6crescente alle strategie non-price, allo scopo di differenziarsi l’una dall’altra e
rendere i punti di vendita delle diverse insegne non perfettamente sostituibili.
Dall’altro lato avremo i prodotti con etichetta privata, introdotti in misura crescente
ed in un sempre più elevato numero di linee di prodotto.”
2
La diffusione di tali prodotti, realizzati da imprese manifatturiere specializzate e di
dimensioni minori rispetto a quelle che vendono marche nazionali, produce un
effetto di deconcentrazione poiché l’aumento della quota di mercato delle etichette
private implica maggiori opportunità e spazi di mercato per le produzioni delle
imprese medio-piccole. Possiamo quindi registrare una crescita della quota di
mercato per tali imprese ed una erosione della quota delle imprese maggiori.
In tale situazione si genera un ambiente in cui le imprese manifatturiere si trovano di
fronte a due tipologie di acquirenti: da un lato i consumatori finali, fedeli alle marche
nazionali dei produttori e, dall’altro lato, il catering e soprattutto le imprese della
grande distribuzione, che acquistano prodotti alimentari dai produttori allo scopo di
venderli con una propria etichetta.
La conseguenza di tale suddivisione della domanda è l’articolazione della struttura
interna dell’industria manifatturiera in due gruppi strategici di imprese. La domanda
espressa dal primo tipo di acquirenti definisce la dimensione del mercato delle
marche nazionali, mentre la domanda del secondo tipo di acquirenti determina
l’ampiezza del mercato per i prodotti unbranded e con etichetta commerciale.
L’esistenza di questa ultima domanda consente la presenza sul mercato di imprese
che, anche senza spendere in pubblicità, possono continuare a mantenere o
addirittura ad incrementare le loro quote di mercato. Tali imprese, infatti, non
competono direttamente con quelle che producono marche nazionali e non sono
quindi vincolate ad accollarsi le rilevanti spese pubblicitarie richieste dall’intensa
competizione orizzontale non-price, che caratterizza il gruppo strategico costituito
dai produttori di marche nazionali.
2
L. Venturini; L’industria alimentare in Strategie e competitività nel sistema agro-alimentare a cura
di R. Pieri e L. Venturini; Franco Angeli; Milano; 1995; pagg. 91-92
71.2 I gruppi strategici del settore alimentare
In tale ambiente competitivo appena descritto, diventa utile tentare una
classificazione dei possibili gruppi strategici per meglio esaminare caratteristiche,
posizionamento, scelte, requisiti di risorse e capacità delle singole imprese
appartenenti ai vari gruppi. Tale classificazione consentirà un’analisi più efficace
delle prospettive delle diverse imprese e dei mutamenti dell’importanza dei vari
gruppi strategici sulla base dei cambiamenti ambientali esaminati.
3
1.2.1 Piccole-medie imprese con strategie di nicchia
Appartengono a questo gruppo strategico le imprese di piccole dimensioni che
tuttavia hanno risorse e capacità per operare una politica di marca; la forza della
marca non dipende tuttavia da rilevanti investimenti sui media nazionali, ma
dall’immagine e reputazione che tali imprese si conquistano nei mercati locali-
regionali. Queste imprese utilizzano risorse e materie prime locali e si affidano alle
specificità dei gusti e delle preferenze regionali. La loro produzione raggiunge il
consumatore finale attraverso il canale del dettaglio specializzato o attraverso le
piccole catene regionali.
