internazionale. Nel contempo, essi manifestarono alcune perplessità, in quanto dal
restringimento del margine di fluttuazione non sarebbero state favorite le
esportazioni italiane, riconoscendo però che questo era il prezzo da pagare per una
maggiore stabilità monetaria.
Gli industriali lombardi ritennero fondamentale per la soluzione della crisi
monetaria l’esito del Vertice di Parigi del 1972, che non solo ipotizzò un accordo
tra i paesi CEE e tra essi e il resto del mondo, ma delineò anche la base degli
accordi di Washington, nei quali fu decisa la svalutazione del dollaro e la
contemporanea rivalutazione delle altre più importanti valute mondiali dall’altra.
Il “Serpente nel tunnel” interruppe nel 1972 la fluttuazione delle valute
europee. Con tale accordo le autorità monetarie europee si impegnavano a
garantire una variazione del 2.25% di una valuta rispetto all’altra con il limite di
una variazione congiunta di tutte le valute rispetto al dollaro.
Gli industriali lombardi approvarono il “Serpente” in quanto dava stabilità
al sistema dei cambi e garantiva condizioni certe per il commercio internazionale.
Tuttavia restavano alcune perplessità in merito alla sua reale efficacia nello
stabilizzare il sistema monetario europeo. Secondo gli industriali lombardi, a
causa della mancanza di una concertazione nelle politiche economiche e
finanziarie dei paesi membri, risultava infatti impossibile la creazione di un’area
monetaria europea ed era altrettanto difficile garantire una stabilità monetaria nel
MEC.
Tra il 1972 e il 1974 le valute aderenti al “Serpente Monetario” iniziarono
infatti ad uscire da tale accordo a causa delle differenti capacità produttive e
finanziarie tra i paesi aderenti al MEC e il “Serpente” si rivelò una soluzione
fallimentare. Secondo le opinioni di alcuni industriali lombardi occorreva invece
puntare su una convergenza economica dei paesi del MEC, in modo da creare un
mercato comune più omogeneo ed evitare che le diversità delle capacità
economiche tra i vari paesi potessero pregiudicare un’unione monetaria europea.
L’unico aspetto positivo del “Serpente monetario” fu quello di aver gettato le basi
per una crescente collaborazione fra i paesi europei in merito ai problemi
monetari. Connesso a tale tema fu quindi quello della creazione del Sistema
monetario Europeo. Creato sulla base del Consiglio Europeo di Brema, esso
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prevedeva tre elementi basilari: l’ECU, un sistema di tassi di cambio e di
intervento e un Fondo Europeo di Cooperazione monetaria.
Il periodico ha dedicato ampio spazio anche alla PAC, evidenziandone la
struttura, la crisi e le necessità di riforma. Gli industriali lombardi si interessarono
a questo sistema di protezione e sostegno dell’agricoltura soprattutto perché
consci che un aumento dei prezzi dei beni alimentari influiva sul potere d’acquisto
dei salari dei loro dipendenti e questo portava ad aumentare le rivendicazioni
retributive di questi ultimi.
Secondo gli industriali lombardi, l’agricoltura a livello comunitario era più
ormai un motivo di lacerazione e di dissenso che un motivo di unione: era una
vera e propria barriera nelle relazioni tra la Comunità e il mondo esterno. Essi
credevano che modifiche sostanziali avrebbero reso più aperte le agricolture
europee al mercato mondiale e, allo stesso tempo, avrebbero vivacizzato le
esportazioni di prodotti industriali. I meccanismi del prezzo soglia e del prezzo
d’intervento, strumenti principali dell’intervento comunitario in materia agricola,
avevano portato ad un reddito garantito per gli agricoltori: si era creato però un
surplus produttivo di carattere strutturale, sintomo dell’inadeguatezza e
dell’inefficacia della PAC. Gli industriali lombardi sottolinearono quindi la
necessità di un adeguamento strutturale del settore agricolo ed evidenziarono
quanto previsto dalle direttive 75/159, 72/160 e 72/161 volte a promuovere
l’ammodernamento delle aziende agricole e la formazione professionale dei
giovani agricoltori. Nel 1975 furono adottate misure a favore degli agricoltori che
svolgevano le loro attività in zone svantaggiate, verso la fine degli anni ’70 fu
invece posto un prelievo di corresponsabilità a carico degli agricoltori che
superavano una certa quota di produzione di prodotti agricoli specifici. Queste
riforme furono viste positivamente dagli industriali lombardi, in quanto
favorivano la modernizzazione del settore agricolo. Tuttavia essi sottolineavano
che la PAC aveva comunque costi troppo alti per gli stati membri e che bisognava
cambiare i suoi sistemi e gli strumenti dei quali si avvaleva per garantire una
spesa statale minore e una maggior efficienza delle imprese agricole.
