2incerte (prezzi, costi, fatturato, ricavi, numero di clienti, quota di mercato,
ecc..) ad indicatori di tendenza generale (il numero più probabile).
L’analisi delle possibili evoluzioni e degli scenari che si possono
presentare è tanto più difficile quanto minori sono le certezze a cui fare
riferimento.
Come pretendere, allora, di valutare le imprese Internet coi metodi
tradizionali?
La risposta è che, in realtà, come la New Economy non ha imposto un
nuovo modo di creare valore, che continua comunque a dipendere dai flussi
di cassa generati dalla gestione, così non è stato necessario creare nuovi
criteri e princìpi di apprezzamento di tale valore.
I metodi di valutazione, in pratica, rimangono sempre gli stessi, ma
sono stati perfezionati, arricchiti e adattati alle caratteristiche di volatilità
ed incertezza del mercato.
Si pensi, ad esempio, ai nuovi multipli di mercato, i “multipli degli
utenti”, che invece di associare il valore dell’impresa a grandezze di
bilancio (come utile, margine operativo, ecc.., spesso non indicativi nei
primi anni di attività perché negativi), lo associano al numero dei suoi
clienti.
3Oppure si può pensare al metodo dei flussi di cassa “a tre stadi”, adatto
a considerare una fase molto frequente nella vita della imprese Internet,
quella di “ipercrescita”.
Infine, si pensi alla rinnovata importanza dell’approccio basato sulle
opzioni reali, che valorizza la “flessibilità manageriale”, intesa come
capacità di definire e attivare modalità strategiche alternative a seconda di
come si evolvono le variabili incerte che caratterizzano lo scenario.
Nel primo capitolo si descrive la teoria della creazione del valore;
partendo dai limiti dei metodi contabili di misurazione, si arriva
all’affermazione che il valore dipende da due elementi: redditività (vale a
dire differenza tra tasso di rendimento e costo del capitale investito) e
crescita.
Questo concetto è molto importante nell’ambito della New Economy
perché spesso le imprese, pur avendo risultati economici negativi, hanno
elevatissimi valori di capitalizzazione, giustificati, appunto, dalle
prospettive di crescita.
Il secondo capitolo è dedicato agli aspetti generali della New Economy,
cioè alle caratteristiche del “bene informazione”, ai fenomeni di esternalità
di rete e di feedback positivo; inoltre, vengono descritti i diversi segmenti
di mercato e i principali fattori di successo delle imprese Internet.
4Nel terzo capitolo si affronta il tema della valutazione delle imprese
Internet.
Dopo una breve descrizione dei metodi di valutazione tradizionali, vengono
esaminati il metodo dei multipli di mercato, compresi i “nuovi multipli” o
“multipli degli utenti”, il metodo dei flussi di cassa, con la variante “a tre
stadi”, il metodo reddituale basato sulla valorizzazione degli intangibles, e
il metodo delle opzioni reali, descritto nei suoi aspetti qualitativi, che, in
una situazione di elevata incertezza, permette di apprezzare e valorizzare la
flessibilità del management.
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Il valore e la sua misura
1-1 Introduzione
Le imprese esistono per creare valore: la creazione del valore è la molla
che spinge a far nascere una nuova azienda, che ne garantisce l’esistenza e
la continuità; ed è l’eventuale incapacità di creare valore che ne determina
la morte. L’azienda dunque è al centro di un insieme di giudizi di valore: i
clienti giudicano se i suoi prodotti e servizi valgono il prezzo da pagare, i
dipendenti giudicano se le ricompense valgono il loro lavoro, i finanziatori
giudicano se il ritorno atteso vale il rischio del loro investimento nel
capitale. Quindi l’azienda deve soddisfare le aspettative di ognuno dei suoi
interlocutori (stakeholders); ove non fosse in grado di farlo, verrebbe
abbandonata a favore di altre imprese giudicate capaci di creare valore. Ma
come nasce e perché si sviluppa tutto quest’interesse per la creazione del
valore?
