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INTRODUZIONE
“L'Arte crea combinazioni capaci di disincagliare il nostro sentire.” Remo Bodei
Stiamo vivendo un periodo storico cruciale dominato dalla tecnica. Le conseguenze
del dominio tecnologico sono molteplici, da quelle ambientali a quelle sociali ed
economiche. Nell'epoca della riproducibilità tecnica, ho scelto di soffermarmi su
una delle tante conseguenze che la società del fantasma tecnologico ha provocato,
e che adesso si trova a dover affrontare: la nevrosi provocata dal potenziamento
della vista rispetto agli altri organi di senso.
Quest'epoca ha infatti innescato un processo di profonda desensibilizzazione, intesa
come la difficoltà di adeguare l'apparato sensorio a sollecitazioni esterne continue
e pressanti: il sistema mediatico invade ogni spazio e ogni istante inducendo una
vera e propria saturazione di stimoli, l'intero universo delle cose conosciute si
spinge verso dimensioni completamente virtuali, dematerializzandosi; inoltre la
parcellizzazione frammenta e disperde l'esperienza cognitiva nei rivoli
dell'iperspecializzazione.
In una sola parola: l'estensione sensoriale prodotta dalle tecnologie allontana
sempre di più il corpo dal contatto diretto con il mondo.
Ora, in questo contesto tecnologico, alcuni sensi vengono pesantemente penalizzati
a discapito di altri: il tatto, il gusto e l'olfatto, i sensi del “contatto diretto” con la
realtà, vengono depotenziati rispetto alla vista e all'udito.
Un esempio lampante di questo fenomeno lo si può riscontrare nell'osservare quella
che è la fascinazione che avverte il bambino quando si rapporta ad un “animale
virtuale”, rispetto a quella che avverte rispetto ad un animale reale. Oggi molti
bambini preferiscono giocare con il loro pet friend digitale piuttosto che accarezzare
un gatto o giocare con un cane, lanciandogli una palla.
“Per annusare, toccare, morsicare bisogna avvicinarsi, mentre la vista permette di
conoscere rapidamente a distanza. Questo costo d'avvicinamento alle cose è il costo
della lentezza, che nella nostra società è molto alto. La velocità toglie tempo
all'approfondimento e conduce nei versanti della funzionalità più meccanica.
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Abbiamo fatto della nostra vista la nostra arma e non il nostro organo di senso, la
usiamo per indagare e non per sentire.
Nella fretta, solo la perdita di controllo visivo a volte ci fa ritrovare il tempo per
godere di alcuni momenti di lentezza in cui occorre cambiare registro, toccando per
misurare, annusando e assaporando per distinguere. Lasciando così che sia la
fantasia a trasformare le cose, immaginandole e confondendole, sino a godere
dell'imprecisione.” A. Balzola, P . Rosa, “L'Arte fuori di sé”, pag. 63
“Tutte queste condizioni portano a una sorta di alterazione sensoriale, se non
addirittura di mutilazione. Normalmente inducono a uno stato di torpore della
percezione di sé e del mondo, a un'anestesia del “sentire”. Sentire inteso come
possibilità di costruire la propria esperienza e la propria memoria attraverso i sensi.
Sentire è anche la capacità di orientare i sensi nei processi di mutazione ambientale
ed epocale. La condizione attuale sfida la nostra sensorialità a confrontarsi con
mondi sempre più immateriali, in cui nemmeno l'estensione del sapere e la sua
estrema specializzazione garantiscono un'autentica conoscenza. All'ampliamento
del sapere può corrispondere paradossalmente una restrizione del sentire.
Qui interviene la peculiarità dell'arte con la sua facoltà di unire i sensi al senso.” A.
Balzola, P . Rosa, “L'Arte fuori di sé”, pag. 61
L'epoca tecnologica ha creato una realtà mass mediatica, in cui “il reale” viene
rappresentato - e dunque percepito - privo di imperfezioni, nel momento massimo
delle sue fascinose qualità. A volte, la conseguenza è una vera e propria
nevrotizzazione comportamentale: se la vista è continuamente bombardata
dall'immagine di una realtà perfetta e immutabile nel tempo, accattivante e
seducente; tutto il sistema percettivo fatica ad adattarsi ad una realtà imperfetta in
quanto costantemente mutevole.
