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Prigionieri dell’architettura
e conflitto, quelle nelle
quali lo scontro si è fatto
genetico.
Architettura e/o spazio
La semiotica, sia nella sua
“via”
1
strutturale che in quella
interpretativa, ha abbastanza
precocemente rivolto il suo
sguardo indagatore nella
direzione dell’architettura.
Quasi simmetricamente
l’architettura ha cercato nella
semiotica un possibile risposta
alla crisi del movimento
moderno. L’interesse
reciproco, scoccato al
valico della metà degli anni
sessanta, e trasformatosi poi
in solida relazione, perdurerà
fin verso la fine degli anni
’80, quando ad entrambi i
due amanti si presenteranno
nuove e più stimolanti
opportunità. L’informatica
per l’architettura e lo spazio
per la semiotica, o forse
sarebbe meglio dire per
la Sociosemiotica. In quei
due decenni di assidue
frequentazioni, molto è
Opportunità o Condanna?
Come quasi sempre accade
nel mondo dei proverbi, il
contesto rurale e agricolo
risulta essere il più prolifico
di immagini. Ce n’è uno che
si interroga, su chi abbia la
precedenza nella nascita
tra l’uovo e la gallina. Ora,
questo potrebbe benissimo
essere traslato nel panorama
linguistico e tradotto in
“è nato prima il linguaggio
o il mondo?”. Ovvero, il
linguaggio si è sviluppato
dalla percezione del mondo
come sua conseguenza, o
il linguaggio viene prima
e influenza la percezione
del mondo? Data la natura
insolubile del detto, e forse
anche dei problemi che
descrive, non vale tanto la
pena di cercare la leva per
far saltare la trappola, quanto
cercare gli ambiti in cui le due
categorie si trovano a più
stretto contatto. Conviene
indagare nelle zone di attrito
Prigionieri
dell’
Architettura
9
Prigionieri dell’architettura
del testo viene a sovrapporsi
al mondo, o meglio è il
mondo stesso che diviene
testo. Il nuovo mondo, di
là dal liquido passaggio
spazio-temporale, sarà per
gli esploratori-semiologi un
tutto significante, non più un
inerme e neutro riferimento.
La dimensione spaziale
è sicuramente quella
dimensionalmente più vasta
tra le tante indagate dalla
sociosemiotica. Per certi
versi la stessa semiotica dello
spazio e la sociosemiotica
coincidono. È infatti difficile
negare come ogni oggetto,
persona, azione, abbiano una
vita spaziale, e come ciascuna
di queste categorie influisca
nella determinazione della
qualità spaziale. È quindi
una semiotica, quella dello
spazio, sincretica
2
, ovvero
un complesso eterogeneo
di attività significanti, tutte
necessarie all’atto esegetico.
Ad aprire all’architettura
il varco della dimensione
spaziale, ci aveva già
provato Renato De Fusco
3
,
protagonista allora di
molti scambi di opinione
nella contesa linguistico–
architettonica, rimasto
sempre fedele alle posizioni
assunte negli anni d’oro
del rapporto semiotica-
architettura. Secondo De
Fusco, si coglie la particolare
unicità dell’architettura solo
se la si considera come
Raumgestaltung, ovvero come
conformazione spaziale,
stato prodotto sulla via
della ricerca di un definitivo
e convincente statuto
linguistico - scientifico da
affidare all’architettura. Ma
anche molto tempo è stato
speso in controversie sterili,
e con poche conseguenze
operative. La situazione si
è risolta in una maggior
convinzione della dimensione
linguistico - comunicativa,
non fosse altro che per il
numero di interventi che
la questione ha sollevato.
La mole dello scontro ha
però anche generato una
situazione di immobilismo,
e il conseguente abbandono
del campo di battaglia. Con
la stessa velocità con cui
si era saliti in corsa sulla
carrozza della semiotica, sul
treno che sembrava poter
risolvere e svelare molti
intoppi della nostra cultura,
la si è abbandonata al primo
sentore di una variazione
nel percorso: non si doveva
passare più per l’architettura
ma per lo spazio. La necessità
di allargare il proprio
sguardo avviene sulla base
della constatazione che
l’architettura non riesce da
sola a completare pienamente
il piano dell’espressione,
ovvero l’architettura non
sembra più essere l’unica e la
sola a determinare un certo
contenuto spaziale.