All’aumentare delle dimensioni d’impresa, aumenta il ricorso a più incisive politiche
di marca attraverso l’utilizzo delle diverse strategie di marketing. Per tutte le imprese
appartenenti a questo gruppo strategico è tuttavia essenziale la capacità di
comprendere i cambiamenti della domanda, le opportunità offerte dalla
segmentazione del mercato e l’importanza della qualità. Tutte investono dunque
soprattutto per avere impianti efficienti e tecnologie che consentano di rispettare gli
standard sanitari ed ambientali. Le medie imprese operano con orizzonti territoriali
più ampi, sia per l’approvvigionamento delle materie prime, che per le vendite, che
sono generalmente effettuate anche al di fuori dei confini regionali. Il rafforzamento
della capacità competitiva viene generalmente perseguito attraverso il potenziamento
del core business grazie ai maggiori sforzi di marketing piuttosto che mediante
strategie di crescita realizzate per mezzo di fusioni ed acquisizioni. Questi produttori
se detengono marche e quote di mercato locali particolarmente interessanti, possono
costituire probabili obiettivi di acquisizione da parte di imprese maggiori. Le medie
3
AA. VV.; Strategor; DUNOD; Paris; 1997; pagg. 26-30
8imprese dispongono generalmente di maggiori risorse e capacità di marketing, di una
più adeguata informazione sulle tendenze del mercato e sull’ambiente competitivo e
non producono per conto della grande distribuzione, non perseguono cioè strategie di
dual branding.
1.2.2 Piccole-medie imprese specializzate nella produzione di prodotti con
etichetta privata
La produzione per conto della GDO è in genere effettuata da piccole- medie imprese
specializzate, che in altre parole hanno scelto di produrre essenzialmente per la
distribuzione.
Tali imprese non sono dotate di capacità di marketing autonome e dipendono dai
buyer della GDO per le informazioni circa le caratteristiche, le quantità, la
specificazione, il contenuto qualitativo ed innovativo dei loro prodotti. Esse
sviluppano invece un’eccellenza nella capacità d’interazione logistica con la
distribuzione. Efficienza, flessibilità e competitività di prezzo sono i fattori di
successo aziendali.
Naturalmente la rinuncia ad una politica di marca e di competizione non-price,
comporta assenza di potere di mercato ed un basso potere contrattuale nei confronti
della distribuzione. Per le stesse ragioni, questo gruppo strategico non presenta
particolari barriere all’entrata e generalmente molti produttori sono potenziali
fornitori della distribuzione. Poiché le economie di scala non sono importanti nella
stragrande maggioranza delle branche dell’industria alimentare, le imprese
specializzate nella produzione di marche private sono vincolate a raggiungere
esclusivamente la dimensione minima efficiente per la funzione di produzione in
senso stretto.
Tuttavia, l’esistenza di economie nei trasporti e soprattutto gli elevati volumi
richiesti dalle grandi catene possono comportare uno svantaggio competitivo per le
imprese di minori dimensioni. Ciò è rafforzato dal fatto che l’evoluzione del concetto
e delle caratteristiche delle marche private (miglioramento della qualità, aumento del
contenuto d’innovazione) impongono ai produttori di marche private di adeguare e
innovare tecnologie ed organizzazione. Caratteristiche sostanzialmente analoghe
assume il gruppo strategico delle piccole e medie imprese specializzate nelle terze
marche.
9
1.2.3 Imprese nazionali
Per tali imprese, produzione e marketing hanno una dimensione nazionale. Tutte le
funzioni d’impresa sono essenziali per tali imprese: efficienza nella produzione ed
avanzate strategie di marketing per differenziare ed innovare. Per le imprese di
questo gruppo strategico, sono le strategie e le politiche di comunicazione,
promozione e advertising ad assumere un ruolo decisivo e a determinare i loro
vantaggi competitivi. La grande dimensione consente di ripartire su volumi elevati i
rilevanti costi fissi non-recuperabili che tali imprese devono sostenere per creare e
innovare marche nazionali.
Oltre alla dimensione elevata queste imprese presentano, inoltre, un elevato grado di
diversificazione. Il loro portafoglio prodotti è soprattutto il risultato di politiche di
brand extension, e cioè di estensione delle marche per creare e sfruttare economie di
scopo. Un fattore di successo decisivo per tali imprese è oggi quello di ottenere
spazio-scaffale. Dimensione nazionale del mercato significa anche scarso peso delle
esportazioni: esse collocano infatti la propria produzione essenzialmente sul mercato
nazionale, anche se possono esportarne una certa percentuale o come prodotto di
marca o come marca privata per la distribuzione estera.