Ed ecco che il bisogno di apparire diventa una delle necessità predominanti
dell'uomo contemporaneo. Apparire nel senso di “sembrare”, dare una certa
impressione visiva.
L'interazione entro una realtà virtuale, inoltre, permette di vivere nella propria
apparizione: sono sempre di più le persone che ricercano un senso di socialità,
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approvazione e appagamento anche sui social network prima ancora che nel
riscontro diretto con la realtà.
Questo fatto può comportare l'insorgere di una vera e propria nevrosi, intesa come
l'incapacità, da parte dell'individuo, di entrare in contatto con la propria realtà
emotiva, di sentire quindi il proprio qui e ora.
“Alla capacità di agire creativamente in una dimensione di distanza e di velocità,
indispensabile nel mondo in cui viviamo, deve corrispondere una simmetrica
capacità di mordere le cose da vicino, sia che si tratti di oggetti reali sia che si tratti
di oggetti virtuali. Così come ha determinato uno scollamento e una confusione tra
i sensi, la tecnologia può contribuire, mediante le pratiche artistiche, a produrre
nuove condizioni percettive e nuove modalità espressive.” A. Balzola, P . Rosa,
“L'Arte fuori di sé”, pag. 66
Mantenere un contatto con la propria realtà emotiva significa innanzitutto
mantenere vivo e attivo un contatto con il proprio apparato sensoriale: è la realtà
emotiva di ognuno, quel che “si sente”, a fornire una preziosa bussola di
orientamento nella realtà.
L'individuo si dimentica della propria realtà emotiva nel momento in cui si
dimentica che, oltre ad essere visto, egli è anche vedente.
Entrare in contatto con la propria realtà emotiva – quindi innanzitutto in contatto
con il proprio apparato sensoriale - è cosa che si impara giorno per giorno e poco
per volta, oltretutto spesso questo contatto risulta intralciato dall'area del pensiero.
Questo perché il linguaggio primo dell'emozione è un linguaggio di tipo non
verbale, per questo, in un'epoca dominata dalla complessità, dalla velocità e dalla
virtualità, troppo spesso le emozioni restano soffocate nella definizione (verbale) di
sé stesse.
Infatti nell'era tecnologica anche le emozioni diventano sempre più complesse, in
relazione alla complessità e alla sovrabbondanza degli stimoli esterni, ma non per
questo perdono di vividezza. Un apparato sensoriale in linea con la propria realtà
emotiva (ovvero la consapevolezza percettiva della propria emotività, la risonanza
che l'uomo avverte dall'incontro con le cose del mondo) può essere in grado di ri-
definire la molteplicità di quel che “sente” secondo una certa spontaneità e
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continuità d'azione. Spontaneità e continuità d'azione che restituiscono
all'individuo quei caratteri di semplicità e autenticità senza per questo indurlo a
rinunciare al progresso tecnologico.
“Adesso abbiamo la gerarchia di bisogni, gli strumenti – sensori e motori – con cui
soddisfarli, le cariche energetiche positive e negative del campo, il contatto e il ritiro,
l'impazienza e il timore. Ciò ci porta alla questione della forza fondamentale che
infonde energia a tutta la nostra azione. Questa forza sembra sia l'emozione. In
effetti, benché la psichiatria moderna tratti le emozioni come se fossero un
sovrappiù fastidioso da dover scaricare, esse sono in realtà il nocciolo stesso della
nostra vita. (…)
Infatti le emozioni sono il linguaggio stesso dell'organismo; modificano
l'eccitazione basilare a seconda della situazione da affrontare. L'eccitazione viene
trasformata in emozioni specifiche, e le emozioni vengono trasformate in azioni
sensoriali e motorie. Le emozioni producono le cariche energetiche e mobilitano i
modi e i mezzi per soddisfare i bisogni.” Fritz Perls, “L'approccio alla Gestalt”,
pag. 33
Parallelamente al corso di studi presso l'Accademia di Belle Arti di Bari ho
inseguito quello che, intuitivamente, mi si presentava come un “bisogno di
sinestesia”: così ho intrapreso un percorso esperienziale di tipo gestaltico.
Prima ancora di formare degli psicoterapeuti, l'approccio gestaltico si propone di
formare delle persone in grado di imparare a stabilire, e poi di mantenere, un
contatto con la propria realtà emotiva attraverso quello che viene chiamato “ciclo
del contatto.”
