4
peculiare; si tratta però, al contempo, dell’elemento che ne permette la
continua declinazione e crescita, in accordo con i progressi della
conoscenza umana.
La progettazione di sistemi artificiali capaci di prestazioni
paragonabili a quelle umane (e considerate “attività intelligenti”),
richiede la convergenza di nozioni e acquisizioni di informatica,
psicologia, logica, linguistica e filosofia. È possibile circoscrivere,
sempre nel tentativo di operare una chiarificazione concettuale
dell’IA, un campo di studi unitario sebbene complesso di tale
disciplina: ovvero, quello delle scienze cognitive. Facendo, ancora,
riferimento ad un dizionario di filosofia, si possono indicare due punti
fondanti della scienza cognitiva, che risulteranno, quindi, basilari
anche per l’IA:
“1) l’idea che lo studio della mente implichi la costruzione di modelli
dell’architettura cognitiva interna dei soggetti; in questo ambito si colloca la
nozione chiave di rappresentazione, come meccanismo essenziale di
mediazione tra input percettivi e output comportamentali; […] 2) l’adesione
alla concezione computazionale della mente, secondo la quale i processi di
pensiero vanno intesi come manipolazioni formali di simboli
(rappresentazioni)”.
2
Ad essere oggetto di interesse, nella presente disamina, sono
l’apporto e il ruolo svolti dalla filosofia in merito alle ricerche sull’IA;
pur nella consapevolezza che la disciplina in questione - proprio per la
sua origine strutturalmente complessa e “pluritematica” - non può
essere dominio esclusivo di un unico ambito, è nondimeno innegabile
che alcuni assunti-base della stessa sono prettamente filosofici: l’IA,
continuamente volta a definire e ri-definire il concetto di intelligenza
(e numerosi altri ad essa connessi, dalla nozione di rappresentazione
alla natura della mente umana), non può fare a meno di imbattersi
nella filosofia.
Anzi, ad uno sguardo complessivo, ci si può anche azzardare a
sostenere che l’IA rappresenti una sorta di sfida per la filosofia:
2
Ibidem.
5
l’ipotesi che sia possibile progettare sistemi artificiali capaci di
prestazioni paragonabili a quelle umane (si pensi, tipicamente, alla
risoluzione di problemi o alla comprensione del linguaggio naturale),
sembra contraddire una tipica assunzione del senso comune. Se
l’intelligenza è considerata quale un processo mentale tipicamente
umano (o comunque animale) esplicitata nel ragionamento logico,
nella capacità di perseguire uno scopo sulla base di credenze e
desideri e sapendo scegliere i mezzi appropriati, nell’abilità di
esprimere valutazioni e giudizi nonché nella loro riformulazione e
correzione, come è possibile individuare tali elementi in un apparato
non-biologico? Se il raziocinio degli esseri umani è intrinsecamente
caratterizzato da proprietà quali plasticità, immaginazione, creatività -
qualità che sembra contraddittorio attribuire a dispositivi “artificiali” -
, in quali modi sarebbe attuabile una simulazione di tali processi
cognitivi?
Si tratta di questioni sicuramente aperte e problematiche, che
rendono il dibattito in IA soggetto a numerose critiche e frequenti
discussioni; nondimeno, per poter proseguire con la trattazione del
tema considerato e per avere una panoramica esauriente della
disciplina presa in esame, è necessario considerare un’idea di base.
Sulla scorta di una accezione ampia del termine intelligenza,
intesa come
“[l’intelligenza è un] processo mentale che consente all’uomo o all’animale
dotato di struttura cerebrale evoluta la soluzione di problemi nuovi, che
implicano una ristrutturazione del rapporto adattivo con l’ambiente”,
3
risulta evidente che essa implica la presenza della
simbolizzazione. Quest’ultima, che chiaramente rimanda in modo
esplicito agli assunti fondanti della IA di cui si è parlato in
precedenza, prevede che gli uomini e gli animali siano in grado di
esprimere condotte strutturate finalisticamente quanto esplicitabili per
mezzo di caratteri formali. Obiettivo primario dell’IA, in altre parole,
3
Enciclopedia “Le garzatine”, Garzanti Libri s.p.a., Milano, 2006, vol. 14, p. 538.
6
non è la creazione fantascientifica di una “mente sintetica”, da
intendersi quale doppione o sostituto del nostro cervello, bensì
l’invenzione di dispositivi intelligenti che si qualifichino come
strumenti efficaci ed utili.
È doveroso precisare, fin da subito, che la stessa IA ha
conosciuto varie declinazioni, nel corso della sua pur breve storia: ad
un iniziale approccio di tipo simbolista e funzionalista (quello che,
nelle prossime pagine, sarà denominato nei termini di Haugeland di
GOFAI, ovvero “good old-fashioned Artificial Intelligence”), è
succeduta un’impostazione connessionista, che si pone in aperta
alternativa al paradigma computazionale dei formal symbol sistems
propri della IA classica.