Attraverso lo stargate della
sociosemiotica, che raccoglie
il potenziale non a caso
“generativo” della lezione di
A.J. Greimas, la dimensione
10
Prigionieri dell’architettura
Lungo il percorso tante volte
compiuto da filosofi, semiologi,
architetti, che dal linguaggio
porta al mondo, alla realtà,
c’è una stazione intermedia
chiamata percezione, cerniera
rispetto alla quale ruotano
le generose orbite delle
due precedenti categorie.
La percezione può essere
considerata a tutti gli affetti
un medium, uno strumento, un
mezzo, per conoscere il mondo
e/o per capire come funziona il
linguaggio. L’insolubile rapporto
linguaggio-mondo può quindi
essere riconvertito, rianimato,
in uno slancio metonimico,
nel binomio linguaggio-
percezione.
Se per molte forme di linguaggio,
all’approccio pragmatico,
inteso nella concezione
Morrissiana
5
come indagine
sul rapporto tra linguaggio e
realtà in cui è inserito, è stato
spesso preferito un approccio
interno e autoreferenziale,
per lo spazio non sembra
possibile procedere in
questa direzione. L’approccio
strutturale, infatti, seziona con
una lama sincronica qualsiasi
tipo di linguaggio e cerca
all’interno di questa sezione
le motivazioni di se stessa.
Per il caso della spazialità
questo tipo di indagine
rischia di non affrontare la
dimensione dell’interazione,
dell’autoinflenza, che è
fondamentale se non
determinante nel rapporto
spazio-persona. L’ulteriore
rischio nel quale si può
incorrere nell’adottare una
sta nel riuscire a fermarsi,
nel darsi un limite nel
processo di allargamento
che dall’architettura porta
a considerare ogni entità
esistente o relazionale a
quello spazio.
La via del sincretismo,
spoglia ovviamente,
l’architettura dell’unicità nella
determinazione semantica
dello spazio, la costringe
a riflettere sulla sua reale
capacità conformativa, e
sulla efficacia della propria
missione. La detronizzazione
non avviene però con la
promessa-minaccia di non
potervi mai più salire, ma con
la convinzione che a volte la
stessa architettura sopra quel
trono non ci volesse stare. La
via del sincretismo affianca
all’architettura gli oggetti
che la riempiono, le persone
che la “abitano”, le relazioni
che vi si sviluppano, le azioni
che vi si concretizzano, le
parole che la “parlano”,
e tutti gli strumenti che
la rappresentano, in un
processo potenzialmente
infinito.
Il ruolo dell’architettura
quindi, si sgretola nella sua
certezza, diviene mutevole,
alla mercè dell’interpretante,
del progettante, e di tutto ciò
che la circonda, la riempie, la
usa. Diviene incontrollato, e
incontrollabile, almeno per
chi ha mire assolutiste.
Comprendere lo spazio
come (mass) medium
per la creazione di spazio,
quest’ultimo considerato
come il contenuto del
messaggio. L’ostacolo contro
cui quasi volontariamente si
blocca questo percorso è
quello di non considerare,
l’altro, ciò che, nonostante
sia al di fuori dell’architettura,
ha comunque una notevole
influenza spaziale. L’errore
compiuto da De Fusco è
considerare l’architettura nel
suo desolante isolamento.
Il ruolo architettura
Cosa rimane allora
all’architettura? Quale ruolo
nel complesso caotico
chiamato spazio? Semplice
necessità, sfondo per
indipendenti azioni possibili,
o ancora ruolo di esercente
strutturante, di prima
donna nell’artificialità della
questione quotidiana?
