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Le politiche attive sono state utilizzate massicciamente nei paesi scandinavi.
In particolare in Svezia sono state applicate politiche attive sia per quel che
riguarda la formazione, sia per quel che riguarda gli uffici di collocamento.
Un recente studio dell'OCSE ha valutato l'ammontare delle somme spese dai
singoli paesi per gli interventi "attivi" e per quelli "passivi" (vedi Jackman e al.
(1990), p.454); l'Italia si classifica al terzultimo posto nella classifica della spesa
per le politiche "attive" come percentuale del PIL e al penultimo posto nella
classifica della spesa per politiche "attive" per disoccupato come percentuale
del prodotto per persona.
Già questo confronto internazionale dovrebbe far notare la difformità tra le
modalità di intervento delle autorità italiane e quelle degli altri paesi. Lo stesso
studio, inoltre, mette in evidenza come i paesi che spendono di più in politiche
"attive" (Svezia, Finlandia, Nuova Zelandia e Germania nell'ordine) si trovano
in buona posizione nella classifica per tasso di disoccupazione.
Questa analisi empirica rappresenta, quindi, un primo motivo di validità delle
politiche attive. Sono state date anche altre giustificazioni alla maggiore
efficacia delle politiche attive.
Alcuni disoccupati smettono di cercare lavoro perchè scoraggiati dalle scarse
opportunità di lavoro: attraverso la formazione professionale o attraverso un
utilizzo attivo del collocamento si può favorire l'occupazione dei disoccupati
scoraggiati.
Recentemente è stato messo in risalto (Layard et al. (1991)) che alti sussidi di
disoccupazione (interventi "passivi") comportano un abbandono della ricerca
di lavoro dato che per l'individuo risulta più conveniente rimanere disoccupato
e ricevere il sussidio piuttosto che cercare lavoro. Le politiche attive
incentivano, direttamente o indirettamente, la ricerca di lavoro e quindi
aumentano le possibilità di trovare un lavoro, senza però concedere dei sussidi
senza condizioni.
In molti paesi vengono rilevati, oltre al numero dei disoccupati, anche il
numero dei posti di lavoro vacanti. Da queste rilevazioni si può notare che,
anche quando c'è disoccupazione, rimangono comunque alcuni posti di lavoro
vacanti; ciò è dovuto alla mancanza di perfetta informazione nel mercato del
lavoro. Il servizio di collocamento può, quindi, servire per mettere meglio in
contatto la domanda con l'offerta e per aumentare le informazioni a
disposizione dei lavoratori e delle persone in cerca di lavoro.
Abbiamo quindi mostrato una serie di argomenti con i quali si motiva,
solitamente, la maggiore efficacia delle politiche attive. Cerchiamo ora di
aggiungere un altro motivo: le politiche attive hanno maggiore capacità di
adattarsi ai cambiamenti che, inevitabilmente, avvengono nel mondo del lavoro
rispetto alle politiche passive. Queste ultime risultano più rigide e quindi
presentano maggiori difficoltà ad affrontare problemi che nascono in un
mondo in continua trasformazione. Cerchiamo ora di analizzare le
caratteristiche delle politiche attive e passive per rendere chiaro il concetto
espresso qui sopra.
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Una caratteristica delle politiche passive è che spesso gli interventi sono
caratterizzati da meccanismi automatici che operano direttamente al verificarsi
di determinate situazioni. L'assicurazione contro la disoccupazione, per
esempio, spetta a tutte quelle persone che hanno determinate caratteristiche
(vedi p.33); la Cassa Integrazione ordinaria è uno strumento abbastanza
automatico (è necessaria, però, l'autorizzazione dell'INPS) che opera quando
sussistono dei presupposti (vedi p.23); allo stesso modo, l'iscrizione nelle liste
di mobilità (e il conseguente diritto all'assegno di mobilità) è automatica
quando per il lavoratore in Cassa Integrazione non c'è prospettiva di rientrare
in azienda (vedi p.30).
