3
In questo periodo vengono composti i romanzi di argomento romano di V. Brjusov (tra le cui
numerose liriche si ricordano: Orfeo ed Euridice, Achille all’altare, Teseo ad Ariadne) e gli
Aleksandrijskie pesni (Canti alessandrini, 1906) di M. A. Kuz’min, sodale della scuola acmeista. In
ambito letterario si annoverano, inoltre, tra i maggiori sostenitori della tendenza neoclassica,
Innokentij Anneskij (5), autore di quattro drammi di soggetto greco, traduttore di Orazio ed
Euripide, e Vjaceslav Ivanov (6), autore di due tragedie di ispirazione classica e di numerose
traduzioni da Pindaro, Bacchilide, Alceo, Saffo ed Eschilo.
Il gusto neoclassico trova in Russia la propria massima elaborazione proprio all’inizio del XX
secolo, fortificandosi ed evolvendosi soprattutto sulla base della letteratura francese fiorita durante
la seconda metà dell’Ottocento (7).
Mademoiselle de Maupin (1836), romanzo in cui T. Gautier (1811 – 1872) fa un uso
disinvolto e metaforico della mitologia, l’Après-midi d’un faune (1876) di S. Mallarmè e Les
trophées (1893) di J. M. De Heredia (1842 – 1905), parnassiano, grande cesellatore del verso, uno
dei più gloriosi corifei del rinnovamento ellenico nella poesia francese, costituiscono il vertice
creativo di una tendenza letteraria che, in quegli stessi anni, coinvolge tutta l’Europa e trova in
Russia appassionati seguaci. Proprio a Gautier si ispirerà, infatti, la nitida poesia del primo
acmeismo, così come ai Trofei e Cammei di Heredia aveva guardato già Innokentij Annenskij.
Nella Russia di inizio secolo, legati all’antichità classica sono anche i nomi di alcuni gruppi
letterari e riviste, come il circolo studentesco fondato da Andrej Belyj «Gli Argonauti», che si dava
ritrovo al Musaget (8), la rivista moscovita «Il vello d’oro», fondata e pubblicata a Mosca da G.
Culkov, o le pubblicazioni pietroburghesi della rivista «Apollo», organo ufficiale delle rinascenti
tendenze parnassiane (9).
Il rinnovamento del gusto, predicato dai sostenitori delle nuove tendenze neoclassiche ed
attuato nell’ambito letterario, trova, per le arti figurative, il proprio strumento di diffusione ed
applicazione nella rivista «Mir Iskusstva» che apparve a Pietroburgo, riccamente stampata e
illustrata, tra il 1899 e il 1904. Diretta da S. Djagilev e sostenuta da una élite iniziale di cooperatori
costituita da A. Benois, K. Somov e W. Nouvel, la rivista ispirò la collaborazione di pittori come I.
Levitan, M. Vrubel e L. Bakst, “il più completo maestro di quella maniera eclettica e ornamentale
che i russi chiamarono “stilizzazione” (stilizacija), i tedeschi Jugendstil e i francesi art noveau.”
(10)
I collaboratori del «Mir Iskusstva» furono i sostenitori e gli attivi coadiuvatori di S. Djagilev
nella sua più gloriosa e durevole realizzazione: i Balletti russi, che conquistarono Parigi nel 1909 e
1910, e dopo Parigi il mondo intero. Coreografi, maestri di ballo e ballerini tra i più famosi del
tempo contribuirono, con la propria arte, alla creazione degli indimenticati capolavori Il principe
4
Igor di Borodin, Šéhérazade, Sadko e Il gallo d’oro di Rimskij-Korsakov, l’Après-midi d’un faune
di Debussy, Petruška e L’uccello di fuoco di Stravinskij.
L’interesse del «Mir Iskusstva», rivolto in un primo tempo all’arte popolare e
successivamente all’arte europea del diciottesimo secolo, culmina il proprio percorso culturale,
conformandosi alle mete perseguite dal mondo della letteratura, nella scoperta dell’antichità classica
greca: “l’antichità e l’esotismo facevano parte di quel bagaglio da riimmaginare, rivedere, seguendo
nuove sensazioni che una linea avvicinava sensibilmente al gusto attuale e nello stesso tempo lo
rinnovava. […] Ma accanto all’occidentalismo, ben accolto, figurava anche un orientalismo, in
particolare uno stile giapponese, del resto diffuso in tutta Europa, che correggeva certe durezze e
rendeva le immagini e soprattutto il paesaggio meno aspro, attraverso la tenerezza del segno. Ma
accanto a queste due polarità di prima grandezza, i generi più frequenti erano: il Settecentismo, le
Arlecchinate, la vita russa e il folclore che alcuni pittori in particolare andavano riscoprendo, come
Bilibin e Kandiskij; il ritratto, nel quale era particolarmente versato Serov; il paesaggio, la grafica
libraria che avrà un exploit straordinario, la scenografia, i costumi e l’antichità classica che Bakst
porterà ad un altissimo livello di elaborazione (11)” (12)
Igor Stravinskij (1882 – 1971), uno dei compositori prediletti da S. Djagilev (13), si annovera
fra i maggiori esponenti e sostenitori della tendenza neoclassica in musica. Il suo ispirarsi ad opere
classiche non si risolve in una sterile imitazione o forme stilizzate, ma in una reinterpretazione in
chiave moderna dei grandi temi della classicità.
Il procedimento con cui Stravinskij ha rielaborato le opere classiche è stato avvicinato da S.