Il concetto semiotico di
spazio, è una dimensione
collettiva, affollata, in cui
chiunque ha un proprio
ruolo, un proprio peso, una
propria influenza. È una
sorta di contenitore infinito,
rispetto al quale ogni parte
influisce sul tutto. L’attività
dell’interpretante, o del
progettante sta quindi nel
selezionare gli strumenti più
adatti in funzione dello scopo
prepostosi. Come infatti dice
Mannar Hammad
4
, l’aspetto
più difficile all’atto d’innesco
dell’attività di analisi spaziale
11
Prigionieri dell’architettura
creatore. Come se la sua
categoria avesse goduto di un
maggiore livello di “immagine
e somiglianza” al creatore
dei creatori, di quella lasciata
agli altri viventi. Più che nella
capacità di creare, rispetto alla
quale si potrebbero riservare
molti dubbi, sta nella possibilità
di essere stato creato, e quindi
di essere nato, l’origine di
ogni esperienza e quindi
consapevolezza spaziale.
All’atto della nascita, infatti,
si ha la prima esperienza di
contrasto spaziale, quella del
passaggio interno/esterno.
Questo binomio sarà così
intimo sia nella percezione
che nella costruzione
spaziale che ancora oggi
ci si meraviglia della sua
fecondità. Rimanendo sempre
all’interno dell’immagine della
nascita, dobbiamo pensare
il nostro rapportarsi con ciò
che ci circonda in maniera
plurisensoriale, e non solo come
saremmo portati dall’abitudine
a fare in maniera visiva. La
posizione dominante che la
vista si è guadagnata, non è
infatti sufficiente, non ricopre
esaustivamente la possibilità
della percezione spaziale.
La morfo-fisiologia del
corpo umano fornisce poi
altre tre coppie di categorie
d’interpretazione spaziale
ovvero: davanti/dietro, sopra/
sotto, destra/sinistra. Basta
pensare alla struttura eretta e
alla posizione di occhi, bocca
e orecchie, ovvero le principali
struttura percettive, per capire
come l’interpretazione spaziale
lo spazio, anche perché
comprendere se stessi vuole
dire comprendersi nel mondo,
e quindi comprendere il mondo.
Questa soggettiva precedenza
comporta che il successivo
incontro con lo spazio - mondo,
esterno, fuori dal proprio corpo
risentirà inevitabilmente delle
categorie con cui ci si è auto
interpretati. Avviene quindi una
sorta di riflessione, lo spazio si
specchia nel corpo per trovare
la propria consistenza, e il
corpo si proietta ad libitum
come misuratore e creatore
del circostante.
Finora si è trattato il soggetto
e il corpo come un’unica
indistinta entità, come se la
loro coincidenza non fosse
che assolutamente naturale.
In realtà questa posizione ha
delle conseguenze per nulla
neutre, infatti, mentre da un
lato la posizione soggettiva
può essere superata attraverso
un debrayage spaziale, uno
spostamento prospettico del
soggetto dalla prima alla
terza persona, in favore di una
visione oggettivizata; dall’altro
la dipendenza corporea
dell’interpretazione spaziale
può evolversi ma mai negarsi,
in quanto il corpo fornisce la
strumentazione basilare e
necessaria per la vita nello
spazio.
Uno dei motivi di vanto che
hanno accompagnato la
figura dell’architetto fino ad
oggi è stato quello di potersi
paragonare, almeno a livello
qualitativo, alla figura del
visione interna, autoriflettente,
è quello di non considerare
l’influenza del medium, che
invece come ricorda Marshall
Mac Luhan è il messaggio.
Bisogna quindi compiere una
fuga dal carcere di massima
sicurezza quale è la logica
“strutturale”, per poter
comprendere sia come la
percezione influisce in maniera
costitutiva su molte delle
nostre categorie linguistiche,
ma anche come il linguaggio
rappresenti e costruisca lo
spazio.