Le politiche attive, viceversa, non prevedono dei meccanismi automatici, ma
delle strutture generali all'interno delle quali operano i singoli strumenti di
intervento. L'ammissione ai benefici della legge De Vito (vedi p.51), per
esempio, non è automatica (negli ultimi 7 anni è stata ammessa ai benefici in
media un progetto ogni 4,5 presentati); la legge De Vito prevede uno schema
generale di intervento, ma l'applicazione pratica dell'intervento è lasciata alla
discrezionalità di un Comitato appositamente costituito. Anche per quel che
riguarda la formazione professionale, non sono presenti meccanismi
automatici, ma, nella maggior parte dei casi, è necessario superare un esame di
ammissione per accedere ai corsi.
Le iniziative comunitarie, altro strumento attivo, (vedi p.47) vengono gestite
dalla Commissione dell'Unione con molta discrezionalità, ma sempre seguendo
gli obiettivi generali stabiliti dall'Unione per la politica sociale. Questi obiettivi
sono, quindi, la struttura di riferimento all'interno della quale vengono adottate
iniziative discrezionali da parte della Commissione.
Un'altra caratteristica delle politiche passive è che vengono applicate attraverso
strutture burocratiche e gerarchiche. Tutti gli interventi del welfare (Cassa
Integrazione, mobilità, assicurazione contro la disoccupazione) sono applicati
principalmente dall'INPS con la partecipazione del Ministro del Lavoro, degli
Uffici regionali, provinciali e circoscrizionali del lavoro, delle Agenzie Regionali
per l'Impiego, delle Commissioni regionali per l'impiego, che sono tutte
strutture organizzate burocraticamente.
Le politiche attive sono invece implementate da strutture più agili, più snelle e
più dinamiche. I corsi di formazione finanziati con il bilancio comunitario
(vedi p.46) vengono applicati con l'approvazione di leggi regionali e dopo un
procedimento che vede coinvolte sia le autorità comunitarie che le autorità
nazionali e regionali; il flusso di informazioni avviene nei due sensi (dal centro
alla periferia e dalla periferia al centro). Le decisioni finali, inoltre, spettano
alle autorità regionali anche se viene effettuato un controllo a livello centrale.
Una struttura di questo genere garantisce maggiori capacità di adattamento
degli interventi al mutamento della situazione e alle diverse realtà locali.
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Abbiamo, quindi, individuato alcune delle caratteristiche delle politiche attive e
passive. Ora si vuol fare un paragone tra politiche attive e passive da una
parte, e sistemi aperti e sistemi chiusi dall'altra.
Un sistema è un insieme di elementi coordinati tra di loro in modo da formare
un complesso organico. Nelle scienze fisiche, i sistemi si distinguono in
sistemi chiusi e sistemi aperti. I sistemi chiusi non hanno scambi di energia-
informazione con l'esterno; viceversa, i sistemi aperti scambiano energia e
informazioni con l'esterno secondo un flusso a due direzioni (dall'interno
all'esterno e viceversa): questa caratteristica viene chiamata feedback, cioè ritorno
di informazioni. Il comportamento dei sistemi aperti (dotati di feedback) è
influenzato, quindi, dalle informazioni che giungono dall'esterno. Questo
garantisce maggiore flessibilità dei sistemi aperti alle variazioni ambientali e
maggiore capacità di adattamento.
Ora possiamo considerare le politiche per il mercato del lavoro come dei
sistemi (cioè come un insieme di elementi coordinati). L'ambiente esterno in
cui operano questi sistemi è il mercato del lavoro.
Le politiche attive possono essere considerate come sistemi aperti per le ragioni
evidenziate sopra: esiste uno scambio di informazioni dall'esterno del sistema
all'interno e non solo dall'interno verso l'esterno; il sistema-politiche attive è in
grado di cambiare a seconda dei cambiamenti esterni.
L'Unione Europea, per esempio, prevede per i corsi di formazione finanziati
con il bilancio comunitario, un controllo ex ante e un controllo ex post basato
quest'ultimo su dei questionari, indirizzati ai partecipanti ai corsi, tendenti a
stabilire l'efficacia dell'intervento: questi dati vengono utilizzati negli anni
seguenti per programmare degli interventi più efficaci. Gli indirizzi
professionali verso cui indirizzare i corsi di formazione vengono determinati
tenendo conto della situazione locale del mercato del lavoro e della domanda di
lavoro che ci si attende.