Karlinsky al modo col quale Marina Cvetaeva ha attinto alla fonte del mito per la composizione
delle tragedie Arianna e Fedra (14). Karlinsky evidenzia come nelle varie fasi creative dei due
artisti si possa riscontrare una perfetta corrispondenza ritmico-musicale. Affine appare il loro
percorso di ricerca, che muove da una iniziale fascinazione per il mondo settecentesco, di cui sono
testimonianza le pièces cvetaviane del ciclo Romantika (15), composte tra il 1918 ed il 1919, vicine
al Pulcinella (1920) del compositore, per poi indagare le radici del folklore contadino russo, come
nei poemi cvetaviani Car’-devica (Lo zar-fanciulla, 1920) e Molodec (Il prode, 1924) che ricordano
per il ritmo i tre lavori da camera di Stravinskij Renard (1917), l’Histoire du Soldat (1918) tratti da
fiabe e Les noces (1923) intessuto su temi di antiche usanze e riti nuziali, fino ad attingere alle fonti
del mito classico. “Il periodo neoclassico di Stravinskij iniziò con il balletto Pulcinella (1920) […]
ma solamente quando egli si stabilì a Parigi e subì l’influsso di Cocteau, Gide e altri scrittori, fu
affascinato dallo spirito idealistico eppure essenzialmente tragico dell’antichità classica — l’uomo
che vive in una realtà di purezza e di serenità ma che è perseguitato dal Fato inesorabile — e ciò che
si concretizzò in una serie di importanti composizioni per il teatro: l’opera- oratorio Oepidus rex
5
(1927), il balletto Apollo Musagete (1928), il melodramma Persefone (1934) e il balletto Orfeo
(1948).” (16)
Se è vero dunque che Marina Cvetaeva condivide le tematiche mitologiche della cultura
neoclassica europea, è pur vero che la soluzione adottata per rielaborarle ed adeguarle alla propria
visione filosofica ed artistica è affine alla cultura musicale dell’epoca.
Insofferente dei limiti posti da scuole e tendenze letterarie, Marina Cvetaeva dichiara di
essersi sottratta ad ogni mediazione o elaborazione culturale, specificando: “La Fedra di Kuzmin
non l’ho mai letta. Le fonti della mia Fedra e in genere di tutta la mia mitologia sono un libro
tedesco di Gustav Schwab per ragazzi (17). O meglio — è il mio materiale (le fonti sono in me: io
stessa)” (18). Nonostante le ripetute dichiarazioni di autonomia culturale (19), il suo orientamento
verso la classicità, la riflessione sul senso del tragico le provenivano di certo già dalla prima
adolescenza, dalla frequentazione di Nilender, l’amico conosciuto tramite Andrej Belyj —
traduttore dei frammenti di Eraclito. In seguito altre suggestioni le verranno dalla lettura in tedesco
di Nietzsche, dell’amato Rilke, di Hölderlin. Inoltre, Marina Ivanovna conosceva senza dubbio la
traduzione russa dell’Iliade di N. I. Gnedic e la versione dell’Odisse realizzata dal poeta V. A.
Zukovskij.
Se da una parte non si ha, dunque, nessuna esplicita dichiarazione che Marina Cvetaeva si sia
documentata, riguardo alla materia mitologica, anche su altre fonti, oltre al testo di G. Schwab,
dall’altra un’analisi più attenta e particolareggiata delle pièces di ispirazione classica potrebbe
indurre a pensare il contrario.
Segna il gusto di un’epoca, e forse anche una data di riferimento per il progetto cvetaviano, la
messinscena a Mosca nel 1921 della Fedra di Racine, curata da Tairov, uno dei protagonisti della
regia del teatro russo del Novecento. Per Tairov, che nella rappresentazione della Phèdre ricondusse
“la tragedia alle fonti del mito, alle radici remote dell’Ellade, a un’Ellade ancora barbara e asiatica
(ossia fuori dall’ambito dell’età di Racine)” (20), l’elemento cardine del testo era la passione:
“Tairov era affascinato dall’«algebra della passione» (21). per lui più primitiva e più forte dell’io
umano.” (22) L’influenza della filosofia del noto regista, l’elezione della passione ad elemento
cardine del mito narrato, trovano un’eco chiara e nitida nelle tragedie cvetaviane, riflesso delle
esperienze personali vissute dal poeta: “Non amo la vita come tale: la vita per me comincia ad avere
senso — cioè ad acquistare significato e peso — solo trasfigurata, e cioè — nell’arte.” (23)
La passione diviene componente essenziale, tanto dell’opera poetica che della vita stessa, sino
a che i due piani — la poesia e l’esistenza — giungono a risultare strettamente connessi, si
alimentano reciprocamente, spesso sovrapponendosi. “La poesia della Cvetaeva è profondamente
femminile, ma non morbida, né debole. A differenza della Achmatova, che esprime la propria
6
esperienza solo in modo personale e diretto, in poesie che si presentano come frammenti di un
diario privato, la Cvetaeva riesce spesso ad esprimere la propria visione della vita attraverso
«maschere» storiche o leggendarie.” (24) In questo senso, considerando la passione quale elemento
fondante delle vicende narrate, amalgamando il mito con l’esistenza e la sensibilità del poeta, si
giunge ad una lettura appropriata dei testi classici cvetaviani, in cui l’attenzione riposta alla
mitologia dell’antica Grecia, originale ed appassionata rilettura in chiave moderna, è il risultato di
una precedente ed attenta appropriazione, da parte dell’autore, delle figure di Euridice, Orfeo,
Elena, Sibilla, e dei personaggi che ruotano intorno al mito di Teseo (25).
Arianna e Fedra sono le uniche due parti realizzate della trilogia drammatica — Gnev
Afrodity (L’ira di Afrodite) (26) —, progettata da Marina Cvetaeva nell’estate del 1923 (27),
incentrata sulla vendetta della dea dell’amore nei confronti di Teseo, colpevole di aver abbandonato
Arianna e destinato per questo a perdere tutte le donne che ama. Le singole parti della trilogia
avrebbero dovuto portare, appunto, il nome delle donne amate e perdute dall’eroe — Arianna,
Fedra, Elena —, tanto glorioso nelle sue imprese quanto perseguitato dalla sfortuna nelle vicende
amorose.