Gli industriali sottolinearono come la realtà strutturale dell’agricoltura
lombarda fosse evoluta con una dinamica sorprendente, aumentando le dimensioni
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medie delle aziende (ormai parificate a quelle europee) e assumendo un posto di
rilievo tra le regioni europee più sviluppate nel settore primario.
L’agricoltura lombarda aveva raggiunto questo grado di sviluppo grazie ad
uno sfruttamento ottimale delle sue risorse foraggiere e zootecniche, ma anche e
soprattutto all’adeguamento di tale regione ai “canoni” produttivi europei.
Il settore primario lombardo cercò di adattare le dimensioni delle sue
aziende a quelle europee, con lo scopo di avere una maggior efficienza e costi
minori, dati dalle economie di scala che si sarebbero potute raggiungere con una
dimensione aziendale maggiore. Questo comportò un processo di
ridimensionamento sia del numero di addetti nel settore primario che delle
aziende. L’agricoltura lombarda si sviluppò soprattutto negli anni ’70 anche
grazie agli aiuti concessi dall’Unione europea e al sistema dei prezzi comunitari.
Questi due strumenti della PAC risollevarono le principali attività del settore
primario e garantirono agli agricoltori una resa più elevata per ettaro coltivato,
nonché un prezzo garantito maggiore di quello interno.
In merito invece al tema della concorrenza e della liberalizzazione dei
commerci, considerato punto chiave per lo sviluppo della competitività, gli
industriali sottolinearono come un mercato libero e concorrenziale presentava
molti vantaggi, tra i quali i più importanti erano l’allocazione ottimale delle
risorse, un maggior benessere per i consumatori e, per ultimo, un’efficienza del
sistema produttivo. L’aumento della concorrenza a livello europeo costringeva
non solo le imprese italiane, ma anche il sistema burocratico (in particolare il
sistema tributario e la pubblica amministrazione) ad una maggior efficienza.
Per valutare il grado di liberalizzazione dei mercati e di sviluppo della
libera concorrenza, nel corso degli anni ’70, la Commissione promosse diverse
indagini sul MEC, dalle quali emerse che all’interno del mercato comune non era
ancora stata raggiunta la libera concorrenza e vi erano molti problemi,
principalmente riconducibili agli squilibri regionali. Questi ultimi danneggiavano
l’economia globale del mercato e quindi occorreva porre in essere delle misure
adeguate per contrastare attivamente i problemi del MEC, al fine di promuovere al
suo interno la convergenza economica dei paesi membri e la crescita armoniosa
dell’economia. Per raggiungere questi obiettivi, furono attuate delle politiche che
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miravano a sostenere i redditi dei lavoratori, che avendo un reddito maggiore
avrebbero rilanciato i consumi europei e politiche di sostegno alle imprese,
mediante aiuti economici e sgravi fiscali, che sarebbero diventate più competitive
e avrebbero contribuito a incrementare le esportazioni e il PIL del MEC.
Gli industriali lombardi sottolinearono in particolare l’importanza di creare
delle normative comunitarie che servivano per regolamentare l’attività delle
multinazionali, le fusioni internazionali e, infine, gli aiuti di Stato. Ritenevano
fondamentale poter regolare tali fattispecie in quanto erano dei comportamenti che
andavano a ridurre la concorrenza sul mercato e, inoltre, andavano ad intaccare il
potere di mercato delle loro imprese se non a distruggerle.
