V
Un episodio esemplare di questa presunta volontà apparente, o non volontà reale, di far
progredire, per poi di colpo arrestare il cammino del Processo di Pace, trova espressione nel
fallimento dei negoziati del luglio 2000 a Camp David, con tutto l’alone di mistero e di
disillusione che cela i fatti e le volontà reali nascoste dalle varie versioni ufficiali e dalle loro
rispettive interpretazioni. Un episodio questo che ha segnato drammaticamente il fallimento
dell’intero Processo di Pace, un iter negoziale che, secondo il suo disegno originario, più che
una dichiarazione di intenti verso una futura pace tra lo Stato di Israele e l’Autorità Palestinese,
avrebbero dovuto rappresentare la configurazione di una specie di programma-quadro di misure
di Confidence Building atte a normalizzare i rapporti tra gli attori della regione, ed in
particolare tra israeliani e palestinesi, due popoli che continuavano a combattersi da più di
cent’anni, negandosi l’un l’altro la legittimità di esistere, e che avrebbero continuato a
negoziare per oltre dieci anni senza particolare successo, fino all’epilogo ultimo di Camp David
e di Taba.
Camp David appunto, inteso come il triste epilogo del Processo di Oslo, ma non come un
fallimento negoziale totale, dal momento che le trattative in questione sono di fatto servite
come momento interlocutorio tra le parti prima, e come base negoziale poi, per riallacciare
successivamente il dialogo. A Camp David ed a Taba, tra la fine del 2000 e l’inizio del 2001,
israeliani e palestinesi sono giunti vicini come non mai ad un accordo, pur senza riuscire a
perfezionarlo. Ma le proposte e le soluzioni individuate allora hanno rappresentato poi il punto
di partenza per lo sviluppo dell’iniziativa di Ginevra, il cui accordo firmato dalle parti il 1°
dicembre 2003, ha saputo rilanciare per alcuni aspetti il dialogo inaugurato durante gli anni del
Processo di Pace, offrendo ad israeliani e palestinesi una nuova opportunità per uscire dallo
stallo in cui erano stati confinati i loro rapporti dopo la chiusura dei negoziati di Camp David e
di Taba.
Una crisi, dunque, determinata non tanto dal rifiuto delle parti di trattare, quanto forse dal
sincero tentativo di negoziare una pace definitiva; anche se probabilmente un obbiettivo più
modesto e raggiungibile, come un accordo parziale o transitorio anziché l’illusione di un
accordo definitivo, avrebbe avuto un esito più proficuo in seno alle trattative sullo status finale.
Comunque, il mito nato attorno al fallimento dei negoziati di Camp David, prima ancora di
essere un caso emblematico della complessità delle volontà in gioco nelle varie tappe negoziali
nel quadro del Processo di Pace, è un episodio affascinante, ed allo stesso tempo sconsolante, di
mistificazione storica, ossia di come, grazie al fallimento del tanto discusso vertice, si sia
riusciti a far passare in secondo piano il fallimento generale dell’intero Processo di Pace, e di
come ciascuna parte sia riuscita a vedere in Camp David quello che voleva vedere, e non quello
che in realtà era.
VI
Ed è comprendendo Camp David che si capisce quanto la storia, come la politica e le relazioni
internazionali, ed ad un livello più generale la realtà, sono in ultima analisi non una sommatoria
di fatti concreti e di verità oggettive, ma complessi ed intricati sistemi di interpretazioni degli
eventi che vengono più o meno involontariamente distorti a seconda delle angolazioni da cui
vengono filtrati.
Partendo dalla comprensione di un evento di portata storica come i negoziati intavolati a
Camp David nel luglio 2000, si cercherà di distinguere la realtà dei fatti così come sono stati
vissuti ed interpretati dalle parti coinvolte, da quello che sembra essere stata la portata effettiva
degli eventi che hanno scandito le varie tappe delle negoziazioni di pace intraprese, a partire
dall’inizio degli anni Novanta, nel quadro della Conferenza di Madrid. E ciò alla luce sia degli
eventi che precedettero l’immediato svolgimento del tanto discusso vertice, sia del clima di
tensione creatosi durante e dopo il suo fallimento, con i conseguenti risvolti e sviluppi del caso:
dallo scoppio della seconda Intifada ai negoziati di Taba, fino all’acquis negoziale incorporato
a Ginevra. Ma, anche e soprattutto alla luce delle complesse interazioni delle rispettive strategie
negoziali, tanto a livello di leadership quanto a livello di base interna, andando a considerare il
bilancio delle realizzazioni del corso negoziale sia sul piano delle mere trattative che sul piano
della situazione, reale e vissuta, sul campo dalle rispettive opinioni pubbliche, con tutte le
relative conseguenze del caso.
Dopo aver considerato, in linee generali, gli aspetti più rilevanti della teoria del negoziato
applicata al negoziato in Medio Oriente, si passerà ad una breve esposizione in chiave storica e
cronologica degli eventi, con particolare riguardo alle tappe del Processo di Pace ed ai nodi
cruciali del conflitto che hanno caratterizzato i rapporti israelo-palestinesi dall’inizio degli anni
Novanta in poi, nonché del ruolo dello Stato di Israele e dell’Autorità Palestinese nello scenario
interno, regionale ed internazionale, per poi procedere ad una attenta analisi critica del vertice
di Camp David e del suo seguito di Taba, nonché del dibattito nato intorno ai motivi ed alle
interpretazioni del loro cosiddetto fallimento.