L’ultima tragedia non fu mai scritta, giacché, secondo l’opinione di S. Karlinski la dura
avversione della critica nei confronti di Fedra, scoraggiò Marina Ivanovna dal portare a
compimento il progetto della trilogia (28).
Arianna venne scritta da Marina Cvetaeva a Praga, tra il 1923 ed il 1924 e “pubblicata nel
1927 a Parigi, sulla rivista Versty, n. 2, con il titolo «Teseo».” (29) Il titolo nuovo e definitivo le fu
assegnato dall’autore nel 1940.
La stesura della pièce è contemporanea alla conclusione della appassionata storia d’amore di
Marina Ivanovna con Konstantin Boleslavic Rodzevic, al quale la Cvetaeva ha dedicato, negli stessi
anni, i versi del Poema della montagna e del Poema della fine, lamenti dolorosi del distacco e della
perdita irrimediabile, la cui motivazione intrinseca si intreccia con i fili conduttori della tragedia.
Arianna è suddivisa in cinque quadri: il primo — Cuzestranec, “Lo straniero” , scritto tra
l’ottobre ed il dicembre 1923; il secondo — Tezej u Minosa, “Teseo presso Minosse”, iniziato nel
dicembre 1923, interrotto per la stesura dei due poemi contemporanei, infine ripreso nel luglio
1924; il terzo — Labirint, “Il labirinto”, composto tra il luglio e l’agosto 1924; il quarto — Naksos,
“Naxos”, scritto tra l’agosto ed il settembre 1924; il quinto — Parus, “La vela”, portato a termine
tra il settembre e l’ottobre 1924. (30)
Marina Cvetaeva, nella struttura del dramma, ha rispettato la suddivisione in cinque scene,
propria della tragedia classica, venendo meno, invece, alla regola aristotelica delle tre unità di
luogo, tempo ed azione, che invece viene rispettata all’interno di ogni singolo quadro.
7
Il primo atto, infatti, si svolge interamente ad Atene, nella piazza del Palazzo reale, sul far
dell’alba. Il secondo si svolge a Creta, nella sala del re Minosse; la didascalia che introduce il v. 695
specifica che è notte. Il v. 733, in cui Arianna, dopo aver offerto a Teseo il filo e la spada, incita
l’amato a dormire, lascia intuire che l’eroe affronterà il Minotauro solo il giorno successivo,
chiudendo il quadro all’interno del medesimo ambito spaziale e temporale fornito all’esordio dello
stesso atto. L’intero terzo quadro, dedicato al giorno cruciale dello scontro fra Teseo e la bestia
deforme, è ambientato all’entrata del labirinto, mentre le vicende del quarto si svolgono sull’isola
rocciosa di Naxos. Il quinto quadro, che completa il percorso tragico dell’eroe, riconducendo
l’azione al punto di partenza, si esaurisce completamente sulla piazza del Palazzo reale di Atene, al
mattino.
La seconda tragedia di Marina Cvetaeva, Fedra, venne portata a compimento nel 1927, a
Parigi, e “pubblicata sulla rivista Sovremennye zapiski, n. 36 – 37, a Parigi, nel 1928” (31).
Già nel 1923, comunque, durante la composizione di Arianna, il poeta vi stava meditando,
tanto che sul quaderno degli appunti di quell’anno si alternano annotazioni, abbozzi di entrambe le
tragedie. Alla prima metà del settembre 1926 risale il cosiddetto «Piano approssimativo»
(Pribizitel’nyi plan) (32) della futura Fedra. Il piano, vicino alla variante finale della tragedia,
propone una suddivisione dell’opera in cinque scene, seguendo la regola della scansione
aristotelica: “Nel primo quadro Ippolito con gli amici cacciatori esalta Artemide e proclama il culto
della fratellanza e dell’amicizia; nel secondo “Fedra e la nutrice”, Fedra malata confessa la propria
funesta passione per il figliastro; nel terzo quadro Ippolito riceve una lettera dalla matrigna (dopo
avviene la loro spiegazione); nel quarto — “Il mirto” — monologo della nutrice sul corpo di Fedra
per salvare l’onore della defunta; e, alla fine, nel quadro quinto — “I cavalli” — la nutrice confessa
la propria menzogna.” (33)
La stesura finale della tragedia comprenderà, invece, solamente quattro atti: il primo —
Prival, “la sosta”, composto tra il settembre 1926 ed il novembre dello stesso anno; il secondo —
Poznanie, “Il riconoscimento” terminato nel dicembre 1926; il terzo — Priznanie, “La confessione”
scritto tra il giugno e l’agosto del 1927, e, infine, il quarto — Derevce (“L’alberello”), ultimato il 4
dicembre 1927. (34)
8
NOTE
1) MIRSKIJ D. S. Storia della letteratura russa, Garzanti, Milano, 1977; pag. 71.
2) Ibidem
3) Ad esempio i poemetti Diana e Sabina di ambientazione romana.
4) BAZZARELLI E., La poesia di Innokentij Annenskij, Mursia, Milano, 1965; pag. 139.