Le politiche passive possono, viceversa, essere considerati dei sistemi chiusi:
niente flussi di informazioni da fuori a dentro, bassa capacità di cambiare la
propria struttura.
La struttura della Cassa Integrazione ordinaria, ad esempio, è rimasta pressoché
immutata dal dopoguerra ad oggi; la Cassa Integrazione straordinaria,
introdotta negli anni '70, è rimasta sostanzialmente invariata nella sua struttura.
Questa difficoltà a cambiare è aumentata dal fatto che questi interventi sono
disciplinati da leggi: il processo di formazione delle leggi, rende, spesso, vecchi i
cambiamenti già prima che vengano introdotti.
Si può, quindi, aggiungere un altro motivo a quelli già visti che dimostrano
l'efficacia delle politiche attive: essendo le politiche attive dei sistemi aperti,
garantiscono migliore capacità di adattamento ai cambiamenti che si verificano
all'esterno.
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Questo aspetto appare molto importante visto che secondo alcuni (vedi
Faustini e Tronti (1993)) negli anni futuri le ristrutturazioni aziendali e i
cambiamenti nella struttura economica dei vari paesi si susseguiranno ad un
ritmo sempre più veloce e con sempre più continuità
1
.
Nel primo capitolo si cercherà di delineare le principali fasi storiche che hanno
influenzato le politiche per il mercato del lavoro (par.1) e si esporranno i
problemi del mercato del lavoro italiano con alcune delle spiegazioni teoriche
attualmente più seguite (par.2).
Nel secondo capitolo si passerà ad analizzare i vari strumenti delle politiche per
il mercato del lavoro dividendoli in politiche del welfare o politiche passive
par.1), politiche dei redditi (par.2) e politiche attive per il lavoro e l'occupazione
(par.3).
Nel terzo capitolo si parlerà delle metodologie di valutazione dell'efficacia delle
politiche per il mercato del lavoro.
Il quarto capitolo, infine, riguarda la situazione umbra.
1
«L'avvento della competizione globale lascia ritenere che, nell'avvenire, i processi di
ristrutturazione industriale saranno tendenzialmente continui, sino a rappresentare la
"normalità di funzionamento" del sistema delle imprese. Questa prospettiva richiede notevoli
adeguamenti, oltre che nelle strategie aziendali, anche negli aspetti istituzionali e nei
comportamenti che regolano il mercato del lavoro, le relazioni industriali, le politiche del
lavoro.» (Faustino e Tronti 1993, p.125)
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1. LE POLITICHE PER IL MERCATO DEL LAVORO
Il funzionamento del mercato del lavoro è diverso da nazione a nazione e
questo rende diverso anche il modo con cui i singoli paesi intervengono nel
mercato del lavoro, cioè rende diverse le politiche per il mercato del lavoro
adottate in contesti diversi.
In generale possiamo distinguere, a livello mondiale, tre modelli: il modello
giapponese, quello americano e quello europeo.
Nel modello giapponese la regolazione del mercato del lavoro è affidata al
sistema delle grandi imprese: al momento dell'assunzione, il datore di lavoro si
impegna, informalmente, a non licenziare il lavoratore, anche nei periodi di
crisi. Nei periodi di recessione i lavoratori in soprannumero saranno destinati
verso corsi di formazione organizzati dalle imprese stesse così da aumentare il
capitale umano dei singoli dipendenti.
Nel modello americano la maggior parte degli aggiustamenti vengono compiuti
dal mercato. Non esistono leggi che regolano le variazioni dei salari o che
limitano il ricorso al licenziamento, e l'intervento dello Stato è poco presente.
Ciò presuppone, però, una forte mobilità delle persone sia territoriale che
settoriale.