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Durante gli anni ottanta, nel mercato finanziario statunitense, iniziò a
manifestarsi una crescente insoddisfazione nei confronti dei risultati
ottenuti dalle grandi imprese.
In particolare si registrò una perdita di competitività in molti settori nei
confronti della concorrenza internazionale, specialmente tedesca e
giapponese, e un insoddisfacente livello di redditività anche per quegli
azionisti che avevano investito in imprese considerate “modelli
d’eccellenza” dal punto di vista delle pratiche manageriali. A questa
situazione fece seguito una serie di operazioni di ristrutturazione. Le
operazioni di corporate restructuring, attraverso fusioni, acquisizioni,
scorpori, take-over ostili ecc… trasformarono rapidamente la struttura del
sistema delle imprese e degli assetti di controllo. Queste operazioni erano
accomunate dallo scopo di fare emergere quell’enorme valore, inespresso,
che si nascondeva dietro strumenti decisionali e meccanismi di gestione
non indirizzati verso l’obiettivo che la teoria finanziaria ha sempre
considerato principale: creare valore per gli azionisti in termini di
dividendo e di apprezzamento della quotazione azionaria. Spesso le
ristrutturazioni sono anche giustificate dal desiderio di sventare i tentativi
di acquisizione di raiders che cercano società gestite al di sotto del loro
potenziale. Il modo più efficace per evitare un tentativo di acquisizione è
far salire il prezzo delle azioni. Va detto, fra l’altro, che se questo diventa
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lo scopo principale del management, verrà meno l’eventuale divergenza di
obiettivi tra proprietà e controllo, frequente soprattutto quando l’azionariato
è diffuso. La minaccia di licenziamento in seguito ad una scalata e ad un
cambio di proprietà è un deterrente che spinge il management a
massimizzare il valore delle azioni; inoltre quest’obiettivo sarà tanto più
desiderato quanto più il sistema di incentivi del management è legato al
valore dell’azione.
Le ragioni cui è stato attribuito il gap tra valore effettivo e valore
potenziale sono diverse:
• i metodi tradizionali di misurazione delle prestazioni d’impresa
che si basano su indici di redditività ( roe, roi, eps, ecc..) non sempre
inducono a scelte favorevoli all’azionista
• i sistemi d’incentivazione del management spesso si fondano sugli
stessi indici e dunque amplificano il rischio di comportamenti non orientati
al valore
• spesso l’obiettivo d’impresa è la crescita, che non necessariamente
coincide con la creazione del valore.
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1-1-1 Shareholders e stakeholders
L’azionista è il soggetto su cui cade maggiormente il rischio d’impresa,
perché accetta di essere remunerato dopo tutti gli altri fornitori di capitale.
Perciò egli pretende, come minima assicurazione, il primato riguardo a
diritto e potere di prendere le decisioni più rilevanti, ossa quelle che hanno
il maggiore impatto sulla creazione e distribuzione del valore.
Questo è il motivo per cui la teoria finanziaria ed economica ha sempre
indicato la massimizzazione del ritorno per gli azionisti come l’obiettivo
dominante d’impresa.
In realtà può non essere immediatamente evidente che l’approccio
basato sul valore per l’azionista sia il migliore: può essere sbagliato
privilegiare gli interessi degli azionisti rispetto a quelli degli altri gruppi.
Se guardiamo alle imprese dal punto di vista dello stakeholder
(qualsiasi portatore di interessi nella società), l’interesse di fornitori, clienti,
creditori, dipendenti e anche dello Stato sono importanti almeno quanto
quelli degli azionisti. In base a questo ragionamento, se una società si basa
semplicemente sullo SHV (Shareholder Value), l’unico stakeholder a cui
vanno tutti i benefici è l’investitore.
