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9
INTRODUZIONE
A differenza di altre arti marziali giapponesi come jūdō (ॊಓ), karate (ۭख) e
kendō ( ಓ ), che focalizzano l’attenzione sugli aspetti agonistici e sul
combattimento, l’aikidō (߹ؾಓ ) si presenta come un’arte marziale che
paradossalmente rifiuta l’idea di scontro: nasce e si sviluppa accompagnato da un
ricco apparato di contenuti spirituali e dottrinali associati a una precisa visione del
mondo che lo rendono in parte assimilabile a una religione.
Il nucleo centrale dei suoi insegnamenti tecnici consiste di una serie di movimenti
di attacco e difesa derivate dagli antichi modelli del budō (ಓ), ma questi, più che
a sopraffare un avversario tendono a stabilire un rapporto di equilibrio armonico tra
l’individuo e il mondo nel suo insieme, attraverso la dinamica di energia che si
sviluppa nell’atto del confronto fisico, e al complessivo miglioramento di se stessi e
della propria consapevolezza.
Tali caratteristiche derivano direttamente dall’esperienza elaborata dal fondatore
dell’aikidō, Ueshiba Morihei (২ࣳฏ, 1883-1969). Egli, nel corso degli anni
Venti del secolo scorso, gli anni di gestazione dell’aikidō, opera in stretto contatto
con Deguchi Onisaburō (ग़ޱԦਔࡾ , 1873-1948), co-fondatore e attivo
promotore di una nuova religione detta Ōmotokyō (େຊڭ), fondata dalla figura
carismatica di Deguchi Nao (ग़ޱͳ͓
1837-1918), povera e analfabeta, portatrice
di una rivelazione divina. I principi ispiratori dell’Ōmotokyō, cioè la ricerca di una
armonia universale che permetta all’uomo di vivere in pace e fratellanza con se
stesso e tutti i suoi simili, si riversano nella visione di Ueshiba diventando il
fondamento spirituale di questa disciplina. Anche alla base dell’aikidō si colloca una
10
rivelazione divina che Ueshiba esperimenta nel 1925 e in seguito a questo episodio la
sua figura acquista crescente carisma agli occhi dei seguaci tanto che egli viene
deificato dopo la morte.
Ueshiba è un attivo seguace della nuova religione e annuncia la propria dottrina
come frutto di una rivelazione divina, proprio con le stesse modalità che
caratterizzano i leader carismatici alla testa delle Nuove Religioni.
In generale, l’evoluzione delle arti marziali in Giappone è caratterizzata da una
relazione a volte piuttosto stretta con i luoghi del culto che costituivano le sedi dove i
praticanti esercitavano le loro arti. Molte di quelle più antiche evidenziano, nel loro
sviluppo, collegamenti diretti con un particolare tempio buddhista o shintoista, o
legami espliciti con un kami particolare.
1
Questa circostanza pone in evidenza la connessione fra piano spirituale e pratica
fisica.
Una delle prime ryūha (ྲྀ) scuole di tecniche marziali, fu fondata nel tardo XV
secolo presso il Gran Tempio di Kashima: la Kashima Shinryū, è infatti una delle
prime organizzazioni di allenamento per samurai.
Testimonianze relative all’importanza nelle pratiche marziali dello sviluppo delle
capacità di concentrazione, che focalizzano l’energia del combattente nell’atto dello
scontro, si trovano inoltre negli scritti di Sōhō Takuan (1573-1645)
2
, oltre che ne Il
Libro dei Cinque Anelli di Miyamoto Musashi (1584-1645) che risale alla stessa
1
FRIDAY, Karl, (with Seki Humitake) Legacies of the Sword. The Kashima Shinryū &
Samurai Martial Culture, Honolulu, University of Hawaii Press, 1997, pp. 19-24.
2
SŌHŌ, Takuan, La saggezza immutabile, Rimini, Il Cerchio, 1993.
11
epoca.
3
Anche nelle loro forme moderne le arti marziali mantengono riferimenti agli
aspetti di autocontrollo e di educazione delle emozioni come elementi altrettanto
importanti quanto l’abilità tecnica. Tuttavia nel complesso si sono evolute verso una
dimensione più agonistica e sportiva tanto da diventare, nel caso del jūdō, discipline
olimpioniche.