Accogliendo tali proposte, all’interno del MEC furono stabilite alcune
norme che riguardavano in particolare le fusioni internazionali e l’attività delle
multinazionali. Per quanto riguarda le fusioni internazionali la Commissione
propose nel marzo 1973 una serie di norme che tendevano a regolamentare tale
fattispecie e che avevano efficacia internazionale. Tuttavia, gli industriali
lombardi sottolineavano il fatto che si incontravano seri problemi
nell’applicazione di tali norme in quanto da una parte le fusioni limitavano la
concorrenza, ma dall’altra le imprese europee erano piccole e si sarebbero dovute
concentrare per realizzare economie di scala nella produzione e contrastare le
imprese multinazionali estere. Essi sostenevano che per quanto riguarda l’attività
delle multinazionali, si fecero infatti solo norme che portavano ad una maggior
armonizzazione fiscale per le imprese. Il problema delle multinazionali era il loro
desiderio di continuare a trattare in “presa diretta” con i governi e l’opposizione
alla creazione di organismi internazionali che potessero controllare la loro attività.
Secondo gli industriali lombardi, la Comunità europea doveva adottare una
soluzione definitiva su questo tema, al fine di tutelare le imprese del MEC.
Il periodico l’Industria lombarda analizzò poi la disciplina europea delle
piccole imprese: nel MEC le grandi imprese avevano avuto i vantaggi maggiori,
ma, dato che in alcuni stati membri come l’Italia vi era un’alta concentrazione di
piccole e medie imprese, gli industriali chiedevano che la Commissione portasse
avanti alcune iniziative per cambiare questa situazione e permettere a queste
imprese di competere con quelle grandi. Essi si occuparono in particolare del
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progetto Lennon, nel quale si stabilivano i punti chiave per il rilancio delle piccole
e medie imprese europee: cooperazione, formazione professionale, aiuti
economici europei tramite la Bei e il Fondo Sociale. Furono favorevoli a tale
progetto, in quanto questi elementi portavano le piccole imprese ad essere inserite
in un network europeo e a competere in modo più adeguato con le grandi imprese
ed estere.
Nell’Industria lombarda, ovviamente, si analizzò in dettaglio il caso
italiano. L’Italia era uno tra i paesi europei che presentava il maggior numero di
piccole e medie imprese e, quindi, era quello più interessato a politiche europee a
sostegno di tale tipologia di imprese. Le medie e piccole industrie italiane erano
quelle che più alimentavano la partita attiva della bilancia commerciale: partendo
da tale presupposto, occorreva supportare queste imprese e porre in essere misure
adeguate per sostenerle e svilupparle.
Allargando l’analisi a tutte le imprese manifatturiere, gli industriali
discussero del rilancio dell’impresa a livello europeo. Secondo la loro opinione,
per avere un sistema di imprese competitive ed efficienti, bisognava puntare su
quattro fattori: fluidità dell’occupazione, rifiuto di un tasso di espansione debole e
rilancio della domanda, creazione di nuovi posti di lavoro, specializzazione della
produzione, superiorità tecnologica e indipendenza finanziaria delle imprese.
Altro tema analizzato fu quello della politica regionale della CEE, che
veniva divisa in particolare in politica sociale e di lotta all’inflazione. Fu dedicato
ampio spazio a questi temi in quanto per le imprese era fondamentale capire
l’utilizzo dei fondi europei e la loro ripartizione a livello nazionale. Da questo
dipendevano in fondi stanziati per i settori economici nazionali e, in alcuni casi, la
sopravvivenza di un settore industriale. Secondo l’opinione degli industriali
lombardi, la politica regionale assumeva un’importanza fondamentale nel
panorama delle politiche pubbliche dell’UE e doveva consistere essenzialmente
nell’eliminazione progressiva degli squilibri regionali esistenti nella Comunità.