Assumere invece il punto di vista dello stakeholder significa prendere
in considerazione gli interessi talvolta in conflitto di lavoratori, azionisti,
clienti, fornitori e, in definitiva, di tutta la comunità.
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In questo modo, l’azienda “stakeholder” sembra giustificata: non è
forse più corretto considerare gli interessi di tutti gli stakeholders e poi
affidare al management il compito di riconciliarli?
Il problema è che in fondo questo non è possibile. Il management di
una società deve focalizzarsi su un obiettivo primario: massimizzare il
valore del capitale. Se deve guardare a più di un interesse, prima o poi
dovrà decider quale privilegiare, e la decisione dovrà basarsi su qualche
criterio. Cosa fare, per esempio, di fronte ad una decisione d’investimento
che crea valore e soddisfa i clienti, ma che comporta una riduzione del
personale? Quando gli interessi sono in conflitto s’impone una scelta e la
teoria dello stakeholder non aiuta a compiere questa scelta.
Privilegiare la creazione del valore invece aiuta; pur concentrandosi sul
suo unico obiettivo, una società che mira alla creazione del valore non può
permettersi di ignorare gli altri stakeholders; il personale se ne va se è
pagato o trattato male, i clienti non tornano se scontenti e anche i fornitori
devono essere soddisfatti.
Adottando le misure necessarie per massimizzare il valore aziendale,
una società, oltre agli interessi degli investitori, può fare quelli degli altri
stakeholders.
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1-1-2 Importanza e diffusione della teoria dello Shareholder Value
A distanza di qualche anno la creazione di valore è diventata una
“parola d’ordine” per il management. Tre forze in particolare hanno
contribuito alla crescita dell’importanza della creazione del valore.
Queste forze sono: la crescita del capitale privato, la globalizzazione
dei mercati e la rivoluzione dell’informazione. Vediamole una per una.
1 La crescita del capitale privato.
Negli ultimi 50 anni l’accumulo e la diffusione della ricchezza hanno
registrato un’enorme accelerazione, grazie al progresso tecnologico, ad un
lungo periodo di pace nell’Occidente e alla crescita del commercio
mondiale. Molti Stati hanno assunto impegni a lungo termine nei settori
delle pensioni, dell’assistenza sanitaria e della previdenza sociale. Ma gli
sviluppi demografici, ad esempio l’allungamento della vita media, hanno
fatto sì che negli ultimi 20 anni questi stessi Stati siano arrivati al limite
della loro capacità d’imposizione fiscale e d’indebitamento, per cui hanno
cominciato a diminuire il loro intervento e a lasciare agli individui il
compito di pensare al loro futuro.
Dal punto di vista pratico, ciò comporta che un numero sempre
crescente di persone investa privatamente per garantirsi una pensione e per
proteggersi con le assicurazioni, comprese quelle sanitarie, contro i rischi
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più vari. Tutto questo è a sua volta all’origine dell’enorme espansione dei
mercati borsistici e della continua crescita della percentuale di azioni e
obbligazioni in mano ad istituzioni come ad esempio i fondi pensione.
L’investitore individuale si aspetta che i fondi massimizzino la loro
performance, e i fondi, a loro volta, chiedono sempre più valore alle società
in cui investono.
2 La globalizzazione dei mercati.
A partire dal 1970 si sono sviluppati dei veri e propri mercati globali
per una gamma sempre più ampia di prodotti e servizi, parallelamente ai
vari accordi GATT (General Agreement on Tariffs and Trade), che hanno
progressivamente abbassato le barriere degli scambi. Negli anni ’80 i paesi
dell’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico)
hanno rimosso le restrizioni ai flussi di capitali, rendendo sempre meno
difficoltoso investire all’estero.
Oggi le imprese competono internazionalmente non solo per i clienti, i
prodotti e il personale, ma anche per il capitale. La capacità di attrarre i
capitali dipende dalla posizione nella graduatoria delle migliori società, e il
principale criterio di valutazione è la capacità di creare valore.