In particolare, per quanto attiene all’analisi dal punto di vista della teoria del negoziato,
applicata alle trattative di pace in Medio Oriente, si andrà a focalizzare l’attenzione sui diversi
piani su cui ha finito con intrecciarsi il gioco diplomatico-negoziale, sia sotto il profilo politico
interno che a livello di rapporti tra gli attori direttamente interessati, andando così a ricostruire
il quadro negoziale delle trattative durante gli anni degli accordi ad interim, prima, e degli
accordi sullo status finale, poi. Parallelamente, si terrà a confronto l’evoluzione del contesto
diplomatico-negoziale con gli sviluppi sul piano reale della situazione sul campo, per
evidenziare, tra l’altro, come la continua mancanza di corrispondenza effettiva tra i due livelli,
VII
quello strettamente negoziale e quello delle realizzazioni concrete degli accordi, si sia rivelato
essere negli anni un elemento determinante al fallimento del percorso di pace.
Si cercherà quindi, per quanto riguarda l’analisi dei fatti realmente occorsi, di ricostruire,
attraverso i lavori preparatori al summit e le informazioni fuoriuscite dagli incontri tenutisi
durante le trattative, tanto il clima sviluppatosi attorno ed all’interno dei negoziati, quanto la
cronologia degli eventi che scandirono quei giorni nel Maryland, con particolare riguardo ai
dossier principali del conflitto discussi in tale sede.
Si passerà quindi, per quanto concerne l’analisi del dibattito sorto attorno ai motivi del
fallimento del negoziato, all’esame delle diverse e spesso contrastanti versioni sull’andamento
e sull’interpretazione delle trattative, riportate rispettivamente dalle delegazioni israeliana,
palestinese ed americana, oltre alle posizioni espresse in letteratura e dai mezzi di informazione
locali ed internazionali.
Infine, prima di proporre una propria tesi sulle verità di Camp David, si passerà
criticamente in rassegna le varie e diverse proposte, offerte negoziali, controproposte e rifiuti
sostenuti dalle delegazioni israeliana e palestinese, oltre naturalmente ai vari interventi di
quella americana, e ciò specificamente alla luce delle rispettive strategie negoziali e dei nodi
cruciali del conflitto: colonie di popolamento, rifugiati, sicurezza, territori e confini, risorse
idriche, Gerusalemme e Luoghi Santi.
Quindi si cercherà di dimostrare che, diversamente da quanto inizialmente sostenuto, appena
dopo la chiusura del vertice, nella versione dominante israeliana-americana, il summit di Camp
David non è fallito unicamente per l’intransigenza manifesta della controparte palestinese e del
suo leader Yasser Arafat, ma per tutta una serie di errori e valutazioni, in parte errate, in parte
affrettate, che finiscono con chiamare in causa un po’ tutti gli attori coinvolti nello svolgimento
delle trattative, dalla delegazione israeliana a quella palestinese, dai mediatori americani agli
organi di stampa, dai rispettivi leader alle loro opinioni pubbliche. Ma si vedrà anche come tale
sorta di responsabilità solidale delle parti non si limita alle sole trattative sullo status finale,
avendo questa radici più profonde, radicate tanto nella difesa dei rispettivi interessi nazionali
tanto nei modi e nelle forme con cui si era trascinato avanti il Processo di Pace negli anni
precedenti. Pertanto, si cercherà di dimostrare come siano state anche e soprattutto le rispettive
scelte negoziali, frutto anche degli insuccessi e delle disillusioni alimentate dall’altalenante
corso dei negoziati di pace precedenti, ad irrigidire le posizioni negoziali tanto israeliane
quanto palestinesi, a scapito della riuscita del dialogo.
In quest’ottica Camp David verrà proposto sotto una nuova luce: non quella di un
fallimento totale, ma piuttosto di un tentativo di successo già da subito poco probabile e poi
definitivamente impossibile, portato ugualmente avanti perché di altre alternative praticabili
VIII
non ve ne erano. Un fallimento, quindi, che rientra nella costante dei rapporti tra israeliani e
palestinesi, e che riprende più in generale l’inesorabile fallimento del Processo di Oslo che nel
2000 con Camp David diventava definitivamente ed ufficialmente lettera morta.
Ma un fallimento che, nonostante tutto, da un lato è anche servito a fare il punto sulla
situazione, mettendo in chiaro le “linee rosse” delle due controparti, andando a delineare quindi
una possibile base per ripartire poi con nuove ulteriori trattative.
Dunque, si vedrà come Camp David sembra essere stato un vertice per così dire “nel
posto sbagliato, al momento sbagliato”: le suggestioni dello stesso luogo in cui era stato
raggiunta la storica pace tra lo Stato di Israele e l’Egitto, non ebbero l’effetto sperato, e i tempi
non solo non si dimostrarono maturi per mettere la parola fine al conflitto tra israeliani e
palestinesi, ma anzi furono imprudentemente affrettati per ottenere l’obbiettivo di un risultato
pieno, voluto a tutti i costi.