Gli industriali lombardi sostenevano che il problema delle disparità regionali in
Europa si identificava soprattutto con il problema delle regioni periferiche. Una
politica regionale integrata nell’azione comunitaria, intesa a promuovere il
completamento e lo sviluppo del MEC, era di complessa attuazione in quanto
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richiedeva il raggiungimento di difficili equilibri sia fra i partners comunitari sia a
livello nazionale.
Le condizioni socio economiche dei cittadini comunitari non ebbero
invece ampia trattazione nel periodico l’Industria Lombarda: i pochi articoli a
riguardo sottolineavano la necessità di attivare un coordinamento delle politiche
economiche dei paesi membri, al fine di controllare la disoccupazione, e un
coordinamento delle politiche sociali, al fine di garantire un maggior benessere
alla popolazione europea.
Gli industriali lombardi sostenevano che la Comunità Europea doveva
concentrare la sua azione su tre politiche d’insieme: la politica della crescita
economica, la politica dei redditi e la politica della concorrenza internazionale.
Occorreva inoltre andare verso uno stretto coordinamento delle politiche
economiche e sociali europee, per superare congiuntamente le difficoltà sociali e
la disoccupazione, creando un mercato comune più omogeneo.
Per combattere gli squilibri esistenti nel MEC a livello sociale, occorreva
utilizzare gli strumenti della politica regionale al fine di combattere la
disoccupazione e ridurre le disparità tra i paesi membri del MEC.
A livello europeo gli Stati membri decisero che per avere una politica
sociale di successo e alleviare i problemi delle regioni meno sviluppate, occorreva
puntare ad avere un alto livello di occupazione, ma anche ad una politica dei
redditi e fiscale corretta, che garantisse un salario adeguato ai lavoratori, ma che
puntasse anche sulla loro formazione professionale. I provvedimenti che furono
presi consistevano nella formazione professionale dei lavoratori disoccupati, in
modo tale che essi potessero essere impiegati facilmente e in breve tempo dalle
imprese europee. Inoltre si pose in essere un sistema di retribuzioni dei settori
economici che, tramite differenze salariali, attirava la manodopera nei settori in
cui essa era più necessaria.
Altro tema analizzato fu quello dell’inflazione, divenuta particolarmente
rilevante negli anni ’70 a causa degli shocks petroliferi. Gli articoli dell’Industria
lombarda sottolineavano soprattutto il continuo aumento dei prezzi nella CEE e le
insufficienti politiche attuate dagli stati membri per contrastare l’inflazione. Gli
industriali lombardi sottolineavano la difficoltà di arrivare ad una politica anti
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inflazione europea, in quanto i paesi avevano politiche economiche e anti
inflazione diverse. Da ciò derivavano politiche anti inflazione diverse che
mettevano in crisi i piani di stabilizzazione di un altro paese. Per questo occorreva
andare verso una politica economica comune e un insieme di regole europee per la
lotta all’inflazione.
L’unica soluzione possibile secondo gli industriali lombardi era una
strategia a livello europeo di lotta contro l’aumento dei prezzi: così era auspicabile
una politica di approvvigionamento comune a livello europeo.
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CAPITOLO PRIMO
L’EUROPA E LA CRISI MONETARIA
1.1 Introduzione
Secondo gli industriali lombardi, per la CEE i problemi monetari furono, sin dalla
sua fondazione, un punto chiave.
Nel periodico “ L’Industria Lombarda” si dedicò molto spazio a questo tema, con
articoli che danno una cronologia degli avvenimenti, inserendo anche, e
soprattutto, le opinioni e i commenti degli industriali e dei politici dell’epoca.
Il tema è stato trattato così ampiamente dal periodico in quanto per gli industriali
lombardi la crisi monetaria portava ad una difficoltà negli scambi con gli altri
paesi e ad un maggior rischio nel commercio internazionale. Inoltre, caduto il
regime di cambi fissi, si era optato per cambi fluttuanti, che permettevano di
attuare delle politiche di protezionismo occulto nei mercati.
