— — 2
eccessivamente slegata dalla veridicità degli argomenti trattati ed
eccessivamente legata al momento immaginativo-creativo:
“Vi sono profonde implicazioni epistemologiche nel considerare letteratura
e antropologia non come due universi paralleli e incommensurabili, che
entrerebbero in contatto solo attraverso prestiti esteriori e casuali
sovrapposizioni, ma come forme di un unico discorso sull’uomo”
2
.
Gli antropologi, consapevoli che le accuse di eccessiva letterarietà,
segno d’una pretesa di furbizia per qualcuno
3
, potevano essere fatali alla
rispettabilità scientifico-naturalistica a cui l’antropologia aspirava, hanno
sempre più cercato di evitare eccessivi contatti con la letteratura o,
perlomeno, hanno provato a nasconderli o minimizzarli.
Antropologi come Raymond Firth, nelle cui opere tutti i dettagli sono
disposti in buon ordine con un'esuberanza dickensiana e una fatalità
conradiana
4
, sono riusciti ad introdursi con naturalezza nei propri testi e
rendere con ciò credibile e veritiera la loro esperienza nell’altrove proprio
grazie anche ad una tecnica fortemente letteraria, anche se,
2
ibid. p. 59.
3
cfr. Clifford Geertz, Opere e Vite: l’antropologo come autore, Bologna: il Mulino, 1990, p. 10.
4
ibid. p. 20.
— — 3
“ciò che un vero e proprio etnografo dovrebbe opportunamente fare è
andare sul posto, ritornare con le informazioni sul modo in cui le persone
vivono là, e rendere quelle informazioni accessibili alla comunità scientifica
in una forma fruibile, senza girovagare per biblioteche meditando su
questioni letterarie”
5
.
Seppure gli antropologi sono stati nella maggioranza dei casi assidui
consumatori di romanzi, vi è un forte squilibrio tra i lavori prodotti dal
fronte letterario e quelli prodotti da quello antropologico sul rapporto fra le
due discipline. Se gli scrittori che hanno tratto ispirazione da J. G. Frazer e
dalla struttura del suo The Golden Bough non hanno problemi ad
affermarlo e semmai ad analizzarne le motivazioni, un antropologo come
Malinowski affida alla segretezza del suo Diary il richiamo fortissimo che,
durante la sua permanenza alle isole Trobriand, sentiva verso i romanzi che
aveva portato con sé, pillole di identità necessarie, ma
contemporaneamente deleteri per lo svolgimento del proprio lavoro
scientifico.
5
ibid. p. 9.
— — 4
Negli ultimi anni la situazione sta cambiando: con la fine del
colonialismo il lavoro dell’antropologo si è fortemente ridimensionato, egli
sta riscontrando i limiti epistemologici del fieldwork, verifica una mutata
condizione culturale dell’oggetto di studio, capace oggi di confrontarsi con
la propria realtà e di produrre testi degni di valore; inoltre grazie al turismo
intercontinentale e al sempre maggiore spostamento di masse umane da un
continente ad un altro, le distanze divengono sempre più ridotte e rese
valicabili.
L’antropologo oggi non è più certo di avere il diritto di spiegare un altro
essere umano, di essere l’unico portavoce di un’altra cultura, di
appropriarsene, non riesce più ad avere la sicurezza, o forse ingenuità, che
Malinowski provò la prima volta che vide i trobriandesi e disse a se stesso:
“Sensazione di possesso: sarò io a descriverli... [io] a crearli”
6
.
L’etnografia, “intendendo per etnografia quella dimensione
dell’antropologia che implica la descrizione di pratiche culturali”
7
, sente
oggi una sorta di disagio autoriale, l’inadeguatezza delle parole rispetto
6
Bronislaw Malinowski, A Diary in the Strict Sense of the Term, New York, 1967, p. 150 citato in
Clifford Geertz, Opere e Vite: l’antropologo come autore, Bologna: il Mulino, 1990, p. 143.
7
Pietro Clemente, “Oltre Geertz: scrittura e documentazione nell’esperienza demologica”, L’Uomo, IV
n.s., n.1, (1991) p. 57.