Generalmente queste imprese non producono marche private per il mercato
nazionale, anche se non mancano eccezioni degne di nota. Infatti, le decisioni
strategiche di dual branding da parte di imprese nazionali sono complesse e
presentano rilevanti implicazioni. La produzione di marche private consente un
migliore utilizzo degli impianti e quindi riduzioni di costo, particolarmente
interessanti nei settori e nelle fasi di eccesso di capacità produttiva; può anche
comportare migliori rapporti con la distribuzione. D’altra parte, il rischio è quello di
cannibalizzare la propria marca e di favorire l’aumento della quota di mercato dei
prodotti con etichetta privata. È importante tenere presente che la decisione di
produrre anche marche private da parte di imprese nazionali riduce naturalmente gli
spazi e le opportunità che l’esistenza di marche private offre alle imprese minori.
1.2.4 Imprese internazionali e multinazionali
Le imprese internazionali hanno caratteristiche sostanzialmente simili a quelle
nazionali. Se ne distinguono per la capacità a perseguire la prima fase del processo
10
di internazionalizzazione; esse, infatti, a differenza di quelle nazionali esportano una
percentuale consistente del proprio fatturato e sono presenti sui mercati esteri
soprattutto con la propria marca.
Le imprese multinazionali sono spesso distinte in imprese transnazionali ed imprese
globali. Le prime producono in diversi paesi direttamente o attraverso franchising e
licenze di produzione. La specificazione del prodotto è diversa da paese a paese per
tenere conto della specificità dei gusti e delle preferenze locali nei diversi mercati.
Per la stessa ragione, è anche diversa l’impostazione delle strategie di marketing. Le
imprese globali, invece, producono e commercializzano marche molto forti in tutti i
mercati principali. La specificazione del prodotto è ovunque la stessa o presenta solo
piccole variazioni, mentre le strategie di marketing possono adattarsi alle diverse
realtà.
Le imprese globali hanno naturalmente sviluppato grandi capacità di marketing,
hanno quote di mercato molto elevate nei mercati in cui operano, attuano strategie
aggressive nella gestione delle marche per difendere e aumentare le loro quote, sono
dotate di grandi risorse, capacità e disponibilità ad adattarsi al cambiamento. La
capacità di adattarsi al cambiamento delle imprese globali è la più elevata,
nettamente superiore a quella delle stesse imprese nazionali. All’interno del gruppo
strategico delle imprese nazionali esistono, inoltre, differenze rilevanti. Accanto ad
imprese con sofisticate strategie di management ed elevate marketing skill, vi sono
infatti imprese la cui struttura di management è priva di una chiara direzione
strategica e che per sopravvivere necessitano di profondi cambiamenti.
4
4
L. Venturini; L’industria alimentare in Strategie e competitività nel sistema agro-alimentare a cura
di R. Pieri e L. Venturini; Franco Angeli; Milano; 1995; pagg. 103-104
11
1.3 L’evoluzione del mercato e la crescita della Grande
Distribuzione
Nel 1999 la moderna distribuzione ha incrementato la propria consistenza in misura
non indifferente: a fine anno si contano ben 50 ipermercati e 163 supermercati in più
dell’anno precedente.
ACNielsen, l’agenzia che monitorizza costantemente i punti vendita, ha fornito una
fotografia della situazione italiana, ricostruendo un decennio della sua evoluzione e
fornendo una proiezione per i prossimi tre anni.
A fine ‘89 si contavano in Italia 62 ipermercati; a distanza di dieci anni la
consistenza di questa tipologia si è più che sestuplicata, giungendo a quota 381.
L’incidenza di mercato di queste strutture è del 13%, con una previsione di
raggiungere il 18% nel 2002.
Il numero dei supermercati operanti in Italia è pari a 6.106 unità. ACNielsen ha
stimato che nel 2002 saranno 6.550, con uno sviluppo particolare nelle aree
meridionali. In questo segmento il futuro è affidato più ad una riconversione
dell’esistente che ad un ulteriore aumento quantitativo, considerato che le previsioni
portano la quota di mercato dal 35 al 37%, una performance decisamente inferiore a
quella dell’ipermercato.
Per quanto attiene il settore discount i tempi della crescita impetuosa sono finiti. Dal
‘97 il numero dei punti di vendita di questo segmento si sono stabilizzati, anzi nel
1999 il saldo è negativo con circa 200 unità in meno. Un andamento che nel
prossimo triennio, secondo i ricercatori della Nielsen, si consoliderà fino a sfiorare le
2.200 unità rispetto alle 2.298 attuali.