Il ciclo del contatto inizia con la riattivazione fisica del qui e ora: se è vero che la
sensorialità si esprime attraverso un corpo in movimento, il quale agisce invece di
essere agito, è altresì vero che questo corpo necessita di entrare in contatto prima
di tutto con sé stesso.
Dunque, solo dopo aver stabilito un contatto con il proprio corpo (ad esempio
attraverso la respirazione o il movimento, la danza) per recuperare la fisicità del qui
e ora, è possibile iniziare il ciclo del contatto.
Il ciclo del contatto quindi contatta prima di tutto la propria realtà emotiva: come si
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sta, “come ci si sente”.
In secondo luogo interroga l'area del pensiero: di cosa si ha bisogno.
In terzo luogo promuove un'ipotesi di azione: che cosa si può fare per soddisfare
questo bisogno.
Il fine di questa tipologia di percorso è quello di imparare a distinguere la
molteplicità dei bisogni, l'uno dall'altro, per poter imparare ad occuparsene, un
bisogno alla volta. Grazie alla continua presa di contatto con la propria realtà
emotiva è possibile far emergere, portare in superficie, sempre quello che è il
bisogno dominante.
“Il nevrotico ha perso (o forse non ha mai sviluppato) la capacità di organizzare il
suo comportamento in conformità a una gerarchia necessaria di bisogni. Egli
letteralmente non riesce a concentrarsi.” Fritz Perls, “L'approccio della Gestalt”,
pag. 29
Ora, in un'epocale nevroticizzazione da apparenza visiva, imparare a cogliere
l'immediatezza sinestetica della propria realtà emotiva diventa compito arduo.
E' in quest'ottica che la pratica artistica può supportare la terapia del qui e ora:
“L' 'ora' è un concetto interessante e difficile, perché mentre da una parte si può
raggiungere qualcosa solo lavorando nel presente, dall'altra ciò diventa impossibile
non appena se ne fa un'esigenza moralistica. Se si cerca di afferrare il presente, esso
è già svanito. E' davvero paradossale: lavorare nel presente ed essere incapaci
tuttavia di afferrarlo o persino di metterlo a fuoco.” Fritz Perls, “L'approccio alla
Gestalt”, pag. 113
Ecco dunque che la pratica del disegno può essere utile non tanto per riprodurre
fedelmente la realtà, quanto per dare una forma immediata e visibile a quel “come
ci si sente”, a quel “come si sta.” Infatti:
“Il disegno è innanzitutto un dialogo che l'artista attiva con sé stesso, risponde al
suo bisogno di materializzare subito un pensiero, dandogli una forma e una
concretezza, verificandone subito la consistenza. (…) Il dialogo tra il pensiero che
si forma e il segno che si materializza sulla carta scaturisce spontaneamente, frutto
di un'intelligenza che si trasferisce dalla dimensione razionale a quella intuitiva e
percepita dalla mano, creando un dialogo diretto, dove intervengono lo sbaglio,
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l'errore, la riconfigurazione, l'aggiustamento, il coinvolgimento dello spazio. (…)
L'apparizione di un segno è il luogo in cui si incrociano tutti i punti di vista, diventa
un modo per far uscire le idee dall'accanimento (e a volte dall'equivoco) verbale e
farle convergere semplicemente dentro dei segni dove le contraddizioni sono minori
perché si possono subito verificare.” A. Balzola, P . Rosa, “L'Arte fuori di sè”, pag.
150,151
Attraverso la psicologia dell'azione, questa tesi si propone di sviscerare l'attuale
problematica di quella forma di nevrotizzazione causata dalla saturazione degli
stimoli visivi, rilanciando la pratica artistica quale mezzo di ri-potenziamento
sensoriale, in quanto strumento di contatto diretto con la propria realtà emotiva in
un dato momento; e con ciò non intende sottovalutare gli aspetti propri
dell'assiologia sui quali si fonda il sistema dell'arte.
Dunque “L'Arte in Silenzio” considera l'arte entro una specifica funzionalità,
ovvero quella di “sostenere” concretamente il ciclo del contatto secondo la
psicoterapia della Gestalt, allo scopo di promuovere una certa spontaneità
espressiva dello psicoterapeuta e, insieme, del paziente.