— — 5
all’esperienza
8
, la necessità di trovare nuove modalità e nuove motivazioni
alla ricerca sul campo che si adattino al cambiamento dei tempi. Seguendo
il pensiero geertziano
9
a tal proposito si può dire che l’etnografia è
sostanzialmente un lavoro dell’immagine e “la responsabilità che le
compete, o il credito di cui può godere, non può essere affissa a
nessun’altra porta se non a quella dei romanzieri che hanno dato
corrispondenza ad un sogno”
10
e non per questo significa che non si occupi
più di cose reali.
È necessario, oggi, ricercare spunti innovativi nel confronto di modalità
ed intenti con discipline affini, ricavare, per esempio, dall’opera letteraria
materiale d’indagine e dalle sue strutture narrative nuova linfa creativa.
Chiaramente l’uso della letteratura come fonte e come risorsa per
discorsi antropologici può produrre risultati di differente valore e
profondità: lo studio di Poyatos, Literary Anthropology.
8
Clifford Geertz, Opere e Vite: l’antropologo come autore, Bologna: il Mulino, 1990, p. 147.
9
Clifford Geertz (1926) è il virtuale “caposcuola” dell’antropologia interpretativa, allievo ad Harvard di
Clyde Kluckhohn e di Talcott Parsons, ha condotto ricerche sul campo in Indonesia e in Marocco.
10
Ibid. p. 149.
— — 6
A new Intedisciplinary Approach to People, Signs and Literature, per
esempio, organizza tutti i momenti contenuti in un testo letterario
all’interno di un data-base che verrà in seguito utilizzato per estrapolare dal
testo complessivo l’effettiva realtà del periodo in cui si svolge la trama.
Tuttavia usato in tal modo, il metodo di Poyatos svilisce ed annulla
completamente il momento creativo dell’autore, per prediligere una
semplice catalogazione archivistica. Anche un approccio levistraussiano di
rilevazione delle strutture categoriali che stanno alla base del background
culturale in cui si svolge la storia o almeno del pensiero umano tout court,
rischia di non tenere assolutamente conto del testo letterario.
Tralasciando i lavori che si basano strettamente sulle teorie e sugli
schemi di grandi antropologi, è necessario evidenziare anche che molti
studiosi di antropologia si sono dedicati ad una rilettura di testi letterari
rifacendosi a categorie di significato tipiche dell’antropologia, ma
soprattutto non pensando al testo analizzato come unica e statica
testimonianza, specchio fedele della società del tempo, bensì tenendo nel
giusto conto il momento creativo totalmente personale dell’autore e del
valore dell’opera che può essere ritrovato anche e spesso soprattutto
proprio nel momento estetico più che contenutistico. Insomma l’autore del
— — 7
romanzo viene liberato da quel tipo di sguardo che un tempo era destinato
solo ai naturali indigeni e ritorna ad essere valutato come interprete a sua
volta delle situazioni che narra.
L’antropologia quindi, dovendo ricoprire ora il ruolo di interprete critica,
torna a confrontarsi con il mondo letterario: non più in condizione di
allontanarlo, deve assolutamente appropriarsi delle sue armi critiche, della
sua dimensione stilistica e retorica. Torna alla ribalta la problematica del
momento della scrittura, dell’autorialità, che per molto tempo era stata
liquidata e minimizzata, ma è oramai noto che più le opere etnografiche si
presentano come mimetiche più le tecniche retoriche usate dagli autori sono
profonde ed essi stessi possono non rendersi conto di quanto ne stiano
facendo uso:
“La costruzione di fictions in senso lato letterarie è la soluzione pratica
tramite cui l’etnografo trasforma in sapere oggettivo una complessa
esperienza soggettiva, e supera il gap (insuperabile, in termini puramente
logici) tra il punto di vista del nativo e il proprio”
11
.
11
Fabio Dei, Fatti, finzioni, testi: sul rapporto tra antropologia e letteratura, p. 73.
— — 8
L’elaborazione di questo concetto è iniziata in antropologia ad opera
dello studioso americano Clifford Geertz che, nel suo Works and Lives,
analizza proprio l’antropologia come fosse un modo di scrivere, di fissare
le cose su un foglio
12
e contemporaneamente affronta il timore fortissimo di
alcuni rispetto alla convinzione che opere antropologiche con una valenza
letteraria così forte non potrebbero assicurare l’attendibilità necessaria a
questo tipo di opere.