5) Innokentij Annenskij (1856 – 1909), filologo classico, traduttore di poesia occidentale,
soprattutto francese e tedesca, studioso di letteratura antica, curò la traduzione russa dell’opera
di Euripide. Fu anche originale e sensibile critico letterario, i suoi articoli sono in parte raccolti
in Kniga otrazenij (Libro dei riflessi, 1906) e in Vtoroja kniga otrazenij (Secondo libro dei
riflessi, 1909). La sua opera poetica è tutta raccolta in tre volumi: Tichie pesni (Canti sommessi,
1904), Kiparisovyj larec (Il cofanetto di cipresso, 1910) e Posmertnye stichi (Versi postumi,
1923). Annenskij compose anche quattro tragedie su soggetti tratti da antichi drammi di
Euripide e di Sofocle a noi non pervenuti: Melanippa-filosof (Melanippe filosofa, 1901), Car’
Iksion (Il re Issione, 1902), Laodamija (Laodamia, 1906) e Famira-kifared (Tamira il citaredo)
pubblicato postumo nel 1913 e rappresentato dal regista Tairov al Kamernyi teatr di Mosca nel
1917. Queste quattro tragedie manifestano la particolare concezione di Annenskij del mondo
antico: l’antichità “costituiva per lui l’arte per eccellenza che serba vivo alla coscienza il
mondo, inteso come bellezza del pensiero.” (GITIN V., Innokentij Annenskij, in Storia della
letteratura russa, Einaudi, Torino, 1989; vol. 3.1, pag. 197.)
6) Vjaceslav Ivanov (1866 – 1949), poeta di talento e filologo classico di elevata erudizione,
appassionato studioso di lingue classiche, si dedicò alla conoscenza ed allo studio della religione
greca, argomento di Ellinskaja religija stradajušcego boga (La religione ellenica del dio
sofferente, 1904) e di Dionis i pradionisijstvo (Dioniso e i culti predionisiaci, 1923). Già la sua
prima raccolta di versi Kormcie svezdy (Gli astri piloti, 1903) lo pone in primo piano tra i poeti
del secondo simbolismo russo. Seguono altri quattro volumi di versi: Prozracnost’
(Trasparenza, 1904), Cor ardens (1911-1912) e Neznaja tajna (Tenero mistero, 1913). Del
1905 è una tragedia in versi, Tantal (Tantalo), mentre la sua seconda tragedia, Prometej
(Prometeo), viene pubblicata nel 1918 insieme al poema autobiografico Mladencestvo
(Infanzia). “Ivanov, che concepiva il teatro non come spettacolo, ma come interazione attiva di
attori e spettatori, anticipò di molto alcune sperimentazioni dell’avanguardia europea. Le sue
tragedie Tantalo e Prometeo […] elaborano uno dei temi più significativi per l’autore — la sfida
a Dio, la superbia, l’autosufficienza, il distacco da tutto: l’originalità del soggetto (l’arte
«creatrice di miti») e il rapporto competitivo con il dramma antico, rilevano in queste tragedie
una capacità concreta di ricercare l’effetto conciliare, il principio corale che deve condurre
all’identificazione appunto del coro con il pubblico.” (RUDIC V., Vjaceslav Ivanov, in Storia
della letteratura russa, cit.; pag. 180.)
9
7) “Nessun resoconto dell’attività e delle manifestazioni del modernismo letterario russo sarebbe
esatto o completo senza porre nella necessaria e dovuta evidenza il suo rilevante contributo
all’educazione estetica e culturale del pubblico russo. Essi [gli esponenti delle varie correnti]
non trascurarono nessun classico straniero, da Omero a Virgilio, da Dante a Cervantes, da
Racine a Shakespeare e Goethe, e nondimeno dedicarono il più e il meglio dei loro sforzi ai
poeti e pensatori dell’Europa moderna, dai primi romantici fino ai loro contemporanei. Essi
arricchirono la letteratura russa di traduzioni e interpretazioni di Novalis, Kleist, Byron, Shelley,
Coleridge e Poe; e soprattutto di tutti i poeti della Francia moderna; da Gautier a Baudelaire, da
Mallarmé a Rimbaud, da Verlaine a Verhaeren. Prestarono anche attenzione a scrittori più
recenti e più originali e alla moda, come Wilde, Walt Withman, D’Annunzio, Maeterlinck,
Hamsun e Kipling. Essi resero un particolare tributo a pensatori come Schopenhauer e
Nietzsche, a drammaturghi come Ibsen e Strindberg, che elevarono per qualche tempo al
Pantheon delle lettere russe e che, sebbene adottivi, furono adorati come numi tutelari.”
(POGGIOLI R., I lirici russi: 1890-1930, Lerici Editori, Milano, 1964; pag. 82-83.)
8) “Il Musaget era sia la sede redazionale della casa editrice degli Argonauti che un ritrovo
letterario.” (KARLINSKY S., Marina Cvetaeva, Guida Editori, Napoli, 1989; pag. 46.)
9) Altre riviste e gruppi editoriali di notevole rilievo si affacciano sulla scena culturale dei primi
anni del XX secolo. A Mosca, centro focale dell’estetismo letterario, V. Brjusov fondò nel 1900
il gruppo editoriale dello «Scorpione». Dal 1905 al 1909 gli «Scorpioni» iniziarono la
pubblicazione mensile della rivista «La bilancia» che, per il vasto respiro dei suoi interessi e la
varietà dei gusti, divenne uno dei primi giornali letterari d’Europa. Dal 1910 al 1917 il periodico
moscovita «Il pensiero russo», esempio di periodico di vecchia scuola, pubblicò nelle sue
pagine i migliori scrittori del tempo. Fra le numerose case editrici sorte nell’ultimo decennio
prima della Rivoluzione acquisirono notevole importanza il «Grifone» e i «Musageti» di Mosca
e la «Rosa selvatica» di Pietroburgo. (Cfr. POGGIOLI R., I lirici russi: 1890-1930, cit; pag. 76-
82)
10) POGGIOLI R., Ivi; pag. 85.