Di fatto, si sottolineerà come la maggior parte dei negoziatori americani ed israeliani delle
rispettive delegazioni, a differenza dei palestinesi ed in particolare del loro leader Arafat,
credeva veramente, ancor prima di dare il via alle trattative, che vi fossero buone possibilità di
approdare ad un vero e proprio risultato. Ma è vero anche che vi sia l’impressione che ai
negoziati di Camp David, sia Arafat che Barak e Clinton sembrarono partecipare più per una
questione di immagine personale che per perorare la causa di cui si facevano portatori: il primo
perché invitato; il secondo per questioni di politica interna; il terzo per entrare nella storia come
l’uomo che era riuscito a coronare con un accordo la pace in Medio Oriente. Il tutto nella totale
insufficienza di quei presupposti indispensabili che l’avanzamento delle tappe negoziali
precedenti avrebbero dovuto realizzare per mettere le parti nelle condizioni di portare avanti e
concludere con successo l’iniziativa di pace.
Sembra quindi che sia stato un tentativo di pace volutamente forzato dall’amministrazione
Clinton, e decisamente poco sentito dalle parti in causa, probabilmente perché i tempi non
erano ancora maturi, anche se viene spontaneo chiedersi se lo saranno mai.
Un fallimento che si inquadra quindi, come pure lo scoppio ed il perdurare della
seconda Intifada scaturita dalle ceneri di Camp David, nel progressivo fallimento del Processo
di Oslo; un vertice che è servito, più che altro, come momento interlocutorio tra le parti e di
visibilità internazionale, per poter poi inquadrare e rafforzare le proprie rispettive cause,
rigirandole a proprio piacimento come in effetti hanno in seguito fatto sia israeliani che
palestinesi nell’addossarsi vicendevolmente la responsabilità del fallimento.
Ma se è vero che la verità sta sempre nel mezzo, si cercherà allora di proporre una versione per
così dire a metà tra quella sostanzialmente sostenuta congiuntamente da americani ed israeliani,
che punta il dito contro l’atteggiamento intransigente e poco collaborativo di Arafat, e quella
IX
revisionista fiancheggiata dai palestinesi, che dipinge quelle che gli israeliani consideravano “le
più generose concessioni mai avanzate” come un dictat americano a favore delle posizioni
israeliane, come un qualcosa a loro di dovuto e non di concesso.
Inoltre, le responsabilità del fallimento di Oslo, prima, e di Camp David, poi, vanno ricercate
anche al di là delle parti coinvolte: il silenzio del mondo arabo e l’assenza più o meno voluta
dei paesi europei non ha certamente agevolato la stabilizzazione della regione mediorientale;
l’azione di disinformazione operata dagli organi di stampa, schierati a favore degli uni o degli
altri, non ha certo facilitato la formazione di una visione critica del problema; l’arroccamento
delle parti coinvolte sulla difesa dei rispettivi interessi nazionali non ha di certo favorito il
crearsi di un clima disteso, favorevole al dialogo.
In conclusione si cercherà di rintracciare le eredità, acquisite nelle trattative intavolate dalle
parti tra Camp David e Taba, nell’acquis di Ginevra, per dimostrare come le basi fondamentali
su cui poi è stato rilanciato il Processo di Pace non nascano dal nulla, ma al contrario
rappresentino una lunga e complessa rielaborazione degli sforzi negoziali avanzati da israeliani
e palestinesi, dietro la mediazione americana e con l’aggiunta dell’iniziativa dei Paesi arabi e
dell’Unione europea, a partire dall’estate del 2000 in poi: un dialogo mai totalmente interrotto,
nonostante la difficoltà della situazione in Medio Oriente, lacerata dall’imperversare della
seconda Intifada.
In ultimo, sembra doveroso fare una precisazione di carattere formale: si cercherà, nel bene e
nel male, e per quanto sarà obiettivamente fattibile, di restare, il più imparzialmente possibile,
critici nella trattazione, cercando di descrivere il problema in modo tale da non far pendere, o
sembrar far pendere, il giudizio a favore di una parte o dell’altra. In altre parole, si cercherà di
guardare agli eventi, ai fatti, alle opinioni sempre e comunque con occhio critico e disilluso,
analizzando le ragioni dell’una come dell’altra parte, senza per questo precludendosi la
possibilità di delineare una propria posizione in merito. E si farà ciò riferendosi continuamente
a più fonti, dirette e non, senza prendere mai per vero nulla e senza sperare di trovare la verità
rilevata dove forse una verità sola non esiste.
1
CAPITOLO I
“Alcuni aspetti della teoria del negoziato applicata al Medio Oriente”
1)Linee generali della Teoria del Negoziato
Il concetto di negoziare deriva dal verbo latino negotiari, a sua volta legato al sostantivo
negotium il quale indica un’attività, un’occupazione, un affare, un traffico con cui una parte si
impegna a corrispondere un determinato pacchetto concordato o una particolare prestazione
offerta a fronte di una contro-offerta o contro-prestazione corrisposta dall’altra parte
interessata
1
. Tornando al significato di negoziare, nel linguaggio diplomatico il vocabolo
riprende l’accezione latina di “trattare”, ossia di intavolare un determinato complesso di
trattative, appunto, che precedono il raggiungimento di un compromesso definitivo per la
stipulazione di un accordo diplomatico, di un’intesa, di un patto, fra due o più parti coinvolte.