Nel modello europeo la prima cosa che salta agli occhi è la forte presenza dello
Stato che interviene nel mercato con leggi che rendono più difficile il
licenziamento, che assicurano un salario minimo, che assicurano salari uguali a
chi svolge lavori uguali, ecc. Nel nostro paese, come negli altri paesi europei,
sono stati previsti tutta una serie di interventi per cercare di regolare il mercato
del lavoro in modo da garantire certi diritti a tutti (la Costituzione garantisce a
tutti i cittadini il diritto al lavoro, la pari dignità, una retribuzione proporzionata
alla quantità e qualità del lavoro svolto, ecc.). Ciò è stato effettuato attraverso
un rigido controllo del mercato: si pensi per esempio al doppio monopolio
vigente, fino a poco tempo fa, nel collocamento.
In Italia l'apparato statale che gestisce la politica sociale è diventato molto
complicato sia per la sua struttura sia per la presenza di molte leggi e ciò è
dovuto, fra l'altro, al fatto che ogni nuovo intervento è stato sovrapposto alla
struttura preesistente (Reyneri (1989), p.52 ha parlato di «stratificazione
geologica delle politiche del lavoro»).
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1.1 Le politiche per il mercato del lavoro: un po' di storia.
L'introduzione delle politiche del lavoro tra gli strumenti di politica economica
è abbastanza recente, risale, infatti, agli anni '70 (Ministero del Lavoro (1987),
pp.161-212). E' soltanto a partire dal 1964 che si comincia a parlare di
interventi a favore dell'occupazione al di fuori degli interventi keynesiani di
sostegno alla domanda aggregata. Fino alla metà degli anni '60 non si era
sentito il bisogno di politiche alternative a quelle keynesiane perchè, per una
serie di motivi, i meccanismi di regolazione keynesiani dell'economia avevano
funzionato.
Dopo la seconda guerra mondiale si era verificato un circolo virtuoso che
aveva portato i paesi industrializzati ad una forte espansione, che sembrava non
dovesse finire mai. Ciò aveva acceso negli operatori aspettative di crescita
che, appunto fino alla fine degli anni '60, si sono rivelate esatte.
In un contesto di questo genere, le imprese assumevano lavoratori dato che si
aspettavano un aumento delle vendite. Si arrivò, quindi, ad una situazione nel
mercato del lavoro, molto vicina al pieno impiego.
Verso la fine degli anni '60 il meccanismo delle aspettative crescenti venne
meno principalmente per due motivi. Il raggiungimento della piena
occupazione aveva portato a un aumento del conflitto distributivo tra salari e
profitti e, in assenza di un "esercito di lavoratori di riserva", l'aumento del
conflitto generava una perdita di controllo del fattore lavoro da parte degli im-
prenditori (vedi Tarantelli (1986), p.32). In seguito alla crescita
dell'integrazione internazionale e in seguito all'aumento della spesa pubblica
degli Stati Uniti collegata alla guerra del Vietnam, si erano verificati degli
squilibri nelle bilance dei pagamenti degli Stati Uniti e degli altri paesi
industrializzati. Questi squilibri vennero affrontati con politiche restrittive che
limitarono la crescita.
La situazione peggiorò ulteriormente nel periodo a cavallo tra gli anni '60 e '70
in seguito alla crisi economica e sociale del 1968 che accese forti conflitti nelle
fabbriche, alla fine del sistema di cambi fissi decretata dal presidente Nixon il
15 agosto del 1971 e ai due shock petroliferi degli anni '70.
Le politiche del lavoro nascono, quindi, per sostituire i meccanismi keynesiani
di controllo dell'economia che non avevano più effetti sull'occupazione ma
sull'inflazione (Lerner (1944) ha parlato a questo proposito di crisi della
«economia del controllo»). Un'altra causa importante che ha motivato le
politiche del lavoro è quella della riduzione del conflitto all'interno delle
imprese: verso la fine degli anni '60 aumentò il conflitto all'interno delle
fabbriche; questa situazione conflittuale fu affrontata a livello politico con
l'utilizzo delle politiche del lavoro (vedi Brunetta (1992) e (1993)).