11) Drevnyi uzac (“Terrore antico”), pannello decorativo dipinto da Bakst tra la fine del 1907 e
l’inizio del 1908, rappresenta un paesaggio visto dall’alto, illuminato, squarciato dalle
deflagrazioni di un fulmine. La parte bassa è occupata da un mare furioso che sommerge la terra
frastagliata da rocce e crinali, edifici, folle che si dimenano nel terrore. Sulla totalità del
panorama apocalittico si staglia una statua arcaica della dea Afrodite con l’algido sorriso sulle
labbra. Voltando le spalle al mondo distrutto, la dea rimane calma e impassibile. Stringe al petto
una uccello azzurro, simbolo della fortuna. (Cfr. MESSINA R., Ritratto di Nizinskij da Fauno,
Biblioteca “Paroniana”, Rieti, 1998) L’opera compare anche Mir Iskusstvo, Roma, 1984; pag.
83, in cui viene notata la propensione di Bakst all’uso del colore viola scuro nei disegni dei
paesaggi, tinta ambigua ed inquietante, allusiva di un enigmatico elemento.
12) MESSINA R., Ritratto di Nizinskij da Fauno, Biblioteca “Paroniana”, Rieti, 1998; pag. 143.
13) Igor Stravinskij fu tra i collaboratori di S. Djagilev, scrivendo la musica per L’oiseau de feu
(“L’uccello di fuoco”), balletto accolto con successo a Parigi nel 1910. Del 1911 sono le
musiche per il balletto Petruška, e del 1913 per Le sacre du printemps (“La sagra della
primavera”). “Con Petruška Stravinskij reagì violentemente contro le degenerazioni del
romanticismo wagneriano e dell’impressionismo debussysta, le quali, dimenticando che la
musica ha da essere rappresentazione sonora dei sentimenti, e non enunciazione, volevano dare
ad ogni suono un significato, e frammentavano l’unità della costruzione musicale in una vana
10
imitazione del discorso parlato.” (MILA M., Breve storia della musica, Einaudi, Torino, 1983;
pag. 373). Contemporaneamente alle prime elaborazioni stravinskiane, R. Strauss portava a
compimento le opere di argomento classico Salomè (1905), proibita in Inghilterra fino al 1910 e
la sublime Arianna a Nasso (1912), composta sul testo di H. von Hofmannsthal (1874 – 1929)
ed eseguita a Stoccarda nel 1912 e a Vienna nel 1916.
14) Cfr. KARLINSKY S., Marina Cvetaeva, cit.; pag. 216.
15) Appartengono al ciclo Romantika sei pièces tutte ambientate nel Settecento: Metel’ (La
tormenta, 1918), Cervonnyi valet (Il fante di quadri, 1918), Kamennyi angel (L’angelo di
pietra, 1919), Priklucenie (L’avventura, 1918-1919), Feniks (La fenice, 1919) e Fortuna (1919).
Come gli artisti del gruppo «Mir Iskusstva», Marina Ivanovna qui si ispira al XVIII secolo, al
periodo casanoviano degli anni immediatamente successivi alla rivoluzione francese, in cui
scorge un’evidente analogia con la Mosca degli anni 1918-1919. (Cfr. KARLINSKY S., Marina
Cvetaeva, cit.; pag. 110)
16) La musica moderna 1890 - 1960, vol. X, a cura di M. COOPER in Storia della musica,
Feltrinelli, Milano, 1974.
17) “La raccolta di miti greci nell’adattamento didattico, moraleggiante, spesso edulcorato di
Gustav Schwab, Die schönsten Sagen des klassichen Altertums, destinato ai bambini tedeschi
dell’età vittoriana, fu pubblicata per la prima volta nel 1837-39.” (KARLINSKY S., Marina
Cvetaeva, cit., pag., 217.)
18) CVETAEVA M., Lettera del 4 aprile 1933 a J. Ivask in Deserti luoghi, Adelphi, Milano, 1996;
pag. 171.
19) “In genere non sono mai stata sotto l’influsso di nessuno. Ho cominciato dallo scrivere — e non
dal leggere poesie” (CVETAEVA M., Ibidem)
20) RIPELLINO A. M., Il trucco e l’anima, Einaudi, Torino, 1965; pag. 358.
21) “Tairov considera lo spettacolo un’addizione di momenti emotivi. […] Per dare alla propria
trionfante fisicità una sostanza emotiva, l’attore dispone di quattro elementi primari (collera,
paura, gioia, sofferenza), che raccorda in molteplici combinazioni (collera + sofferenza,
sofferenza + paura, paura + collera, ecc.), spingendosi a volte ad astrusi polinòmi del tipo di:
(collera + paura) + (sofferenza + collera)” (RIPELLINO A. M. Ivi, pag. 353.)
22) IVANOV V., Polunocnoe solnce, in «Novyj mir», 3, 1989; pag. 238.
23) CVETAEVA M., Lettera ad A. Tesková del 30 dicembre 1925, in Deserti luoghi, cit.; pag. 7.
24) POGGIOLI R., I lirici russi 189-1930, cit.; pag. 351-352.
25) Egeo, re di Atene, non avendo ancora avuto figli dai due matrimoni contratti, “si recò dalla Pizia
e le chiese come avrebbe potuto avere dei figli. […] Non sapendo come interpretare l’oracolo,
Egeo ritornò ad Atene. Di passaggio per Trezene viene ospitato da Pitteo, figlio di Pelope, il
quale […] fa ubriacare il suo ospite e lo fa dormire con sua figlia Etra. Ma, nella stessa notte, si
unì a lei anche Poseidone. Egeo disse a Etra che, se avesse partorito un figlio maschio, doveva
allevarlo senza rivelare chi era suo padre: nascose quindi sotto un masso una spada e dei sandali
e disse che, quando il fanciullo fosse stato in grado di smuovere la pietra e prendere questi
11
oggetti, allora doveva mandarlo da lui insieme ad essi.” (APOLLODORO, I miti greci,
fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, 1996, trad. it. di M. G. Ciani; III, 15, 7.) Teseo, generato
dall’unione di Etra ed Egeo, “diventato adulto, spostò il masso di pietra, prese sandali e spada e,
a piedi, si diresse verso Atene. Liberò la strada dai briganti che la controllavano.”