Invece, come riporta Ueshiba Kisshōmaru:
L’aikidō si rifiuta di divenire uno sport competitivo e rigetta tutte le forme di
competitività o gare. Questi aspetti sono visti solo come carburante per l’egoismo,
l’egocentrismo e il disinteresse verso gli altri. La gente è molto attirata dagli sport
combattivi - ognuno vuol essere vincitore - ma non c’è nulla di più nocivo per il budō
[…]. L’aikidō traccia una chiara e netta linea di demarcazione su questo modo di
pensare, e la ragione è estremamente chiara: l’aikidō aspira a mantenere l’integrità del
budō e a trasmettere lo spirito delle arti marziali tradizionali, rimanendo fedele al
fondamentale principio del budō, come enunciato dal maestro Ueshiba: il costante
allenamento della mente e del corpo costituisce la disciplina base di coloro che
intendono seguire un cammino spirituale.
4
Nell’aikidō pertanto, il combattimento acquista un significato nuovo: è
ritualizzato, non prevede vincitori o sconfitti. Viene abolita la competizione ed
enfatizzata la partecipazione di entrambi i “contendenti” a un sistema di valori
condiviso. I ruoli di aggressore e aggredito vengono scambiati secondo una sequenza
convenzionale. Le sequenze di azione e risposta sono prestabilite e note ad entrambi i
contendenti (o “attori”). Le altre arti marziali invece tendono a “stilizzare” le antiche
arti di combattimento, trasformandole in modo che non provochino danni
irreparabili, mantenendo vivo però l’aspetto guerresco/agonistico. Si sostituisce
l’uccisione dell’avversario con una vittoria di tipo sportivo ma c’è comunque un
3
MIYAMOTO, Musashi, Il libro dei Cinque Anelli, Roma, Ed. Mediterranee, 1993.
4
UESHIBA, Kisshōmaru, Lo Spirito dell’Aikidō, Roma, Ed. Mediterranee, 1992. p. 19
12
vincitore e uno sconfitto.
Ueshiba Morihei elabora gli aspetti tecnici di quello che diventerà l’aikidō, a
partire dalla tradizione del bujutsu e in particolare influenzato dalla scuola Daitoryū
del Maestro Takeda Sokaku.
Lo scopo di questa ricerca è dunque quello di considerare le relazioni che il
Maestro Ueshiba ha avuto con il reverendo Deguchi e analizzare come le dottrine di
quest’ultimo abbiano influenzato la definizione dell’aikidō come disciplina marziale.
Questo processo avviene negli anni Venti e Trenta del secolo scorso, un’epoca
caratterizzata in Giappone da una forte accentuazione degli aspetti militaristici e
nazionalistici, che coinvolge anche le tradizioni culturali legate alle arti marziali. Sia
Ueshiba, sia Deguchi rappresentano una visione che si oppone a queste istanze,
ricercando una via universalista nel tentativo di recuperare una serie di valori
originari. L’idea di fratellanza e amore universale, armonia con la natura e il mondo
che Deguchi predica, rivelano aUeshiba la possibilità di applicare tali insegnamenti
all’arte marziale che sta elaborando.
Ciò avviene nella forma della “rivelazione”, una modalità legata agli aspetti
religiosi della conoscenza. L’aikidō prende forma strutturando elemento di forte
ritualità e coesione di gruppo, in analogia con aggregazioni di tipo apertamente
religioso.
Anche se nella situazione attuale sia in Giappone che in Occidente gli aspetti più
spirituali dell’aikidō sono vissuti in modo sfumato e secondario dai praticanti,
tuttavia l’importanza fondamentale dell’aspetto religioso risulta chiara e ben
strutturata.
13
Capitolo 1. Il panorama religioso giapponese tra la
fine dell’epoca Tokugawa e l’inizio dell’epoca Meiji
(1853-1912).
Il periodo storico preso in esame coincide con la data del 1853, che segna l’apertura
del Giappone ai commerci con i paesi occidentali dopo secoli d’isolamento,
premessa diretta alla definitiva crisi dello shogunato Tokugawa e alla restaurazione
Meiji. Esso è caratterizzato da alcuni fenomeni che chiamano in causa gli aspetti
religiosi della società.
Dopo la fase di eclissi dell’epoca Tokugawa, si assiste alla restaurazione di un
potere imperiale forte che basa la propria autorità sulla rifondazione delle origini
religiose, che giustificano la discendenza divina dell’imperatore. Lo Shintō diventa
seppur in modo non ufficiale, in quanto mantiene la sua identità di culto civile,
religione di stato e assume un ruolo che fino ad allora in Giappone una religione non
aveva mai avuto.