Nella storia delle relazioni internazionali, dalla pace di Westfalia in poi, il ruolo del
negoziato, come strumento di gestione dei rapporti tra Stati nello scacchiere internazionale, ha
avuto in via generale una funzione cruciale nel coordinare le politiche estere degli Stati
coinvolti, così da perseguire dei comportamenti internazionalmente desiderabili ed allo stesso
tempo internamente accettabili, che altrimenti non avrebbero presumibilmente avuto luogo.
Di fatto, il negoziato internazionale, inteso come strumento a metà tra la politica estera e le
relazioni internazionali, si presenta nella realtà come un processo altamente complesso ed
articolato, la cui dinamica viene determinata da una grande molteplicità di fattori ed elementi in
gioco, articolandosi su più piani ed intrecciandosi lungo combinazioni differenti a seconda
delle caratteristiche estrinseche ed intrinseche degli attori coinvolti, sia direttamente che non.
Nella teoria, lo studio del negoziato internazionale viene affrontato operando un’estrema
semplificazione della realtà, tale da poter facilitare la comprensione delle dinamiche in gioco
costruendo dei modelli tipo relativi al modus operandi standard di un generico processo
negoziale.
Tra le molteplici teorie negoziali
2
che si offrono in letteratura, sembra opportuno
soffermarsi, oltre che sulla presentazione dell’impianto negoziale base, su due approcci,
1
Citando Abhinay Muthoo, a proposito del significato del termine “negoziare”, questi scrive che “Bargaining is
any process through which the players try to reach an agreement. This process is typically time consuming, and
involves the players making offers and counter-offers to each other. A main focus of any theory of bargaining is
on the efficiency and distribution properties of the outcome of bargaining. The former property relates to the
possibility that the players fail to reach an agreement, or that they reach an agreement after some costly delay”. Si
veda a proposito Abhinay Muthoo, “A Non-Technical Introduction to Bargaining Theory: Bargaining Theory with
Applications”, Cambridge: Cambridge University Press (1999).
2
Si veda, tra gli altri, Harold Kuhn in “Classics in game theory”, collana Frontiers of economic research,
Princeton University Press (NJ 1997).
2
precisamente “La teoria del negoziato come gioco a due livelli” di Putnam
3
e “La teoria dei
giochi”
4
, che, più puntualmente di altre, sembrano cogliere la complessità degli sviluppi
negoziali che interessarono le varie tappe del Processo di Pace in Medio Oriente, dalla nascita
del Processo di Oslo fino al fallimentare epilogo del summit di Camp David nel luglio del
2000.
Prima di affrontare nei dettagli gli impianti teorici sviluppati sia da Putnam che nella
“Teoria dei giochi”, per passare poi dalla teoria alla pratica applicandoli quindi al caso della
regione mediorientale, sembra opportuno delineare le linee teoriche generali di un quadro
negoziale tipo, prendendo in esame tutti quegli elementi che concorrono vicendevolmente a
determinarne struttura e dinamiche.
Per prima cosa un negoziato internazionale ha motivo di essere qualora venga in luce una
determinata questione, o più realisticamente una serie di questioni, che vedono contrapposti due
o più parti, solitamente attori di natura statale, che affidino, più o meno volontariamente
secondo calcoli di opportunità politica, le sorti della risoluzione della questione in specie ad un
processo negoziale, in cui si affrontino offerte e contro-offerte, con l’obbiettivo ultimo di
raggiungere un compromesso, per lo meno soddisfacente, alla portata delle parti coinvolte nel
negoziato.
Questa apparente linearità del quadro negoziale non tiene però conto di tutta una serie di
fattori che tendono a scomporre ed a complicare sia concettualmente che praticamente il
problema, introducendo all’interno dell’ambiente negoziale una molteplicità di elementi di
incertezza, che intrecciandosi, sovrapponendosi e combinandosi tra di loro, abbassano il livello
di prevedibilità del sistema.
Innanzitutto bisogna considerare il peso delle conseguenze dell’interazione tra attori e
preferenze individuali dei singoli attori. Per precisione, ci si riferisce agli attori considerando
sia i rappresentanti direttamente coinvolti nel negoziato, sia i gruppi di pressione esterni, che,
soprattutto in casi di negoziati per così dire “aperti al pubblico”, giocano un ruolo importante
nell’influenzare l’interazione tra attori durante le varie fasi negoziali; ci si riferisce poi alle
preferenze individuali dei singoli attori intendendole come una variabile chiave che varia a
seconda dei livelli di aspettativa, di informazione e di conoscenza del problema che ogni
singolo negoziatore ha anche nei confronti delle controparti e della propria base politica in
patria, preferenze che possono mutare notevolmente a seconda delle questioni trattate e dei
3
Si veda Robert D.Putnam in “Diplomazia e Politica Interna: la logica dei giochi a due livelli”, Quaderni ISPI, n.6
Luglio 1988 (Milano).
4
Si veda, tra gli altri, Colin F. Camerer in “Behavioral game theory : experiments in strategic interaction” New
York Russell Sage Foundation, Princeton University Press, (NJ 2003), e Alvin E. Roth in “Game-theoretic models
of bargaining” Cambridge University Press (Cambridge 1985).
3
relativi interessi manifestati dalle parti negoziali, che a volte si presentano come omogenei, a
volte come eterogenei.