Una possibile condizione
iniziale per questa indagine
potrebbe vedere noi, esseri
umani esploratori, soggetti,
inseriti in una situazione
spaziale: l’oggetto da
esplorare. Il pendolarismo
tra la dimensione soggettiva
e quella oggettivizzata,
esprime proprio la tensione
basilare dell’esperienza
spaziale. L’essere partiti da
una situazione di soggettiva
immersione spaziale,
consente un duplice sviluppo,
da un lato la dimensione del
soggetto come corpo e come
misuratore dello spazio, una
condizione di egemonico e
corporeo umanesimo, dall’altro
identifica la prima categoria
organizzatrice dello spazio:
dentro/fuori. “Comprendere
se stessi per comprendere il
mondo” potrebbe benissimo
essere il titolo di una delle
tante pubblicazioni di filosofia
alternativa, ma in realtà è
la prima condizione, quella
necessaria per affrontare
12
Prigionieri dell’architettura
è la temporalizzazione dello
spazio, la dimostrazione
quotidiana della relatività
Einsteiniana. Senza questa
dimensione lo spazio non si
darebbe come opposizione
binomiale di categorie.
Il movimento diviene
cambiamento, possibilità,
scoperta. Il peregrinare diviene
esperienza, e quindi ritorna
spazio, percezione.
Movimento come valore e
progettualità, è invece la
condizione di esistenza in sé
del movimento, la condizione
di piena realizzazione del
soggetto, la sua motivazione
autoreferenziale.
Parlare di spazio senza
considerare li movimento,
è costringersi quindi in
un’astrazione fin troppo
soffocante, è non considerare
la sua radice primaria e
le potenzialità che può
esprimere.
Se poi ci si limitasse alle
quattro precedenti categorie,
potrebbe sembrare che lo
spazio almeno nella sua
comprensione germinale
sia solo una dimensione
quantitativa. Ovviamente la
nostra esperienza ci dice che
così non è, ma che anzi, talvolta
è la dimensione qualitativo
- valoriale quella che ha un
maggiore rilievo. Attraverso la
categoria timica (ovvero quello
strumento semiotico che
tiene conto dell’investimento
assorba dalla percezione i
suoi tratti basilari. Per capire
l’influenza che la nostra
morfologia corporea, attraverso
la proiezione percettiva, ha
sulla comprensione dello
spazio, basta pensare a come
si riversi sugli oggetti d’uso la
stessa triplice direzionalità del
nostro corpo. Considerando un
generico schermo, chiunque di
noi sarebbe portato a dire che
esso è dotato di un davanti,
lì dove le immagini vengono
riprodotte e quindi rese a noi
percepibili, di un dietro, esatto
opposto del precedente, e di
una parte alta/bassa nonché
di una sinistra/destra. Avviene
una sorta di riflessione
simmetrica dell’ordinamento
spaziale. Il nostro corpo, la
sua misura, la sua morfologia
investono il circostante, lo
rendono a sua immagine e
funzionamento, fa dello spazio
circostante la sua continua
simmetrica rappresentazione.
Le tre coppie davanti/dietro,
alto/basso, destra/sinistra, più
che descrivere delle dimensioni,
esprimono una direzionalità, un
orientamento, sono vettori di
movimento. Fino ad adesso si
è, infatti, considerato il corpo e
lo spazio, in una condizione più
che statica. La realtà invece è
piuttosto l’esatto contrario, non
c’è sensazione, né percezione
spaziale che non sia legata a
una condizione di movimento.
Movimento, come cinestesia, è
la regola imprescindibile per il
superameno di una condizione,
13
Prigionieri dell’architettura
l’equivalente categoria logica.
Non solo, quest’ultima senza
un corrispondente riferimento
perde di ogni valore. Il
camminare sotto un portico
cittadino, spesso fornisce
una sensazione di spazio
interno, ma a livello logico se
prendiamo come riferimento
l’edifico, noi ci troviamo in un
esterno. Se poi cambiamo il
riferimento e lo trasformiamo
nell’aggregato urbano, ci
troviamo ovviamente in una
posizione interna.
Ovviamente si potrà
obiettare che la costruzione
a contrapposizioni binomiali è
fin troppo coerente per poter
essere vera. Fin dalle origini
della cultura occidentale,
almeno quella greca di nascita,
questo tipo di organizzazione
a coppie è stata spesso
utilizzata nella descrizione
del funzionamento del mondo.