Geertz ha notato che non è tanto la mole di informazioni contenuta
nell’opera a rendere importante e imperituro un autore quanto la sua
capacità a convincere di essere realmente stato là, di aver realmente vissuto
in prima persona ciò di cui narra, e quindi il livello di bravura stilistica
raggiunto.
Uno dei fattori che rendono un autore capace di affascinare e convincere
il proprio pubblico, infatti, risiede proprio nel livello della scrittura
etnografica con tutte le sue peculiarità: il fatto di risultare composta di
asserzioni non soggette a correzione; la sua natura estremamente
localizzata, che prende in considerazione un determinato etnografo in un
12
Clifford Geertz, Opere e Vite: l’antropologo come autore, Bologna: il Mulino, 1990, p. 9.
— — 9
determinato tempo e luogo e con determinati informatori; l’impossibilità
del lettore comune di recuperare quel tipo di esperienze.
L’idea della cultura come testo sta alla base di tutta la corrente di
pensiero interpretativa; leggere ed interpretare questo testo poi, spetta
proprio all’antropologo. Secondo Geertz la cultura è costituita da un
insieme di comportamenti umani che sono considerati a loro volta come
azioni simboliche. Spetta all’antropologo non fermarsi alla superficie di
questi avvenimenti, ma, come seguendo i cerchi concentrici di ragnatele di
significati, arrivare fino ai giri più interni e metterli in relazione fra loro e
con il contesto fisico in cui si evolvono. È solo nel momento della de-
stratificazione che l’antropologo interpreta le strutture significative e fa in
tal modo antropologia. Tuttavia è difficile schematizzare in leggi fisse il
metodo da usare perché è necessario che nell’interpretazione rientri un
coinvolgimento interiore,
“Come la critica della prosa e della poesia si sviluppa nel modo migliore
quando si produce un autentico coinvolgimento immaginativo, e non
quando usiamo nozioni acquisite su ciò che prosa e poesia dovrebbero
essere, la critica della scrittura antropologica (che in senso stretto non è né
l’una né l’altra) dovrebbe nascere da un coinvolgimento di analoga misura e
— — 10
non da preconcetti su ciò a cui deve assomigliare per elevarsi al rango di
scienza”
13
.
Necessitando del coinvolgimento personale, quindi, l’autore di
antropologia è ossessionato dall’idea che i suoi giudizi soggettivi possano
in qualche modo alterare la veridicità dei fatti; ed ha sempre minimizzato il
problema della firma, dell’autorialità, ingigantendo, invece, quello delle
difficoltà incontrate durante il lavoro sul campo. La frase di Geertz
“Introdurre se stessi nel testo può essere per gli etnografi tanto difficile
quanto introdurre se stessi nella cultura di cui si occupano”
14
avrebbe
sicuramente il pieno consenso dei cosiddetti fondatori di discorsività
15
che,
con monografie iper-autoriali o iper-mimetiche, cercando di tradurre delle
verità da una realtà sociale ad un’altra si sono sempre scontrati con
difficoltà di carattere stilistico-narrativo.
13
Clifford Geertz, Opere e Vite: l’antropologo come autore, Bologna: il Mulino, 1990, p. 14.
14
Ibid. p. 24.
15
Geertz si riallaccia alla definizione e differenza tra autore e scrittore che danno R. Barthes e M.
Foucault. e continua dicendo “certamente sono (C. Lévi-Strauss, E. E. Evans-Pritchard, B. Malinowski,
R. Benedict) “autori” nel senso “intransitivo” di fondatori di discorsività: studiosi che hanno lasciato nei
loro testi un’impronta decisa e nello stesso tempo hanno costruito dei teatri di linguaggio nei quali molti
altri . . . continueranno ad operare” citato da C. Geertz, Opere e Vite, Bologna: il Mulino, p. 27.
— — 11
Geertz conclude il primo capitolo del suo Opere e Vite dicendo che
L’essere là autorialmente, sulla pagina, per essere chiari, è un artificio
difficile come quello dell’essere là fisicamente; e il fatto di rivolgersi
maggiormente verso il momento della scrittura libererà gli antropologi da
una sorta di schiavitù e insegnerà loro a leggere con occhio più percettivo.