Poi, si deve tener presente il background storico e politico con cui le parti si presentano al
negoziato, come punto di riferimento a partire dal quale si possono: identificare le diverse
preferenze individuali; individuare le varie percezioni dei problemi, del comportamento degli
attori e della fiducia reciproca nel raggiungimento e mantenimento degli accordi da negoziare;
misurare i comportamenti delle parti durante il negoziato, prevedendo eventuali schemi,
tattiche e strategie messe in atto. E tutto ciò sulla base della storia delle relazioni tra le parti
interessate, precedenti al negoziato, una sorta di patrimonio di informazioni acquisite nel corso
degli anni, che servono a determinare il grado di fiducia reciproca tra gli attori prima, durante e
dopo le trattative, nonché l’approccio negoziale da seguire per il raggiungimento di un
eventuale compromesso. Esperienze passate negative tendenzialmente identificano un grado di
fiducia basso e una linea negoziale rigida, due elementi che non fanno che aumentare il livello
di incertezza generale sui possibili esiti del negoziato
5
.
In ultimo, bisogna introdurre il concetto, chiave per una teoria del negoziato, delle modalità e
forme di distribuzione del potere, un elemento tipico della teoria realista che richiama l’idea del
cosiddetto “punto di conflitto”, che mentre pone dei vincoli all’equilibrio del sistema, allo
stesso modo acconsente alla messa in essere di alcune mosse di tipo tattico indipendenti dalla
configurazione della distribuzione del potere in atto, andando così ad aggiungere al quadro
generale un ulteriore margine di incertezza
6
.
Tale quadro generale si riferisce non solo al negoziato così come comunemente inteso, ma
anche a tutte quelle pratiche negoziali di carattere non formale che non necessariamente
implicano l’apertura di trattative in sede ufficiale. Infatti, gran parte delle relazioni tra attori
statali e non si configurano come relazioni non tipicamente negoziali, ma pur sempre legate
all’idea del processo negoziale, esplicandosi in contatti diplomatici che implicano in qualche
modo una qualche forma di trattativa sia implicita che esplicita, fino all’estremo della guerra,
come continuazione attraverso uno strumento di estrema ratio della politica estera di uno stato
su un piano, per così dire, diplomatico-conflittuale che serva a migliorare la posizione
negoziale di tale Stato
7
.
5
Si veda, tra gli altri, Ian E. Morley e Geoffrey M. Stephenson in “The social psychology of bargaining” ed. G.
Allen & Unwin (London 1977).
6
Si veda, tra gli altri, Samuel B. Bacharach ed Edward J. Lawler in “Bargaining : power, tactics and outcomes”,
The Jossey-Bass social and behavioral science series, ed. Jossey-Bass (London 1981).
7
Come affermano Glenn Snyder e Paul Diesing in “Conflict among Nations”, la teoria del negoziato è centrale
per la comprensione delle relazioni internazionali in quanto i suoi elementi costitutivi corrispondono a quelli che
vengono ritenuti come elementi chiave nello spiegare i comportamenti degli attori statali a livello internazionale,
ossia, per esempio potere, interessi, conflitti, cooperazione; la centralità della teoria negoziale si deve anche al
fatto che essa sia direttamente rilevante nel tentativo di teorizzare le forme e le modalità di interazione tra attori
4
Per descrivere le dinamiche di base, secondo uno schema semplificato di teoria del
negoziato, sembra utile prendere come punto di partenza il modello “Formal Bargaining
Model”, proposto da Shibley Telhami
8
in “Power and Leadership in International
Bargaining”, che per quanto descriva il negoziato tipo su un piano prettamente astratto, ha il
merito di proporre uno schema generale valido per una analisi iniziale al primo stadio, che non
consideri da subito tutti quegli elementi di incertezza che complicano notevolmente l’approccio
alla comprensione del negoziato stesso.
Questo modello formale di negoziato a due attori prende forma per semplicità all’interno di uno
spazio bidimensionale, come si evince dalla relativa figura 1.1. L’area racchiusa all’interno
dell’ovale che interseca gli assi cartesiani nei punti P
1
e P
2
rappresenta lo “spazio negoziale”,
ossia quel luogo di punti entro cui si trovano le varie combinazioni possibili di accordo tra i due
attori X e Y: uno spostamento da O a P
1
fa aumentare l’utilità di X, e viceversa uno
spostamento da O a P
2
fa aumentare l’utilità di Y. Se il punto O rappresenta il cosiddetto
“Threat payoff”, ossia il payoff associato al non raggiungimento di un accordo per entrambe le
parti (opzione nessun accordo), allora lo spazio nel quadrante Nord-Est delimitato dall’ovale,
rappresenta lo “spazio negoziale effettivo”, dal momento che a qualsiasi punto in quella data
area viene attribuito un payoff maggiore che nel punto O: in altre parole, si presume che
l’opzione “qualsiasi accordo” risulti preferibile dell’opzione “nessun accordo” per entrambi i
giocatori. In particolare, la linea che congiunge il punto P
2
con il punto P
1
descrive il “vincolo
negoziale”, ossia quel luogo di punti dove sarà sempre possibile trovare una combinazione di
payoff maggiore o uguale rispetto ad una qualsiasi combinazione posta nell’area sottostante, sia
per X che per Y. Il “vincolo negoziale” rappresenta quindi l’insieme di accordi possibili che
allo stesso tempo massimizzano le utilità degli attori, minimizzando i costi del mancato
raggiungimento dell’accordo o del raggiungimento di un accordo poco soddisfacente. P
1
rappresenta il risultato negoziale minimo di Y, come P
2
lo è per X.