Gli esercizi a libero servizio (minimercati e superette) soffrono più di altri la
concorrenza delle grandi strutture. L’istituto di ricerca indica in un calo del 10%
delle unità nel quinquennio 1994/99 ed una riduzione di circa 3 punti della quota di
mercato (dal 20 al 17%). Un trend negativo che continuerà anche per il prossimo
triennio fino a giungere ad un’incidenza del mercato del 15%. Anche per i negozi
tradizionali la situazione non è confortante: a fine 2002 il loro numero si dovrebbe
attestare sulle 80.000 unità, quasi la metà di quelli esistenti nel 1985 con una caduta
verticale della quota di mercato (dal 36% al 12%).
Un settore in forte crescita è quello relativo alla “ristorazione fuori casa”. Cresce la
voglia e la necessità di consumare fuori casa il pranzo o la cena. Il mercato della
12
ristorazione extradomestica segna un rialzo del 3% nel ‘99 rispetto all’anno
precedente, con un giro d’affari di 61.475 miliardi. Ogni giorno sono oltre 8 milioni
le persone che escono in prevalenza da uffici, scuole o abitazioni per un panino o un
pasto in un esercizio pubblico. Complessivamente i pasti consumati fuori casa sono
quasi il 10% di quelli consumabili.
Rispetto al tipo di locale il giro d’affari è realizzato per il 47% dai ristoranti, per il
27% dalle pizzerie. Seguono i bar con il 12%, le mense aziendali e scolastiche (6%),
i fast food (3%) ed i self service (2%).
1.4 La dinamica economico-finanziaria nelle cooperative
Come vedremo in seguito, il settore avicolo è profondamente legato a quello della
cooperazione. Quest’ultimo a sua volta presenta alcune peculiarità che sarà bene
evidenziare prima di entrare nel vivo della trattazione dell’analisi.
Va detto inoltre che il modello di cooperativa preso in esame sarà quello delle
cooperative di produzione, essendo il modello ricorrente tra le aziende analizzate.
Innanzitutto va ricordato che il bilancio di una siffatta cooperativa, nel determinare a
pareggio il valore dei conferimenti con un’elevata incidenza dei prezzi di
trasferimento intra-gruppo, in realtà non evidenzia tout court un risultato economico,
essendo tale l’eventuale surplus incorporato in tale valorizzazione dei conferimenti.
Ciò ha quindi un primo riflesso, di carattere informativo, sulla gestione economica
caratteristica, posto che lo stesso reddito operativo non è quindi noto e/o
evidenziato. Ne derivano non lievi conseguenze, in quanto in tal modo vengono a
mancare gli indicatori per il governo dell’efficacia/efficienza della gestione
caratteristica, non riuscendosi a ricostruire le convenienze dei singoli
prodotti/mercati e l’economicità delle diverse fasi dei processi produttivi e della
complessiva gestione.
Tale elemento è di per sé un notevole fattore di rischio, foriero di erosione dello
stesso reddito operativo eventualmente esistente, posto che si viene a togliere una
fondamentale informazione per una guida efficace/efficiente della gestione,
venendosi così a spezzare quel fondamentale anello di controllo tra obiettivi ed
azioni correttrici via attraverso l’interpretazione dello scostamento obiettivi/risultati.
Lungo questa via, la carenza formale sopra citata si traduce in un secondo riflesso, di
carattere sostantivo, in tema di gestione caratteristica, conducendo verosimilmente ad
13
un logoramento degli stessi flussi economici che in assenza di adeguati strumenti di
controllo e di guida delle scelte si manifesteranno in relazione a comportamenti
diseconomici.
Un terzo riflesso della determinazione del valore dei conferimenti a pareggio, di
natura sia formale sia sostanziale, riguarda poi i movimenti finanziari tra le strutture
in gioco, posto che questi tenderanno a coincidere con la stessa valorizzazione dei
conferimenti. In altri termini, determinato a pareggio il valore dei conferimenti, la
cooperativa sarà portata a distribuire ai propri soci interamente tale ammontare.