Le scuole buddhiste, invece, perdono l’appoggio e la benevolenza dei centri di
potere e vengono boicottate in quanto potrebbero indebolire la centralità del potere
imperiale e costituire un ostacolo per la politica d’apertura del Paese. La repressione
fu di corta durata ma molto violenta (haibutsu kishaku, ᗣẃ㔐 è lo slogan su cui
si organizza la repressione: rigettare ed escludere il Buddhismo).
Nello stesso periodo, lo sviluppo di quello che fu chiamato lo Shintō di stato e dei
santuari (kokka shintō ᅗᐓ♼㐠 e jinja shintō ♼―♼㐠) spezza il legame tra Shintō
e Buddhismo.
Parallelamente si fanno strada movimenti nazionalistici che teorizzano la
14
superiorità del popolo giapponese e cercano legittimazioni storiche e religiose alle
proprie tesi, e si assiste contemporaneamente al recupero e alla rivalutazione di culti
antichi e pratiche sciamaniche nelle campagne da parte di minoranze critiche rispetto
all’ortodossia imperiale, come reazione agli squilibri provocati dalla rapida
modernizzazione della società.
Inoltre, dall’inizio del XIX secolo appaiono in Giappone dei nuovi gruppi religiosi
che esprimono le inevitabili tensioni suscitate dal nuovo ordine politico e
propongono diverse modalità di adattamento ai cambiamenti socio economici in atto.
Raggruppate sotto il nome collettivo di shinshūkyō, ossia Nuove Religioni (৽फ
ڭ) o shinkōshūkyō, Religioni apparse recentemente (৽ڵफڭ), sono diventate,
dagli anni Sessanta, oggetto di studio degli storici della religione e dei sociologi.
5
1.1. Lo Shintō di Stato: significato politico e religioso della
restaurazione Meiji
Il rinnovamento Meiji (Meiji ishin ໌࣏ҡ৽ ) del 1868 ha una grandissima
importanza per la comprensione del Giappone moderno e dell’evoluzione del
panorama religioso giapponese. Il punto cruciale del processo corrisponde con la fine
del periodo feudale Tokugawa e la fondazione dello stato moderno giapponese. Per
più di due secoli i generali Tokugawa avevano mantenuto la pace nel paese
5
La definizione shinkōshūkyō fu utilizzata dai giornalisti giapponesi nel secondo
dopoguerra con la sfumatura negativa di “religioni apparse recentemente per soddisfare
bisogni immediati ma povere nella dottrina”. In seguito si è preferito il termine più neutro
shinshūkyō. Si veda: BERTHON, Jean-Pierre, Oomoto, espérance millenariste d’une
nouvelle religion Japonais,. Paris, Atelier Alpha Blue, 1985. p.15
15
conservando la divisione del territorio su base feudale ma non erano più in grado,
alla metà del XIX secolo, di garantire il controllo politico del paese. Dal punto di
vista economico, gravi problemi di indebitamento pubblico e conseguente tassazione
avevano portato a un malcontento generale, suscitando numerose sommosse
popolari. Inoltre, verso la fine di quest’epoca gravava la minaccia di forti pressioni
straniere interessate all’apertura di nuove vie commerciali attraverso il Giappone. Le
forze di opposizione contrarie al governo shogunale e favorevoli a una restaurazione
del potere imperiale, che erano state sempre presenti, approfittarono di questo
momento per rafforzarsi.
Come risultato di questo insieme di fattori, nel 1868 il governo Tokugawa cadde e
l’imperatore, inteso come unica figura di riferimento a capo dello Stato, occupò di
nuovo la sua posizione di potere. Il periodo che va dal 1868 al 1912, il periodo Meiji,
segna il passaggio dal Giappone feudale al Giappone moderno: tutto il sistema di
governo fu riorganizzato secondo i principi di uno Stato-Nazione. Il ruolo dei capi
militari fu abolito e venne instaurato un governo centrale che operava sulla base di
una costituzione. I clan feudali furono sostituiti da prefetture amministrate da un
governo locale, distaccamento dell’autorità centralizzata. La nuova capitale fu
stabilita a Tokyo e fu adottato un nuovo sistema di tassazione. Il nuovo governo
doveva essere sovrano e l’esercito feudale doveva essere sostituito con un esercito
imperiale o nazionale. Come osserva Earhart:
These radical transformations in politics and economics took time, requiring
adjustment of sincere ideals to realistic possibility.