La linea spezzettata che congiunge il punto SP al punto AP indica il tipico andamento dei
movimenti di X e Y in un processo negoziale, dove SP è da considerarsi come tipico punto di
partenza per le negoziazioni e AP come tendenziale punto di arrivo del negoziato. Infine, l’area
delimitata dalla linea tratteggiata che ha il suo punto di origine in O’ introduce una possibile
situazione di mutamento dell’equilibrio del sistema, indotto dall’inserimento di un elemento di
incertezza all’interno del modello: in questo caso si tratta di un payoff diverso attribuito da Y
all’opzione “nessun accordo”, che di fatto limita il “vincolo di efficienza” a suo favore.
statali in un contesto sì anarchico, ma con elevati gradi di interdipendenza. Si veda a proposito Glenn Snyder e
Paul Diesing in “Conflict among Nations” Princeton: Princeton University Press, 1977.
8
Si veda a proposito Shibley Telhami in “Power and Leadership in International Bargaining, The path to the Camp
David Accords”, Columbia University Press 1990 (NewYork).
5
Partendo dal presupposto che il negoziato coinvolga due attori, X e Y, e che entrambi
gli attori considerino preferibile il raggiungimento di un qualche accordo, piuttosto che
l’opzione “nessun accordo”, allora anche le funzioni di utilità di ciascun attore, come i rispettivi
costi per il non raggiungimento dell’accordo (rappresentati dal punto O della Figura 1.1)
verranno stabiliti a priori e considerati come dati indipendentemente dalle dinamiche negoziali,
dal background in fiducia reciproca delle parti e dalle informazioni, aspettative e percezioni
rispettive di X e Y in rapporto alla questione da negoziare.
Figura 1.1 Formal Bargaining Model di Shibley Telhami
9
Questo modello presume anche la centralità nel gioco negoziale del concetto di efficienza,
focalizzando la dinamica del negoziato lungo la linea del “vincolo di efficienza” (tratto che
congiunge i punti P
2
e P
1
), configurandolo quindi come un semplice gioco a somma zero
10
. Se
infatti entrambi gli attori preferiscono un accordo all’opzione “nessun accordo”, una perdita
negoziale per uno rappresenta un guadagno per l’altro e molte sono le combinazioni possibili
9
Fonte: Shibley Telhami in “Power and Leadership in International Bargaining, The path to the Camp David
Accords”, Columbia University Press 1990 (NewYork), pagina 37.
10
Infatti, come nota lo stesso Shibley Telhami, se gli interessi che le parti mettono in gioco durante il negoziato
non prendono sviluppi conflittuali, ad un certo punto le volontà negoziali troveranno un loro naturale punto di
incontro, sempre e comunque lungo “il vincolo di efficienza”, e quindi non vi sarà più motivo di negoziare, in
quanto lo stesso negoziato avrà preso la forma di un gioco a somma zero che senza fare vincitori né vinti facilita il
raggiungimento di un qualche accordo possibile ed accettabile da entrambe le parti.
X
Y
SP
AP
O P
1
O’
P
2
Vincolo di Efficienza
Spazio Negoziale
6
ed altrettanti i contenuti degli accordi possibili che si trovano all’interno dello “spazio
negoziale” (area sottostante al “vicolo di efficienza” e delimitata dall’intersezione degli assi
cartesiani) entro cui si muovono gli attori
11
. Questo “spazio negoziale” contiene molteplici
combinazioni di pacchetti negoziabili, a seconda delle varie preferenze dei due attori in quanto
requisito minimo di comportamento razionale delle parti.
In ogni caso, anche se si riuscissero a determinare, in via teorica, tanto i termini di un pacchetto
negoziale tipo, accettabile da entrambe le parti, quanto i limiti oltre ai quali non si verrebbe a
realizzare alcun accordo (punto O), non si potrebbe comunque definire esattamente le
dinamiche negoziali che presumibilmente le parti sarebbero indotte a seguire, senza ulteriori
ipotesi sul comportamento negoziale di X e Y: tutto quello che si può affermare con certezza è
che l’accordo verrà comunque a trovarsi lungo la linea del “vincolo di efficienza”, dove
entrambe le parti massimizzano le loro rispettive utilità, minimizzando i costi del mancato
raggiungimento dell’accordo
12
.
Empiricamente risulta più agevole effettuare tali misurazioni, ma queste implicano ulteriori
calcoli sui possibili cambiamenti nelle preferenze dei singoli attori coinvolti, e relative
spiegazioni che complicano l’architettura del sistema qualora gli attori non seguano in ogni loro
mossa una linea di comportamento razionale. Per completezza, bisognerebbe inserire nel
modello una variabile che stia ad indicare il possibile grado di incertezza che interviene nel
determinare le preferenze reali ed il potere contrattuale relativo di ogni giocatore, ma di fatto,
essendo questo un modello bidimensionale, volutamente astratto ed indeterminato a priori,
l’inserimento dell’elemento di incertezza renderebbe poco maneggevole a fini teorici il modello
stesso
13
.
Il modello sopra descritto, proprio perché presenta una semplificazione estrema della realtà
negoziale, risulta essere poco utile al fine di esemplificare schematicamente l’andamento del
processo negoziale in Medio Oriente. A questo proposito sembra opportuno articolare
ulteriormente la struttura base del quadro negoziale presentato, introducendo tutta
quell’insieme di elementi che vanno a complicare la lineare prevedibilità generale del sistema.