Anche qualora esistesse un reddito positivo celato dalle particolari modalità di
determinazione dei risultati di bilancio, si avrebbe cioè una tendenza estremamente
accentuata alla totale distribuzione dei surplus prodotti, che eventualmente
residuassero dopo il pagamento degli oneri finanziari.
Quest’ultimo elemento assume un importanza critica, si vengono a rompere i
meccanismi di autofinanziamento, vale a dire i meccanismi che consentono la auto-
perpetuazione del ciclo economico-finanziario, non garantendo in tal modo
condizioni di auto-sviluppo economico-finanziario alla cooperativa.
Se questo è vero si può allora vedere come la situazione di sottocapitalizzazione nel
caso della cooperativa è in primo luogo legata alla rottura del meccanismo stesso di
autofinanziamento. Da questo punto di vista, la realtà del “gruppo cooperativo”
presenta elementi di crisi assai preoccupanti, che sul piano empirico non di rado si
potrebbero tradurre in crisi dirompenti.
A fronte di questa rottura del ciclo finanziario, in cui le entrate/uscite legate ai ricavi-
costi non apportano fonti di finanziamento in grado di autofinanziare il ciclo
economico della cooperativa, si supplisce evidentemente con altri flussi di
finanziamenti, e quindi con l’immissione di capitali in modo estraneo al ciclo
economico-finanziario:
ξ In primo luogo con ricorso all’indebitamento (spesso agevolato, a tutela della
debolezza cooperativa, con tutti i rischi evidenziati di permanenza a tempo
indeterminato di tali interventi, causa di non poche distorsioni e perdite di
efficienza) e che comunque si “cronicizza” esso stesso.
ξ In secondo luogo con prestiti da soci, che se rappresentano per certi versi una
sorta di “salvagente” alle deficienze strutturali dei meccanismi di
finanziamento della cooperativa o del consorzio, non di meno mantengono un
ben preciso carattere: sono comunque finanziamenti estranei alla gestione;
14
sono comunque onerosi e non subordinati al rischio d’impresa.
5
1.5 L’evoluzione del settore avicolo
Nella seconda metà degli anni Cinquanta in Italia era nata una nuova attività, quella
avicola che, come tutti i neonati, aveva bisogno di protezione e sostegno.
Allora infatti si producevano in Italia meno di 100.000 tonnellate di carne di pollame
e circa 4 miliardi di uova; in un anno, in media, ogni italiano mangiava solo 24 kg. di
carne dei quali poco più di 2 erano pollame e circa 120 uova; il valore della
produzione era allora (a valori attuali) di poco superiore agli 800 miliardi di lire;
negli allevamenti avicoli lavoravano circa 2.500 persone.
Ieri (1958) Oggi (1999)
Produzione Lorda Vendibile
(mld di Lit. a valori 1999)
800 5.000
Fatturato
(mld di Lit. a valori 1999)
1.150 8.200
Occupazione
(n. addetti)
2.500 79.500
Occupazione nell’indotto
(n. addetti)
--- 100.000
Produzione carni avicole
(tonn.)
98.700 1.176.900
Produzione di uova
(n.)
6.000.000.000 12.660.000.000
Consumi pro-capite di carni avicole
(Kg.)
2,0 18,99
Consumi pro-capite di uova
(n.)
126 224
Tabella 1 (fonte: UNA)
Oggi, la produzione di carni avicole ha raggiunto quasi 1 milione e 200 mila
tonnellate e quella di uova ha superato i 12,6 miliardi di pezzi; nel 1999 ogni italiano
ha mangiato, in media, 84 Kg. di carne dei quali 19 di pollame, e 224 uova; il settore
occupa direttamente 80.000 operatori ed altre 100.000 persone traggono il loro
reddito dalle attività connesse all’avicoltura (impianti ed attrezzature, mangimi per
pollame, etc.).