(APOLLODORO, I miti greci, cit.; III, 16, 1) Quando il giovane, dopo eroiche imprese, giunse
ad Atene, il padre Egeo, ignaro della sua identità, istigato dalla malignità della moglie Medea, lo
mandò a lottare contro il toro di Maratona. La spada di Teseo, vittoriosa sull’animale, svelò il
segreto dell’origine del giovane agli occhi del padre, nel momento in cui Teseo si apprestava a
sorseggiare la coppa avvelenata, miscelata da Medea. Egeo onorò il figlio e scacciò la moglie.
La sosta di Teseo ad Atene fu breve, giacché non indugiò ad partire volontariamente sul
vascello sacrificale, diretto a Creta, quale tributo destinato al Minotauro. Ucciso il mostro con
l’aiuto della giovane Arianna, figlia del re Minosse, e di lei innamoratosi, salpò con la fanciulla
ed approdò all’isola di Nasso. Qui Dioniso si innamorò di Arianna, la portò a Lemno e si unì a
lei. (Cfr. APOLLODORO, I miti greci, cit.; epitome I, 8-9. Plutarco, in Vita di Teseo,
fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, Milano, 1988; 20, I, riporta la versione secondo la quale
Teseo abbandonò Arianna perché innamoratosi di Egle, figlia di Panopeo.) Durante il viaggio di
ritorno verso Atene, Teseo dimenticò di spiegare la vela bianca, causando la morte del padre
Egeo, il quale, avvistato il vessillo nero, credette che il figlio fosse morto. Teseo ereditò il
potere ed uccise i cinquanta figli di Pallante. (APOLLODORO, I miti greci, cit.; epitome I, 9-
11) Partecipò alla spedizione di Eracle contro le Amazzoni e rapì Antiope, avvenimento che
causò la marcia delle donne guerriere su Atene. Le Amazzoni vennero sconfitte nella battaglia
dell’Aeropago. Antiope generò con Teseo il figlio Ippolito. Sopravvissuta alla guerra,
l’Amazzone, moglie non legittima di Teseo “poiché apparteneva ad una società che si opponeva
alla monogamia” (GRAVES R., I miti greci, Longanesi, Milano, 1963; pag. 443), interruppe il
banchetto nuziale imbandito per le nozze di Teseo e Fedra, (sorella di Arianna e del re cretese
succeduto a Minosse, Deucalione, offerta da questi in sposa al re d’Atene al termine dell’antica
discordia) e minacciò di massacrare gli invitati. Antiope venne uccisa da Teseo. La passione che
Fedra nutrì per il figliastro, indusse Teseo a vendicarsi di Ippolito, — accusato falsamente di
violenza davanti al padre —, rivolgendo a Poseidone la supplica di porre fine alla vita del figlio.
Fedra si tolse la vita, impiccandosi, quando l’inganno venne alla luce. Insieme a Piritoo, Teseo
combatté contro i Centauri, aiutando l’amico a riscattare il tentativo di violenza che questi, in
preda al vino, avevano tentato alla novella sposa Ippodamia. Dopo la morte di Ippodamia e
l’impiccagione di Fedra, “Teseo e Piritoo si erano accordati per prendere in spose delle figlie di
Zeus. Per se stesso Teseo rapì da Sparta Elena, che aveva dodici anni; e poiché desiderava che
Piritoo sposasse Persefone, scese nell’Ade. […] Teseo con Piritoo scese nell’Ade e qui cade in
tranello: Ade li invita a banchetto come ospiti e li fa sedere sul trono di Lete, al quale essi
rimangono attaccati e trattenuti da spire serpentine. Piritoo rimase prigioniero dell’Ade, mentre
Teseo fu riportato sulla terra da Eracle che lo rimandò ad Atene.” (APOLLODORO, I miti
greci, cit.; epitome II, 23-24) Plutarco accredita, invece la seguente versione: “Teseo e Piritoo
giunsero entrambi a Sparta e fuggirono dopo aver rapito la ragazza […] Gli uomini, mandati
all’inseguimento, tennero loro dietro non oltre Tegea; i due al sicuro, […] fecero un patto: chi
fosse stato sorteggiato avrebbe avuto Elena in moglie, e avrebbe aiutato l’amico a trovare
un’altra sposa. Fatto il sorteggio in base a questi accordi, uscì Teseo. […]Egli, per restituire
l’aiuto a Piritoo, andò con lui in Epiro per prendere la figliola di Adoneo, re dei Molossi; costui
aveva chiamato sua moglie Persefone, sua figlia Core e il suo cane Cerbero. […] Venuto a
sapere che Piritoo e il suo amico non venivano come pretendenti per la mano di sua figli ma per
rapirla, li fece catturare: Piritoo fu sbranato dal cane, Teseo, imprigionato, era sotto custodia.”
Fu liberato e ricondotto ad Atene da Eracle.(PLUTARCO, Vita di Teseo, cit.; 31, 2-5).Ad Atene
governava Menesteo, a cui i Dioscuri, dopo aver ripreso la sorella Elena durante l’assenza di
Teseo, avevano affidato il regno. Teseo, messo in fuga da Menesteo, fece rotta verso Creta, il
cui re, l’amico Deucalione, aveva assicurato asilo. Una tempesta dirottò la nave e Teseo fu
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costretto ad approdare all’isola di Sciro, dove re Licomede, dopo una iniziale buona
accoglienza, non gradì le pretese dell’ospite di volersi stabilire su quelle terre, e con un pretesto
lo attirò su un alto promontorio, e di là lo fece precipitare in mare.(Cfr. PLUTARCO, Vita di
Teseo, cit.; 35, 6.)