11
Nella realtà del negoziato, però, gli attori si muovono in tale area non nell’ottica di avere a che fare con un gioco
a somma zero , ma piuttosto tenendo a mente la massima generale che un vantaggio per uno può essere uno
svantaggio per l’altro, una vittoria per uno può rappresentare una perdita per l’altro. Ed è qui infatti che si
innescano le varie mosse e strategie negoziali che complicano la semplice dinamica del negoziato a due presentato
sopra, problematiche che verranno affrontate più avanti nella trattazione e che qui si preferisce solo accennare.
12
Questo è ciò a cui si riferiva James Kurth parlando a proposito del concetto di “a priori underdetermination”. Si
veda James Kurth, citato in Shibley Telhami in “Power and Leadership in International Bargaining, The path to
the Camp David Accords”.
13
Infatti, Y potrebbe spostare i suoi calcoli dal punto O al punto O’ in modo tale da limitare il “vincolo negoziale”
a suo favore, massimizzando la sua utilità a scapito dell’altro attore X. Questo semplice esempio dimostra come
l’introduzione di un elemento di incertezza, anche se pur minimo come la possibilità che le preferenze di X e Y
non siano entrambe coincidenti nel punto O, relativo al non raggiungimento di un accordo, ma che anzi X e Y
abbiano preferenze diverse in merito, altera profondamente il sistema negoziale.
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Ricordando che le linee generali della Teoria del Negoziato sono applicabili non solo al
negoziato in sé, ma anche alle varie situazioni per così dire di carattere negoziale che occorrono
nella storia delle relazioni diplomatiche tra due Stati e che non sfociano necessariamente in un
processo negoziale formale, e considerando che tale impianto teorico può essere utilizzato sia
per l’analisi delle relazioni fra attori statali che non, sembra opportuno, dopo aver articolato il
quadro negoziale con i contributi teorici sopra accennati, procedere allo studio del processo di
Oslo nelle sue varie tappe fondamentali attraverso l’applicazione del modello al caso concreto,
con il supporto degli elementi selezionati dalle teorie e dai modelli considerati
14
.
Quando si parla del Processo di Pace in Medio Oriente, si fa innanzitutto riferimento ad un
quadro negoziale ideato in varie tappe incrementali per la realizzazione di quei determinati
livelli di fiducia reciproca tra le parti, tali da permettere l’apertura di un ulteriore e definitivo
negoziato finale sullo status permanente, che focalizzasse su tutte quelle questioni chiave che
da subito non erano realisticamente trattabili su di un piano negoziale formale. Si trattava in
sostanza di un processo negoziale di accordi parziali per il consolidamento di un filone di
Confidence Building tra gli attori della regione mediorientale, lo Stato di Israele ed i suoi vicini
Paesi arabi, tra cui in particolar modo i palestinesi o meglio l’Autorità Nazionale Palestinese,
un attore di natura non statale ma con un ruolo di primo piano nelle vicende negoziali dell’area.
Non bisogna tuttavia sottovalutare alcune considerazioni chiave nella comprensione
dell’impianto generale del Processo di Pace, considerazioni che qui si accennano brevemente
riservandosi di trattarle e svilupparle in seguito. Il quadro negoziale di Madrid nasce come
un’unica cornice che racchiude due distinti filoni negoziali, quello multilaterale tra gli attori
della Regione, e quello bilaterale, suddiviso a sua volta in quattro percorsi di pace tra Israele e
rispettivamente Giordania, Siria, Libano e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina
prima, Autorità Palestinese poi. Quattro linee negoziali queste, per alcuni versi sì distinte, ma
per altri inscindibili le une dalle altre, dal momento che l’idea di una pace separata con Israele
prende più la forma di un limite che di un possibile obbiettivo nel quadro della stabilizzazione
della regione mediorientale.
Inoltre, l’andamento degli sviluppi del processo negoziale ha finito con risentire fortemente, da
un lato, dall’impronta data dalla, per così dire, regia americana
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, dall’altro lato, dall’ossessione
israeliana per la propria sicurezza, essendo Israele, secondo questa logica, uno Stato ebraico
14
Si veda anche Charles Lockhart in “Bargaining in international conflicts” Columbia University Press (New York
1979), Reinhard Selten “Strategic bargaining” ed. Springer (Berlin 1991), e Douglas Gale “Strategic foundations
of general equilibrium : dynamic matching and bargaining games” Cambridge University Press (Cambridge 2000).
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Per quanto riguarda il l’influenza americana nella Regione, si consideri ad esempio la tesi avanzata da Shibley
Telhami in “Power and Leadership in International Bargaining, The Path to the Camp David Accords”, secondo
cui Israele ed Egitto firmarono la pace nel 1978 più per cementare le rispettive relazioni strategiche con gli Stati
Uniti che per raggiungere un accordo di pace reciproco.
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circondato da vicini arabi potenzialmente ostili: elementi, questi, che hanno finito anch’essi con
contribuire a condizionare le dinamiche negoziali in corso.
2) Defezione e livelli negoziale: dalla “Teoria dei giochi” alla “Teoria del negoziato come
gioco a due livelli”
La Teoria dei giochi indaga le situazioni in cui attori individuali interagiscono in modo
interdipendente, nel senso che gli uni sono consapevoli che i loro comportamenti producono
effetti sulle condizioni degli altri.