6
6
EARHART, Byron, Japanese Religion: Unity and diversity, Wadsworth, Belmont
Calif., 1982. p.77
16
La necessità di fare del Giappone un paese moderno, cioè basato sul modello
occidentale, implicava anche il bisogno di offrire alle potenze occidentali
un’immagine precisa della propria religione. In quel periodo il Giappone era uno dei
pochi paesi al mondo non colonizzati da Europa o America. Inoltre erano in vigore i
cosiddetti “trattati ineguali” (che comprendevano clausole come l’extraterritorialità).
Questi potevano essere rivisti solo a patto che il Giappone accettasse di far parte del
“Primo Mondo” (ossia di quello Occidentale). Rinunciando a soddisfare queste
condizioni i giapponesi sarebbero stati considerati dal mondo occidentale come una
popolazione di “selvaggi” e quindi suscettibile di colonizzazione.
Fornire un panorama politico, religioso, culturale chiaro alle potenze occidentali
serviva a dimostrare al mondo intero che i giapponesi non erano dei “selvaggi” e a
organizzare un consenso interno al paese allo scopo di creare una “Nazione”.
I termini “Nazione” e “Stato” vengono oggi considerati come sinonimi nell’uso
comune. In ambito storiografico però questi concetti sono distinti.
Le Nazioni sono Stati ma non sempre gli Stati sono Nazioni. Con “Nazione” si
intende un qualcosa di solamente moderno. Una Nazione implica un’unità spirituale
che coinvolge tutti all’interno di uno Stato. Perchè ci sia una Nazione sono necessari
un insieme di fattori che uno Stato da solo non ha. Uno di questi fattori è ad esempio
che tutti i cittadini si ritrovino in un orizzonte ideologico, religioso, culturale,
politico, linguistico ecc. comune, cioè che si ritrovino in un’unità nazionale.
7
Oltre ai cambiamenti politici ed economici, il rinnovamento Meiji vide anche
significativi cambiamenti nel campo religioso. Il periodo di transizione fra il
Giappone medievale e quello moderno può essere descritto, semplificando, come un
7
TUCCARI, Francesco. La Nazione, Roma-Bari, Laterza, 2000.
17
passaggio dal patronato di stato del buddhismo al patronato di stato dello Shintō (o
Shintō di Stato, kokka shintō ࠃՈਆಓ).
Secondo il kokka shintō il Giappone è l’unico paese al mondo che sia governato
da una linea ininterrotta di sovrani di origine divina; la famiglia imperiale sarebbe
infatti diretta discendente di Amaterasu, la dea centrale della mitologia del clan
Yamato, il clan della famiglia imperiale. Secondo quest’ideologia l’imperatore è
considerato di origine divina e padre di tutti i giapponesi. Il clan Yamato dà poi
origine alle famiglie più importanti del paese da cui a loro volta originano i capi
villaggio e così via. Tutti i giapponesi farebbero dunque parte di un’unica famiglia.
Se si pensa alla parola kokka si può notare che essa si scrive col carattere di stato,
paese (ࠃ) e col carattere di famiglia, casa (Ո).
Tutti i giapponesi sono quindi fratelli, figli dell’imperatore e di conseguenza di
origine divina. Questa convinzione è alla base della teoria che proclama l’originalità
del Giappone e dei giapponesi. Oggi nessuno in Giappone è disposto a sottoscriverla
alla lettera, tuttavia il senso di comunanza proprio dei giapponesi rimane un elemento
caratteristico della società nipponica e secondo il nihonjinron (ຊਓ), la teoria
della specificità dei giapponesi, essa è tuttora un elemento di identità culturale molto
forte.
Nel periodo di transizione lo zelo esercitato nello smantellare il vecchio regime e
il buddhismo fu esagerato quanto l’entusiasmo nel promuovere il programma dello
Shintō appena restaurato. Fino ad allora la maggioranza dei templi shintō era stata
sottoposta a una pesante influenza buddhista. Questo era tuttavia piuttosto naturale
dato che i templi shintō e quelli buddhisti erano spesso posti uno accanto all’altro e i
sacerdoti delle due tradizioni cooperavano nel culto in entrambi gli edifici.