26) “Nel corso della stesura della tragedia Arianna, la Cvetaeva cambiò il titolo della trilogia. «Non
va bene L’ira di Afrodite, giacché…così può chiamarsi una cosa chiaramente negativa. Meglio
semplicemente — Teseo.»” (SAAKJANC A. in Teatr, Iskusstvo, Moskva, 1988; pag. 373)
27) “Ho in testa una grossa cosa in versi, mi attira già da molto tempo, per scriverla mi serve la
pace, cioè TUTTA una persona — oppure il mio abituale vuoto.” (CVETAEVA M., Lettera a
A. V. Bachrach del 28 agosto 1923, in Il paese dell’anima, Adelphi, Milano, 1996; pag. 215.)
L’ispirazione artistica nella quale maturava il progetto delle tragedie, veniva, in quel periodo, a
coincidere con uno stato d’animo particolare, causato dalla prossima partenza da Mokropsy
verso Praga: “Oggi mi trovo ad un crocevia interiore (ma anche esteriore!), un anno della mia
vita — nel bosco, con le poesie, con gli alberi, senza le persone — è finito. Sono alla vigilia di
una città grande e nuova (forse — di un nuovo grande dolore?!” (CVETAEVA M., Ibidem)
28) “E’ triste, ma in un certo modo usuale nel destino cvetaeviano, che i critici émigrés abbiano
passato sotto silenzio la pubblicazione della splendida Arianna, mentre criticarono con feroce
veemenza Fedra. V. Chodasevic e G. Adamovic […] furono concordi nel condannare questa
tragedia. Chodasevic parlò di un’«imperdonabile e inelegante mescolanza di stili», e Adamovic
osservò che Fedra era «urlata e strillata, non scritta». V. Veidlé lamentò una «totale mancanza
di sensibilità per le parole in quanto logos responsabile e significativo». Da Berlino V. Nabokov
accusò la Cvetaeva di «divertirsi con inintellegibili orditure di rime» e affermò che Fedra
provocava soltanto «stupore e una forte emicrania». Dinanzi al muro di ostilità della critica, la
Cvetaeva abbandonò il proposito di completare la trilogia: Elena, il terzo dramma del ciclo
progettato, non fu mai scritto.” (KARLINSKI S., Marina Cvetaeva, cit.; pag. 219)
29) SAAKJANC A., in Teatr, cit.; pag. 370.
30) Cfr. SAAKJANC A., Ivi; pag. 372.
31) SAAKJANC A., Ivi, pag. 375.
32) “Il piano, nonostante la frammentarietà di certe annotazioni, si presenta come un tipico esempio,
acuto ed intenso, di prosa cvetaviana. Il poeta cerca, discute con se stesso, sceglie fra alcune la
possibilità unica, indispensabile. Per la Cvetaeva è così essenziale l’attendibilità psicologica dei
personaggi che si appresta a creare, da caricare di enorme importanza anche tutto ciò che
costituisce soltanto la preistoria degli avvenimenti in questione e che non deve confluire nella
Fedra.” (SAAKJANC A., Ivi; pag. 375 – 376)
33) SAAKIANC A., Ivi, pag. 377.
34) Cfr, Ivi, pag. 379.
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PRIMO CAPITOLO
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ξ I CORI
Il primo quadro della tragedia Arianna si svolge sulla piazza del Palazzo di Atene, alle prime
luci dell’alba (1). La scena si apre con le parole del Messaggero che passa attraverso la piazza,
declamando il suo annuncio di morte:
“Si alzi chi non ha dormito!
Si alzi chi, come un’anima errante,
Gli occhi non ha chiuso!
Alzatevi, è giunto
Il giorno del pianto!” (vv.1-5)
“Alzatevi. La fune
E’ tesa.” (vv. 14 – 15)
Già è pronta per salpare la nave che dovrà condurre a Creta le insonni vittime predestinate al
Minotauro (2): le “sette stelle mattutine” (v. 6) e i “ sette valorosi leoncini” (v. 11), le sette vergini e
i sette fanciulli che partiranno alla volta del sacrificio.(3)
Il messaggero esce dalla piazza senza interrompere il suo lamento doloroso.
Alcuni tra i personaggi che agiscono sulla scena delle tragedie di Marina Cvetaeva, rinviano
ad analoghi soggetti della tradizione classica. La figura del messaggero, ad esempio, ricorre assai
frequentemente negli intrecci inscenati nelle tragedie antiche, rivestendo un ruolo di grande
importanza per lo sviluppo della trama drammatica, giacché al messo è sovente affidato il compito
di rendere noti avvenimenti centrali, speso calamitosi. Nell’Antigone di Sofocle, ad esempio, il
messaggero reca ad Euridice, sposa di Creonte, la terribile notizia del disperato suicidio d’amore del
figlio Emone. In seguito lo stesso nunzio entrerà di nuovo in scena per annunciare a Creonte il
suicidio della moglie Euridice, anch’essa trafittasi con la spada, impossibilitata a condurre
un’esistenza ormai privata dell’affetto più caro. Anche nell’Edipo re, sarà il primo nunzio,
proveniente da Corinto, a portare la notizia della morte di Polibio, falso padre dell’ignaro Edipo. Il
messaggio infausto recato dal messo assumerà il valore di evento centrale, dal quale prenderà forma
l’oscura vicenda narrata nella tragedia. E ancora nell’Edipo re, un secondo nunzio (probabilmente
un exànghelos, un messaggero deputato a riferire ciò che accade all’interno del palazzo) entrerà in
scena per rendere nota la morte della regina Giocasta e il delirante gesto di Edipo il quale, ormai
scoperto l’intreccio fatale della sua vita, si è tolto per sempre la vista con le proprie mani.