Gli strumenti matematici della Teoria dei giochi
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, se applicati alla teoria del negoziato
internazionale, aiutano a spiegare ed esaminare il comportamento degli attori delle relazioni
internazionali in situazioni dove la collusione o meglio l’accordo non sono sempre la regola, in
quanto spesso quello che conviene nel breve periodo ad un singolo attore può rivelarsi dannoso
nel lungo periodo agli interessi del complesso degli attori considerati nello scacchiere
internazionale.
Secondo questa teoria, tre sono gli elementi che caratterizzano qualsiasi generico gioco di
interazione collusiva tra due o più attori:i giocatori; le strategie a loro disposizione; i payoff
associati ad ogni possibile combinazione di strategie. Come si evince dalla figura 1.2, vi sono
due giocatori X e Y che si muovono all’interno di uno spazio negoziale delimitato, dove ogni
giocatore ha due strategie base possibili, precisamente rappresentate dalle opzioni “non
cooperare” e “cooperare”, alle quali sono associati differenti payoff che indicano il rapporto tra
costi e benefici che ogni singolo giocatore sostiene nel scegliere quella determinata opzione.
Alcuni schemi di interazione fra giocatori sono condizionati dall’esistenza di una strategia
dominante, ossia di una strategia tale da permettere a ciascun giocatore di realizzare un payoff
individuale più elevato, indipendentemente dalla strategia seguita dall’altro giocatore.
Come nel caso del dilemma del prigioniero, la strategia dominante che può risolvere il gioco
determinando una situazione di equilibrio risulta essere per entrambi i giocatori il perseguire
l’opzione del “non cooperare”, dal momento che, non essendo gli uni in grado di prevedere con
certezza le mosse degli altri, a livello di utilità individuale il non cooperare risulterà comunque
preferibile al cooperare.
16
Si veda, tra gli altri, John von Newmann e Oskar Morgensern in “Theory of Games and Economic Behavior” 3°
ed.Princeton NJ, Princeton University Press, 1953, e Steven J. Brams “Negotiation games : applying game theory
to bargaining and arbitration” nella collana Routledge advances in game theory, Routledge (London 2003) e Paolo
Martelli in “Modelli strategici e analisi politica”, edizioni Unicopli/CUESP (Milano 2004).
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Figura 1.2 Matrice dei payoff in un gioco di interazione collusiva e griglia delle relative delle
utilità
A) B)
Attore Y
Opzione Opzione
“cooperare” “non cooperare”
Opzione
“cooperare”
Attore X
Opzione
“non cooperare”
La figura A) rappresenta una tipica matrice dei payoff nel caso di un gioco noto come “Dilemma del prigioniero”,
dove ad ogni scelta di X corrisponde una scelta indipendente di Y e viceversa, in quanto si presume che entrambi
gli attori non possano prevedere la mossa dell’altro. Ad ogni payoff assegnato, corrisponde una precisa utilità
negoziale, raffigurata nella figura B), che risulta essere massima nel caso che entrambe le parti decidano di
perseguire la strada della cooperazione, minima nel caso entrambi decidano di non cooperare. Ma dal momento
che, indipendentemente dalla mossa della controparte, per ciascun attore risulta preferibile a livello di utilità
individuale optare per il “non cooperare”, la strategia dominante risulterà essere appunto quella di non cooperare,
anche se così facendo entrambi finiscono con realizzare un’utilità finale minore di quella che avrebbero potuto
realizzare cooperando entrambi.
Fonte: Matrice dei payoff nel Dilemma del Prigioniero, adattata alla teoria del negoziato internazionale tratta da J.
von Neumann and O. Morgenstern, Theory of Games and Economic Behavior, 3° edizione, Princeton University
Press.( Princeton, 1953).
Considerando invece la trasformazione di un gioco di interazione dal dilemma del prigioniero
ad un altro gioco, nello specifico un gioco di cooperazione, la soluzione del gioco stesso si
potrà al contrario avere quando entrambi i giocatori saranno indotti a preferire l’opzione
“cooperare”, strategia che oltretutto massimizza i payoff sia di X che di Y. Una soluzione di
questo tipo presuppone però che vi siano degli incentivi esterni al gioco stesso che in qualche
modo finiscano con premiare il comportamento cooperativo degli attori, evitando che le loro
scelte individuali li portino a non cooperare perché non più incentivati a defezionare, ossia a
cambiare strategia.
Nella realtà, però, può non esserci una strategia dominante definita e non è detto che entrambi i
giocatori preferiscano, anche in presenza di forti pressioni od incentivi esterni, un
compromesso parziale e poco soddisfacente ad un fallimento negoziale che lasci invariato lo
status quo in vista di una futura ripresa del dialogo dagli esiti sperati migliori.
Infatti, volendo applicare la Teoria dei giochi al negoziato politico tra Stati, si può partire dal
considerare l’opzione “cooperare” come l’opzione che porta al raggiungimento di un “qualsiasi
accordo” e la scelta di “non cooperare” come l’opzione “nessun accordo”, ossia come la scelta
C
1
(5,5) C
2
(0,6)
C
3
(6,0) C
4
(1,1)
C
2
§
§
C
1
§
C
4
C
3
§
Uy
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