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3 La rivoluzione dell’informazione
Il crescente miglioramento tecnologico delle telecomunicazioni e dei
computer consente il trasferimento istantaneo del denaro in ogni parte del
mondo. Inoltre altri due aspetti della rivoluzione informatica hanno
contemporaneamente agevolato lo sviluppo della creazione del valore e
intensificato la domanda d’informazione volta a creare un mercato
efficiente. In primo luogo sono stati sviluppati dei software che hanno
facilitato gli investitori nella realizzazione dei complessi calcoli matematici
richiesti dalle metodologie relative alla creazione del valore.
In secondo luogo la qualità e quantità delle informazioni disponibili per
gli investitori sono oggi molto elevate: esistono numerose organizzazioni,
come ad esempio Reuters, che trasmettono on line notizie e informazioni
sul mercato in tempi reali e i dati su mercati e prodotti proliferano.
1-2 Critica ai metodi contabili di misurazione
Si è detto precedentemente che l’obiettivo principe dell’impresa è
massimizzare il profitto degli azionisti. Occorre però vedere se c’è
coerenza tra quest’obiettivo e l’impiego dei metodi contabili di misurazione
come criteri di scelta tra strategie alternative e di valutazione dei risultati a
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consuntivo. Vediamo quali sono i limiti delle principali misure contabili di
valutazione.
1-2-1 L’utile
L’utile contabile, per diverse ragioni, è una misura inadeguata del
valore azionario; in altre parole non misura fedelmente il cambiamento del
valore attuale della società. Le principali ragioni per cui ciò avviene sono:
• l’utile non ha una definizione contabile univoca
• non tiene conto del rischio
• non tiene conto delle necessità d’investimento
• trascura il valore finanziario del tempo
Vediamo dettagliatamente questi limiti dell’utile.
1-2-1-1 Definizione contabile non univoca dell’utile. Innanzitutto le
misure contabili non sono coerenti tra la varie parti del mondo. Il modo di
trattare, ad esempio, le rimanenze, gli avviamenti e il sistema fiscale
variano da paese a paese. Ma anche all’interno dello stesso paese l’utile
non ha una definizione contabile univoca. Al contrario si può calcolare in
più modi, ugualmente accettabili dal punto di vista contabile, ma
profondamente diversi nei risultati. Si può pensare, ad esempio, ai diversi
modi di valutare le scorte (LIFO e FIFO), oppure ai diversi criteri di
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ammortamento delle attività fisse (ammortamento crescente, a quote
costanti, a quote decrescenti).
Questi cambiamenti nelle pratiche contabili, che il management fa
spontaneamente o per conformarsi alle disposizioni degli enti a ciò
preposti, hanno sicuramente l’effetto di modificare l’utile, ma non sono in
grado d’influenzare il valore azionario se non modificano il cash flow.
Quando invece le pratiche contabili fanno variare il flusso di cassa, il
conseguente mutamento del prezzo dell’azione segue l’andamento di
quest’ultimo (aumento o diminuzione) e non quello dell’utile. Ad esempio,
col metodo di valutazione LIFO (last in first out), le scorte vengono
valutate ai prezzi storici, con una conseguente riduzione dell’attivo
patrimoniale e dell’utile; la riduzione del reddito imponibile, attraverso un
risparmio fiscale, ha un effetto positivo sul cash flow. A questo punto ci si
deve porre una domanda: il mercato rivolgerà la propria attenzione alla
riduzione dell’utile contabile o all’aumento della liquidità disponibile?
Ricerche empiriche, svolte negli USA da ricercatori della Chicago School,
hanno ampiamente dimostrato che le aziende passate al metodo LIFO
hanno registrato un aumento del prezzo dell’azione proporzionale al valore
attuale dei benefici fiscali; questa è una chiara evidenza a sostegno del fatto
che i prezzi dei titoli sono determinati dalla capacità di generare cassa
piuttosto che dal comportamento degli utili di bilancio.