupazzi piccoli e medi (1968), una
presentazione satirica dei politici italiani. Nel 1970 costituisce il collettivo
«La Comune» scrivendo e interpretando spettacoli costruiti su temi di
attualità come Morte accidentale di un anarchico (1970), Pum, pum! chi è?
La polizia! (1972), Non pago, non pago (1974), Il Fanfani rapito (1975), La
marijuana della mamma è la più bella (1976). Nel 1981 scrive in
collaborazione con Franca Rame Parti femminili. Tra i lavori più recenti si
ricorda Il papa e la strega (1989), Zitti stiamo precipitando (1990),
Parliamo di donne (1991, scritto in collaborazione con la Rame) e Johan
Padan a la descoverta dell’America (1992). Tra gli ultimi testi scritti e
diretti da Dario Fo segnaliamo Il diavolo con le zinne (1997), interpretato da
Franca Rame e Giorgio Albertazzi, Marino libero, Marino innocente (1998)
e Francesco, jullare de Deo, che sta portando in turnè nei teatri italiani in
questo periodo.
È tra gli autori più rappresentati all’estero. A Parigi l’attore ha diretto nel
1992 due farse di Molière per la Comédie Française: Le Médecin malgré lui
e Le Médecin volant, e l’opera lirica Il Barbiere di Siviglia di G. Rossini.
Tra i suoi scritti citiamo Manuale minimo dell’attore (1987), Totò. Manuale
dell’attore comico (1991), Fabulazzo (1992) e la traduzione del Don
Giovanni di Molière a cura dell’attore e di D. Gambelli.
XI
Nel 1997 Dari Fo è stato insignito del Premio Nobel per la letteratura.
5. Le commedie.
Nel 1959 Fo tira le somme della sua prima esperienza teatrale. Abbandonate
le farse a cui si era dedicato nella seconda metà degli anni ’50
8
, egli inizia a
scrivere commedie.
La farsa si colloca nell’esperienza dell’autore come laboratorio di mestiere;
farsa che era ispirata dai copioni della famiglia Rame (che faceva teatro di
strada) e aggiornata con la rilettura di Feydeau e del teatro dell’assurdo
9
.
Le commedie sono da ritenersi sintesi di fabulazione, farsa e arte comica, in
continuo mutare di composizione; disponibilità coraggiosa al nuovo e
continuità del vecchio si alternano in Fo.
Dal ’59 al ’67, con il ritmo di un lavoro ogni autunno
10
, secondo la richiesta
del mercato, Fo libera la sua maggiore produzione, quella che ne ha fatto lo
scrittore del nostro teatro di oggi più rappresentato all’estero. “Io vengo da
una famiglia di attori, fin da bambina ho visto allestire, costruire, scrivere
spettacoli di tutti i generi, ma il metodo e la rapidità nello scrivere di Dario
mi hanno sempre impressionata”, racconta Franca Rame
11
.
Le tre commedie analizzate sono:
1) Gli arcangeli non giocano a flipper (1959) = Arcangeli;
8
Un primo gruppo di farse, rappresentate nell’estate del ’58 al Piccolo di Milano,
comprende: L’uomo nudo e l’uomo in frak, Non tutti i ladri vengono per nuocere, Gli
imbianchini non hanno ricordi; un secondo gruppo, dato allo Stabile di Torino con la
collaborazione di De Bosio, nel novembre del ’58, comprende: La Marcolfa, Un morto da
vendere, I tre bravi. Infine, rappresentata nel luglio del ’58, I cadaveri si spediscono e le
donne si spogliano.
9
Per un approfondimento sugli inizi della carriera di Dario Fo, si veda il volume di PUPPA
1978, pp. 31-36.
10
A stendere gli Arcangeli Fo aveva impiegato venti giorni esatti, chiuso quasi senza
mangiare e dormire in una stanza d’albergo di Cesenatico, secondo un rituale che poi si
ripeterà puntualmente ogni estate.
XII
2) Aveva due pistole con gli occhi bianchi e neri (1960) = Aveva due
pistole/Aveva due p.;
3) Settimo: ruba un po’ meno (1964) = Settimo.
L’edizione di riferimento è: Dario Fo, Le commedie di Dario Fo, 13 voll.,
Torino, Einaudi, 1966-1998, in particolare i voll. I e II.
Gli arcangeli non giocano a flipper.
È la prima commedia in tre atti di Fo
12
.
Lo spunto di Gli arcangeli non giocano a flipper gli era venuto da una
novella di Augusto Frassineti, uno scrittore che aveva collaborato alla
sceneggiatura de Lo svitato (1956). La chiave del racconto di Frassineti era
lo sbaglio anagrafico per cui un uomo viene registrato come cane, mettendo
così in moto una serie di situazioni paradossali in cui si satireggiava la
burocrazia di stato. Questo tema, che in Frassineti è centrale, diventa nel
copione di Fo uno dei tanti motivi che, assieme ad altri, dà vita a una
girandola di situazioni incastrate una nell’altra.
Rispetto alle farse, nella commedia sono presenti alcune grosse novità.
Innanzitutto compaiono due personaggi autonomi, delineati a tutto tondo, un
lui/lei coppia con una sua love story progressivamente emergente. Un’altra
novità è data dalla presenza in scena, per la prima volta, di un gruppo
socialmente determinato, non più il concentrato precedente di tipi fissi-
absurdisti. Infine la scelta dei personaggi, tutti sottoproletari e “balordi”,
11
“Una testimonianza di Franca Rame”, introduzione alle Commedie politiche di Dario Fo,
Einaudi, Torino, 1975.
12
Gli arcangeli non giocano a flipper è stata rappresentata la prima volta l’11 novembre
1959 al teatro Odeon di Milano.