L’IA tradizionale, in altre parole, sostiene che le azioni
intelligenti tipicamente umane altro non sono che manipolazione
sintattica di simboli (sulla base della acquisizioni della logica formale
di cui si tratterà in seguito), indipendentemente dal substrato fisico
dell’ente considerato; in tal caso, si parla di una vera e propria
simulazione dell’intelligenza: l’obiettivo è quello di costruire delle
macchine esplicitamente finalizzate a riprodurre i poteri cognitivi
dell’uomo. Fondante, in relazione a tale sistema, è l’analogia mente-
computer, da cui deriva l’immagine della mente come di un
programma che può applicarsi a materiali fisici diversi (biologico-
neuronali nel caso del cervello, non-biologici in riferimento ai
calcolatori). L’ipotesi delle “macchine pensanti”, stabilendo un
collegamento tra i fenomeni mentali, flessibili e “liberi”, e il sistema
meccanico-formale, rigido e immutabile, genera oggettive perplessità:
“L’idea che dei frammenti indiscutibilmente inanimati di silicio e di rame
possano essere paragonati a delle persone […] sembra aver seminato il
panico tra i ranghi dei filosofi. È singolare che diversi secoli di indagine
scientifica sul cervello umano non siano riusciti a catturare l’interesse dei
filosofi (escludendo, naturalmente, poche eccezioni), mentre pochi decenni di
7
ricerca sulla possibilità di costruire macchine pensanti abbia provocato un
vero e proprio uragano filosofico”.
4
Nondimeno, una volta abbandonata l’illusione (forse
ingenuamente autentica dei primi fautori della IA) di aver trovato
negli elaboratori elettronici la “chiave della mente”, è possibile
individuare un nuovo indirizzo rispetto all’approccio simbolista.
Secondo l’ottica connessionista, sviluppatasi in modo
preminente a partire dagli anni ottanta del secolo scorso in chiaro
contrasto con l’impostazione formalista della GOFAI, i processi
cognitivi dell’uomo possono essere simulati efficacemente – o meglio,
emulati - solo da una macchina la cui struttura e il cui funzionamento
siano simili a quelli del cervello. In tal senso, emulare l’intelligenza
significa costruire dispositivi che siano in grado di svolgere
determinati e specifici compiti in modo efficace.
Risulta, dunque, evidente, dopo questa se pur breve e sintetica
premessa circa l’IA, il carattere mai definitivo e assoluto di tale
ambito tematico; d’altra parte, occorre ribadire che la natura
prettamente interdisciplinare dell’IA finisce col caratterizzare questo
settore come un’area di ricerca, più che come branchia strettamente
filosofica piuttosto che scientifica o informatica. All’interno della
comunità di IA convivono e interagiscono progetti diversi; aspetti
simulativi ed emulativi possono anche coesistere nel medesimo
sistema, e questo fa sì, come affermato da uno dei più autorevoli
studiosi italiani di IA, che non si capisca mai abbastanza “se si
vogliono soltanto costruire macchine utili oppure si vuole riprodurre
l’intelligenza umana”.
5
Ciò non toglie l’utilità e l’interesse di una panoramica
riguardante l’IA, a partire dalle sue fasi iniziali e dai presupposti
4
C. Blakemore, Per una teoria meccanicistica della mente e della percezione, in
AA.VV., Mente umana e mente artificiale, Feltrinelli, Milano 1989, p. 135., in N.
Abbagnano, Dizionario di Filosofia, UTET, 1998, [voce “intelligenza artificiale”],p.
597.
5
D. Parisi, Intervista sulle reti neurali. Cervello e macchine intelligenti, Il Mulino,
Bologna, 1989, pp. 241-242.
8
teorici che l’hanno resa possibile, fino alle ultime evoluzioni e alle più
recenti acquisizioni teoriche.
Nei prossimi paragrafi, si prenderanno in esame gli assunti
fondanti della IA classica (o GOFAI): in primis, la formulazione -
operata dal matematico inglese Gorge Boole - di leggi logiche atte a
tradurre i processi del pensiero umano e il progetto formalista
hilbertiano. A partire da tali presupposti, si è potuto sviluppare
l’approccio simbolico all’analisi dei processi intellettivi umani, di cui
le macchine di Turing (come si vedrà) costituiscono la prima
esplicitazione completa. Altrettanto importante e influente, in questo
filone, è l’ipotesi del sistema fisico di simboli di A. Newell e H. A.
Simon; un’alternativa a tale ottica è, invece, individuabile nelle reti di
frames proposte da M. Minsky, in cui la rappresentazione della
conoscenza è connessa anche ad un contesto di riferimento.
Le pretese di intelligenza dei sistemi artificiali sono state, al
contrario, radicalmente criticate da H. Dreyfus, sulla base della
presunta irriducibile soggettività dell’azione intellettiva umana, e da J.
Searle, per il carattere non intenzionale, e quindi privo della necessaria
semantica, dei simboli elaborati da un sistema artificiale.
Analisi di altro genere, certamente critiche nei confronti
dell’IA classica ma al contempo individuabili come una nuova
prospettiva per l’IA medesima, sono poi avanzate dai sostenitori del
connessionismo.