Il messaggero, quale portatore di notizie funeste, è il personaggio che solitamente collega una
profezia, enunciata in precedenza, con l’effettivo accadere dei fatti profetizzati durante lo svolgersi
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della tragedia. Egli, dunque, è colui che nel portarsi appresso infelici e fatali parole di morte,
schiude dinanzi al pubblico le sconosciute, implacabili ed ineluttabili trame dei disegni divini.
E nella tragedia cvetaviana il messaggero, che ancora entrerà in scena nell’ultimo quadro (vv.
1660 – 1661 e vv. 1731 – 1767), verrà di nuovo destinato a ricoprire il ruolo di colui che emette
sentenze luttuose, che annuncia tristi notizie di sciagura.
Udite le parole del messo, interviene, stupito, un vecchio straniero (la didascalia iniziale lo
mostra semidisteso presso una cisterna):
“Che città è quella in cui di notte
Non i bimbi — le madri piangono!” (vv.24 – 25)
“Tu acquaiolo, dimmi, su
Questa città è davvero Atene?” (vv. 28 – 29)
Anche lo xenos si annovera tra le figure ricorrenti della scena greca. Spesso l’arrivo di uno
straniero in una città, costituisce il motivo per introdurre e spiegare fatti accaduti
precedentemente.
Il miserevole Edipo di Eschilo, ad esempio, giunto a Colono in compagnia della figlia
Antigone, narrerà agli abitanti del luogo il proprio destino sventurato, anticipando il futuro scontro
con Creonte ed i suoi uomini.
Così nell’Arianna cvetaviana, lo straniero, incredulo di fronte al triste aspetto di una città
tanto gloriosa, dubbioso dello zelo ateniese verso gli dei, fornisce il pretesto per indurre
l’acquaiolo a rassicurare prontamente che olio, sangue e incenso vengono offerti in abbondanza a
Poseidone (4), a Pallade e a tutti gli dei (5). L’acquaiolo, esortato appunto dalle parole dello
sconosciuto, ignaro delle vicissitudini trascorse, trae motivo per iniziare ad evocare l’antefatto,
ovvero la terribile disgrazia abbattutasi sulla città di Atene:
“Per il peccato del re Egeo
Fatale — un atroce castigo.” (vv. 41 – 42)
Il re Egeo, colpevole di aver lasciato che Androgeo morisse in terra ateniese, ha attirato sulla
sua città l’ira degli dei e del re cretese Minosse. Nel dar conto del peccato di Egeo, la Cvetaeva
riprende la versione del mito secondo la quale Androgeo, ospite ad Atene, venne ucciso da una
freccia, scagliata, probabilmente, dall’arco di un ateniese invidioso dell’abilità dello stesso
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Androgeo nelle gare sportive (6), evento per il quale il re Egeo deve considerarsi responsabile e
dunque patire la vendetta e l’ira degli dei.
Nel racconto dell’acquaiolo viene evocata la figura del giovane e saggio Androgeo, “caro
agli dei” (v. 52), “ardito come un leone” (v.51) (7), abile nella lotta e nelle competizioni sportive,
desiderato dalle fanciulle, trovato ucciso “nel rigoglio dei muscoli e degli incanti” (v. 59), con la
schiena trafitta da una freccia insolente: doppiamente tradito, quindi, sia perché ospite non
rispettato, sia perché colpito vilmente alle spalle.
Con l’aiuto degli dei (8), che scagliarono su Atene “febbri, furie, arsione, arsura” (v. 66) (9),
il re cretese Minosse si vendicò della terribile perdita subita, nè fu più clemente, verso lo sciagurato
popolo dell’Attica, la profezia che l’oracolo di Delfi proferì al re Egeo (10):
“Androgeo, gioia degli dei,
Aspetta un sacrificio, di sangue non è sazio.
Dalle bianche ripe di Atene
Alle rive della potente Creta
Che una nave muova. Carico
Della nave — sette vergini e
Sette giovani” (vv. 77 – 83)
Se in Plutarco l’oracolo aveva parlato solamente dell’auspicabile riconciliazione con
Minosse, cui spettò poi di decretare il prezzo della pace, il tributo indispensabile alla
riconciliazione, nell’opera russa, invece, Marina Cvetaeva, attribuendo all’oracolo la sentenza
decisiva sul sacrificio ateniese, mira ad evidenziare l’ineluttabilità del destino degli uomini davanti
agli dei.
L’acquaiolo segue la narrazione e nota come il tempo della vendetta, della punizione divina
si presenti con una significativa scansione: è infatti la terza volta, essendo trascorse otto primavere
(11), che la nave parte verso la morte.
La tensione e la paura della gente di Atene dinanzi alla inevitabilità della sciagura e della
morte, rese esplicite nel racconto dall’acquaiolo, trovano la loro materializzazione nei lamenti del
Coro, nella disperazione di coloro che saranno costretti a vivere il massacro in prima persona. La
narrazione dell’acquaiolo, di fatto, sembra costituire l’anticipazione oggettiva dei Cori,
l’introduzione generale all’avvento sulla scena del dolore personale, intimo, profondo, vissuto ed
espresso dai giovani e dalle fanciulle. La situazione della città e dei suoi abitanti, resa nota appunto
dalle parole dell’acquaiolo, acquista dunque il suo spessore tragico nell’intervento dei Cori, tutto il
dolore percepito, compreso attraverso il racconto fatto dallo straniero, si concretizza, diviene
realmente visibile e tangibile nell’apparizione delle vittime designate alla morte.