XIII
come fino ad allora era successo solo nel teatro dialettale. Sono dei balordi
bonari, sorta di proletariato di periferia che vive di espedienti per
sopravvivere. Il loro lessico è gergale, con traduzioni-perifrasi prese dalla
strada dove ricorrono come idioletti “faccia di palta” e “sei proprio un
pistola”.
Al Lungo, il protagonista, un ragazzone di periferia buono, credulone e
sempre beffato dagli amici, durante i tre atti della commedia, ne capitano di
tutte. Da un finto matrimonio con una biondona buona e gentile che risulterà
poi una prostituta, alla scoperta di essere stato registrato all’anagrafe come
cane bracco per il tiro birbone di un vecchio impiegato che prima di andare
in pensione aveva manomesso numerosi documenti per vendicarsi dei torti
subiti. Dalla effettiva trasformazione in cane, con un frenetico passaggio fra
gli accalappiacani del canile municipale, alla metamorfosi in ministro in
viaggio su un treno riservato, con uno scambio continuo di travestimenti e
di persone, fino alla soluzione finale: è il momento del risveglio, tutta la
storia agita in scena è stata infatti un sogno del Lungo, che era caduto
sbattendo la testa nel primo atto. Una volta caduto sul piano reale, il sogno
rivela la sua carica profetica, realizzandosi clamorosamente. Basta che il
Lungo, deluso nei suoi entusiasmi onirici, davanti alla sposa che gli viene
mostrata come un orrendo manichino, si metta a imprecare contro questi
paradossali Arcangeli (il destino?) che scrollano i poveracci facendogli fare
tilt quando meno se l’aspettano, perché subito si sveli l’autenticità del
messaggio notturno. Il pupazzo infatti si libera dal trucco e ridiventa la bella
e prosperosa Angela.
Una commedia a volte squinternata dove Fo aveva messo dentro un po’ di
tutto, perfino la sua passione morbosa per i flipper, di cui era un giocatore
XIV
instancabile. E da cui sprigionava una specie di “follia innocente”, ma anche
una voglia di mettere in grottesco il mondo e la realtà così com’erano: con
la schiera dei burocrati-impiegati che nel secondo atto erano rappresentati
come manichini irrigiditi che ripetevano all’infinito gli stessi gesti e che si
esibivano in canzoncine paradossali; con altri spunti garbatamente polemici
contro la retorica delle istituzioni quando il Lungo si finge ministro e con il
vero ministro stupido e corrotto, anche se siamo ancora lontani dalle accuse
esplicite alla classe politica di Settimo: ruba un po’ meno; ed infine
soprattutto con la figura del Lungo che, come sostiene Fo, “è quasi una
maschera da commedia dell’arte, vittima degli scherzi e dei lazzi degli altri
personaggi”. Il Lungo è il più balordo dei balordi, perché ha fatto della sua
condizione un mestiere alle spalle degli amici, si fa passare per scemo, si
presta a far la vittima dei loro giochi per cavarne di che vivere. Ed è
significativo che sia proprio il Lungo, icona scenica di Fo, ad autodefinirsi
“giullare”. Negli Arcangeli infatti, in un dialogo fra il Lungo e la Bionda,
compare per la prima volta nel teatro di Fo, la nozione di giullare (si pensi
all’importanza di questa figura nel teatro di Fo che seguirà, vale per tutti
l’esempio di Mistero buffo):
LUNGO Quello di farmi sfottere è un po’ come il mio mestiere.
BIONDA Il mestiere di farsi sfottere?
LUNGO Sì. Hai in mente i giullari?
BIONDA E... certo che li ho in mente. (Erudita, enciclopedica) I giullari
erano quelli che facevano ridere i monarchici... E’ giusto?
LUNGO Giustissimo. E anche per me è la stessa cosa... con la sola
differenza che non essendoci più i monarchici faccio ridere gli amici del
caffè, sono il Rigoletto dei poveri, insomma... Ma l’importante è che mi
guadagno anch’io il mio stipendio.
BIONDA (stupita, incredula) Ti danno uno stipendio?
XV
LUNGO Guadagno certo più che se facessi l’impiegato, e lavoro molto
meno. Guarda, tutto quello che ho addosso me lo hanno prestato loro (I,
2, p.26).
In questa commedia Fo dà vita a una lingua casereccia, una lingua parlata
compiaciuta nel ricorrere a parole correnti e spesso stonate. Le battute
hanno il ritmo rapido e le inflessioni popolari di una lingua da «periferia
lombarda»
13
.
Aveva due pistole con gli occhi bianchi e neri.
Se gli Arcangeli erano un rifacimento della commedia surreale, con prelievi
dalla tradizione leggera-rosa da boulevard, l’anno successivo, nel ’60
14
, Fo
punta a un altro territorio, a diversi indici linguistici, a una mescolanza di
cinema americano gangsteristico.
La vicenda, che si rifà ad un clamoroso caso di cronaca, è situata tra la fine
della prima guerra mondiale e l’avvento del fascismo. Stavolta la struttura
non è basata, come negli Arcangeli, sulle peripezie oniroidi di un
personaggio, ma è una specie di gangster-story, una commedia nera legata
allo schema della doppia agnizione, ossia lo scambio di identità tra due
figure opposte, tipizzate all’estremo, il prete colto da amnesia e il gangster
sosia che vuole approfittarne, con la bella Luisa, che funge da terzo polo
dinamico, oggetto erotico che motiva gli screzi tra i due.
Il buono (il prete-democristiano) e il cattivo (il bandito-fascista) sono
dissociati, ma insieme riavvicinati perché impersonati dallo stesso attore.
13
la notazione appartine allo stesso Fo ed è riportata in VALENTINI 1997, p.66.