Il filone rosso che lega tali considerazioni è sempre basato
sulla necessaria interazione di vari ambiti e sull’apporto fornito dalle
acquisizioni più recenti in campo neuro-scientifico, informatico,
psicologico, linguistico e logico. È chiaro, infatti, per dirlo con le
parole di Dreyfus, che, se da un lato è evidente che i problemi della IA
sono “di natura troppo scientifica per lasciarli ai soli filosofi”,
dall’altro è altrettanto ovvio che sono “di natura troppo filosofica per
lasciarli ai soli scienziati”.
6
6
H. L. Dreyfus, What Computers Can’t Do, trd. Ital., Armando, Roma, 1988, p. 33,
in N. Abbagnano, Dizionario di Filosofia, UTET, 1998, voce “Intelligenza
artificiale”, a cura di G. Fornero, p. 597.
9
Capitolo 1.
GOFAI: good old-fashioned IA
1.1. Fondamenti teorici dell’IA classica
Un problema centrale dell’intera questione dell’IA è stato, ed è
tuttora, quello della rappresentazione della conoscenza. L’ipotesi che
i processi mentali e intellettivi umani possano essere riprodotti su un
supporto informatico è, infatti, strettamente connessa
all’interpretazione che viene data del pensiero umano in sé: esso è
rappresentabile in strutture per così dire “astratte”, atte ad essere
implementate in un qualunque apparato in grado di gestirle? È
possibile individuare leggi a cui ricondurre le riflessione razionali
degli esseri umani, quelle che impropriamente si potrebbero definire
“rappresentazioni mentali”?
Il tentativo di formulare regole volte a ritrarre le diverse
componenti del pensiero, in modo rigoroso e senza lasciare spazio
all’ambiguità propria del linguaggio naturale, è alla base degli studi
condotti in logica già a partire dalla metà del XIX secolo. Dalle analisi
logico-matematiche di studiosi come Boole e Hilbert, ad esempio,
emergono dei presupposti teorici fondamentali, in merito
all’interpretazione delle rappresentazioni mentali come strutture di
dati simbolici. L’importanza di questo tentativo per la GOFAI appare
in tutta la sua evidenza, se si pensa al fatto che i calcolatori elettronici
non sono altro che la realizzazione concreta di sistemi formali.
È bene precisare, fin da subito, che la questione relativa alla
rappresentazione della conoscenza è soggetta a diverse declinazioni,
oltre a quella simbolico-computazionale della IA classica; il
connessionismo, infatti, come si avrà modo di vedere meglio in
seguito, intende le rappresentazioni mentali come livelli di
attivazione/inibizione di insiemi di unità e come capacità di
connessione tra tali processi.
In merito al paradigma formalista dell’IA classica, oggetto del
presente capitolo, è doveroso citare il matematico irlandese George
Boole, il quale propose di utilizzare un insieme di simboli matematici
10
per “parafrasare” le varie parti costitutive del pensiero umano; le
espressioni derivate da tale procedura, combinate attraverso
l’applicazione di operatori quali somma, sottrazione o moltiplicazione,
portavano alla definizione di un linguaggio rigido, con cui operare
deduzioni e inferenze logiche in modo non ambiguo. Tale proposito di
rigorizzazione dei processi cognitivi apre il campo ad un’importante
possibilità: quella di dare, delle rappresentazioni mentali, una
trattazione formale, ovvero meccanica ed informatica.
Anche il progetto di un altro matematico, il tedesco David
Hilbert, si inserisce in tale dinamica: la direttiva formalista che prese
avvio dai suoi studi, ambiva alla riduzione dell’aritmetica ad un
complesso di regole astratte, che stabilisse le possibili relazioni
formali tra elementi simbolici.
L’assunto di base di queste teorie, che ne rende attuabile
l’applicazione ben al di là dell’ambito meramente matematico, è
legato all’acquisizione della nozione di procedura meccanica per la
soluzione di un problema. In altri termini, stiamo parlando del
procedimento noto come algoritmo: si tratta di una manipolazione di
simboli (cifre, lettere dell’alfabeto o altro) che, applicata ad un certo
input (quello che in algebra è l’”argomento” dell’algoritmo), elabora
un risultato (ovvero un output), in un tempo finito e in un numero
finito di passi. Gli algoritmi sono costituiti, quindi, da un processo
scomponibile in un insieme finito di istruzioni e uniforme rispetto ai
possibili argomenti; la soluzione deve essere elaborata da un agente
che esegua le istruzioni in modo meccanico, così da giungere al
termine della computazione in un intervello temporale limitato e con
un numero finito di mosse.
Tale caratterizzazione è di tipo intuitivo, ovvero non può
essere considerata una definizione in senso proprio; nondimeno, da
essa si desume un concetto basilare, che si rivelerà di grande
importanza in relazione alle prime indagini sulla IA: ogni programma
che sia in grado di svolgere un lavoro secondo tale schema
algoritmico e in un dominio predefinito, sarà da considerarsi come
dotato di conoscenze e competenze specifiche.