L’avicoltura è dunque divenuta e si è confermata settore leader della zootecnia
italiana, l’unico autosufficiente dall’estero, ed è al primo posto in Europa per la
qualità dei prodotti: traguardi questi raggiungibili grazie alla costanza e alla cura con
5
Luca Zan; L’economia dell’impresa cooperativa; UTET Libreria; Torino; pag. 152-154
15
i quali i produttori italiani svolgono la loro attività. L’aggiornamento continuo delle
tecniche di allevamento ed il rispetto delle più severe norme igienico-sanitarie hanno
permesso di offrire al consumatore alimenti sempre più sani, nutrienti, magri e al
tempo stesso gustosi.
Dopo la forte crescita della domanda nel 1996 (mucca pazza), nei successivi due anni
si è registrato un incremento produttivo che, in assenza di una crescita della
domanda, si è tradotto in una forte contrazione dei prezzi di mercato. La forte
espansione produttiva e la stagnazione della domanda, in un mercato caratterizzato
dall’assenza di qualsiasi regolamentazione, hanno provocato una forte riduzione dei
prezzi aggravata per l’anno in corso dallo scandalo del pollo alla diossina.
Il mercato comunque registra una sempre maggiore richiesta dei prodotti ad alto
contenuto di servizio, che vengono generalmente divisi in elaborati crudi (salsicce,
spiedini, hamburger) ed elaborati cotti (cotolette, crocchette, cordon-bleu, arrosti,
ecc.).
Il settore mangimistico nazionale registra una leggera flessione delle produzioni,
penalizzando i produttori di solo mangime a vantaggio delle imprese a produzione
integrata, favorite dalla grossa massa di produzione realizzata per il proprio ciclo
integrato.
16
1.5.1 La filiera avicola
Il 90% delle carni di pollame ed il 60% delle uova da consumo, nel nostro Paese
sono prodotte con il sistema ad “integrazione verticale”.
La produzione è infatti realizzata da aziende che hanno allevamenti di riproduttori,
incubatoi, producono i mangimi utilizzati per nutrire gli animali, allevano gli stessi
(in allevamenti propri, o convenzionati, o di soci conferenti), possiedono propri
macelli e propri laboratori per la trasformazione delle carni e/o propri impianti di
selezione e imballaggio delle uova da consumo e laboratori di trasformazione delle
stesse.
Si tratta cioè di un sistema a ciclo completo che, dal campo del contadino alla tavola
del consumatore, ha sotto controllo tutte le fasi produttive e distributive.
L’autosufficienza delle aziende integrate, e di conseguenza la possibilità di
individuare un responsabile ad ogni livello della filiera, garantisce ai consumatori
carni e uova di elevata qualità igienico-sanitaria ed organolettica (invidiateci da
moltissimi altri Paesi).
Il settore avicolo italiano oggi è fortemente legato al mondo della cooperazione.
Infatti, tra gli otto gruppi analizzati in questo lavoro, che detengono oltre il 90% del
fatturato dell’intero settore, è possibile notare che ognuno di essi ha adottato la forma
cooperativa per l’impresa di produzione. Con questo termine intendiamo l’impresa
che all’interno della filiera integrata verticalmente che ogni gruppo ha costituito per
la propria attività.
“La cooperazione ha consentito di risolvere almeno parzialmente uno dei principali
problemi che caratterizzavano il settore avicolo, vale a dire la scarsa concentrazione
dell’offerta responsabile, a sua volta, del sensibile indebolimento della forza
contrattuale sui mercati. Tenendo conto dei caratteri opposti che contraddistinguono i
settori che operano a monte e a valle di quello agricolo, essa, infatti, ha permesso
anche alle imprese agricole di accedere al grande mercato e di confrontarsi con le più
significative realtà del sistema agro-industriale.”
6
6
I. Bassi; Ruolo dell’impresa cooperativa nel nuovo quadro competitivo del settore lattiero-caseario:
il Consorzio Cooperativo Latterie Friulane quale caso di successo in SIEA Economia Agro-
alimentare N° 2 Agosto 2000; FrancoAngeli; Milano; 2000; pag. 191
17
Va poi rammentato come il mercato avicolo nazionale risenta in misura consistente
della fluttuazione periodica del rapporto domanda/offerta, nel senso che anche
piccole variazioni, sia della domanda sia dell’offerta, provocano sbalzi accentuati
delle quotazioni.