Già all’inizio del 1970 il Consiglio adottò le prime decisioni in tema di
coordinamento delle politiche economiche e i governatori delle banche centrali
presentarono un progetto di accordo sul sistema di sostegno monetario a breve
termine
1
. Con rapidità inusuale il Consiglio decise, nel marzo 1970, di dare
mandato a un gruppo di esperti ad alto livello, di elaborare un rapporto che
tenesse conto dei vari suggerimenti e propose, onde delineare le opzioni
fondamentali, la realizzazione a tappe dell’UEM. La costruzione entro il 1980
dell’UEM, annunciata dal vertice dell’ottobre 1972, implicava non solo il
superamento del trattato di Roma in materia di coordinamento delle politiche
comuni nei vari settori dell’economia. L’UEM avrebbe imposto inoltre una nuova
distribuzione dei poteri tra stati nazionali e istituzioni comunitarie. Il 9 febbraio
1971, il Consiglio approvò una risoluzione sulla realizzazione dell’UEM con cui
gli stati membri si impegnarono a pervenire all’obiettivo finale, e soprattutto
definirono i programmi limitatamente alla prima tappa. Ci si limitò ad indicare le
1
B. Olivi, R. Santariello, Storia dell’integrazione europea, Il Mulino, 2005
11
azioni da mettere in atto nei successivi tre anni, sino alla fine del 1973, tra cui la
creazione di un fondo europeo di cooperazione monetaria entro la prima tappa.
Infine si faceva riferimento alla creazione di una politica regionale. La risoluzione
del Consiglio del 22 marzo 1971 sancì l’inizio della costruzione dell’UEM.
L’obiettivo era di creare uno spazio economico pienamente integrato entro il quale
sarebbe stato istituito un sistema di cambi rigidi tra le monete comunitarie, difese
e alimentate da un fondo comune. Nel maggio 1971, dopo un periodo di intensa
speculazione monetaria internazionale, la Germania chiese e ottenne dal Consiglio
l’autorizzazione a far fluttuare il marco tedesco. La Francia non esitò a esprimere
il suo malumore, ritirandosi dai comitati che stavano elaborando le decisioni da
prendere nel quadro UEM. Nel settembre 1971 il Consiglio riuscì ad esprimere,
su impulso della commissione, una posizione comune da seguire nel gruppo dei
10 (l’organismo incaricato di coordinare la politica monetaria dei 10 paesi più
ricchi del mondo in seno al FMI). La fiducia sembrò lentamente ristabilirsi tra i 6
e se ne videro i risultati durante i negoziati di Washington di dicembre, che
precedettero la fine provvisoria della fluttuazione del dollaro e condussero alla
definizione delle nuove parità monetarie. Il Consiglio approvò nel marzo 1972
un’importante risoluzione con cui la CEE sembrò riprendere il cammino verso
l’UEM. Il documento prevedeva una riduzione interna dei margini di fluttuazione
tra le monete comunitarie, prefigurando una solidarietà monetaria sconosciuta sin
ad allora. Tuttavia all’inizio di giugno in seguito al grave indebolimento della
sterlina il governo britannico fu costretto a lasciarla fluttuare mentre il governo
italiano veniva autorizzato ad utilizzare, a sostegno della lira, metodi di intervento
diversi da quelli presi in comune. Un clima di particolare incertezza sulla capacità
della CEE a rispettare gli impegni assunti accompagnò l’ultima fase della
preparazione al vertice di Parigi. L’unica iniziativa per mantenere un sufficiente
livello di coordinamento monetario era quella di dotarlo di risorse monetarie
comuni per sostenere le monete più deboli. La commissione cercò di intraprendere
questa strada all’inizio del 1973 mentre si scatenava la speculazione sulle monete
forti e il dollaro subiva i colpi più duri dal 1971.
L’Italia, il paese più debole del serpente, fiaccata da una lunga crisi economica,
decise d’istituire un nuovo sistema di duplice mercato dei cambi e di abbandonare
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