Il comparto avicolo è interessato da un intenso processo di concentrazione. A seguito
di diverse acquisizioni si è creata una posizione di leadership del Gruppo AIA. Dal
1996 il mercato non ha registrato entrate di rilievo, mentre appare condizionato dalla
presenza di un concorrente aggressivo quale Amadori, ma soprattutto dalla presenza
di molte piccole e medie imprese. Nel settore dei prodotti surgelati la domanda
continua a crescere in un contesto di consumi alimentari stagnanti; il tasso di
sviluppo attualmente è pari al 3-4% annuo in volume. In Italia si identificano due
distinti canali: il catering pari al 31% del mercato, il retail pari al 63% del mercato.
Un'analisi svolta da Databank individua, per il canale retail, i fattori di successo
nell'organizzazione produttiva, nel prezzo, nella pubblicità, e soprattutto
nell'innovazione del prodotto; mentre per il catering, nel rapporto prezzo/qualità,
nell'organizzazione distributiva e nella gamma di prodotti.
Sebbene il mercato sia ancora rappresentato per lo più da prodotti ittici e vegetali tal
quali, lo sviluppo è nei primi e secondi piatti pronti e dagli snacks che fanno
registrare i più elevati tassi di crescita nei consumi.
I consumatori italiani pur avendo il più basso consumo pro-capite di surgelati in
Europa, fanno registrare i più alti tassi di incremento.
Innovazione e qualità rimangono i key factors strategici per espandersi nel mercato,
specialmente in quello della grande distribuzione.
L'innovazione si riferisce alla messa a punto di nuovi prodotti che si differenziano
dalla concorrenza più accreditata con l'obiettivo di occupare spazi in nuovi punti
vendita. I nuovi prodotti permettono distinzione verso i consumatori per attrazione e
novità. Le migliori rotazioni e i nuovi fatturati aggiuntivi sono tra le cose più
interessanti ed ambite dal trade moderno.
18
2 Ipotesi rilevante
Il settore agroalimentare è attraversato da importanti fenomeni di concentrazione
dell’offerta, in modo che solo le imprese che presentano una disponibilità di mezzi e
di capacità adeguate possa mantenere la propria posizione competitiva sul mercato.
Il sistema della Grande Distribuzione Organizzata diventa di anno in anno il centro di
gravità di tutto il sistema agroalimentare, imponendo alle imprese produttrici le
proprie regole. All’interno di questo gioco di forze, per le imprese diventa sempre
più importante disporre di una buona capacità finanziaria, per far fronte ai tempi
sempre più lunghi che le grandi catene distributive impongono alla gestione
finanziaria. Si può in altro modo affermare che la Grande Distribuzione ha raggiunto
un potere commerciale tale da rendere sempre più difficile per le imprese realizzare
dei margini sufficienti per conservare la propria capacità di creare la liquidità per
incrementare le risorse necessarie alla gestione corrente.
Per il settore avicolo, durante l’analisi preliminare, si è constatato che tale situazione
è stata aggravata da anni veramente difficili, dove tutto il settore ha risentito di gravi
crisi per scandali alimentari, di cui quella del “Pollo alla diossina” ne è la più
importante, e per una particolare congiuntura economica che ha determinato una
fluttuazione dei prezzi tale da causare gravi perdite a tutto il settore.
Attraverso l’analisi del posizionamento di alcuni gruppi e della loro capacità di
crescita, si può constatare che la sottocapitalizzazione rappresenta un problema grave
per tutti i gruppi, anche se è possibile trovare gruppi la cui situazione finanziaria
permette di fornire un giudizio positivo.
Allo stesso tempo è possibile constatare che lo stato di salute di ogni impresa è molto
variabile se posto in rapporto alle altre.
La valutazione della capacità di crescita dei singoli gruppi fornisce segnali diversi
per ciascuna società.
In definitiva, viste tutte queste recenti evoluzioni, si ritiene che le particolari
difficoltà di questi gruppi siano l’effetto diretto della struttura finanziaria ed in
particolare della loro sottocapitalizzazione.
Di conseguenza questa diventa la nostra ipotesi rilevante.