Difficile dire quale sia il reale
rapporto di causa/effetto.
È però sicuramente
all’interno o, a partire da
questa quadridimensionalità
binomiale e valoriale, che lo
spazio diviene irriducibilmente
cultura, che nasce quindi
l’architettura.
Liberamente tratto da:
P . Violi, “Linguaggio, percezione,
esperienza: il caso della
spazialità”, in Versus n°
59/60
di valore, e che lo organizza
nel binomio euforia/disforia),
si investono i precedenti
binomi della loro potenzialità
valoriali, li si spoglia della
presunta neutralità. Molte
delle caratterizzazioni timiche
sono motivate da esperienze
percettive, ciò che si trova
davanti è positivo mentre ciò
che si trova dietro è negativo,
per il semplice fatto che
gli occhi, principale organo
percettivo, e la bocca principale
organo comunicativo, si
trovano in posizione frontale
nel nostro corpo. Nella
grande maggioranza dei casi
l’investimento valoriale avviene
in base a suggestioni culturali,
e quindi solo minimamente in
relazione con la percezione.
Tutte queste categorie di
prima comprensione spaziale,
proprio perché le prime,
possono sembrare non
evidenti, assopite, celate dal
loro quotidiano uso. Possono
sembrare anche semplici
categorie logiche, dedotte,
astratte dalla concezione
oggettivata dello spazio, più
che categorie percettive che
quello spazio oggettivato
hanno contribuito a crearlo.
La contrapposizione interno/
esterno è forse una delle più
usate nella descrizione dello
spazio, ed è anche forse la più
utile per capire le differenze
tra percezione e costruzione
logica. La sensazione di
un interno o di un esterno,
sintesi della pluriricettività
sensoriale del nostro corpo
spesso non coincide con
14
Prigionieri dell’architettura
spalle le sbarre come un
brutto e lontano ricordo.
Oppure può essere esplorata,
si può cercare di raccogliere
informazioni sull’istituto
carcerario, capirne le sue
logiche e suoi punti deboli,
i suoi rituali e la sua attività;
non solo per tentare una
fuga, ma anche per capire
perché ci si è finiti dentro e
per quali colpe.
Questa indagine fu iniziata,
tra la metà degli anni ’60 e la
fine dei ’70, da un gruppo di
esperti di diversa estrazione:
filosofico-semiologica,
architettonica-filosofica,
storico-artistica; dando
origine a un interessante
dibattito libresco. I nomi di
coloro che se ne occuparono
(Eco, De Fusco, Koenig,
Jencks & Baird, Scalvini,
Dorfles) rimangono ancora
oggi gli unici risultati in una
ricerca che ponga la parola
comunicazione a fianco del
termine architettura, segno
di come importante fu la
ricerca di quel periodo, e
di come bruscamente sia
terminato. In quegli anni
si tentò di adeguare la
categorizzazione semiotica in
livelli sistemici gerarchici alla
dimensione architettonica,
andando incontro ad uno
scottante fallimento. Questo
avvenne perché troppo
facilmente si tentò di lasciare
la dimensione logica per
trovare una corrispondenza
reale, biunivoca e costante
tra il sistema semiotico-
linguistico verbale e quello
quali possono essere le sue
capacità e forse finalità.
Chiunque abbia frequentato
anche per poco tempo o in
maniera saltuaria i banchi di
un’aula universitaria di una
facoltà di architettura, si sarà
di certo imbattuto in una
delle più usate e abusate
introduzioni alla disciplina.
Questa introduzione-
legittimazione cerca di
dimostrare la giustezza
e la necessità dell’azione
architettonica partendo
dall’inevitabile necessità
quotidiana di qualsivoglia
forma di architettura.
Tralasciando commenti
sulla inevitabile tautologia,
di un’affermazione che
trova la giustificazione di
una presenza nella presenza
stessa, ciò che può spaventare,
dopo l’entusiasmo iniziale
provocato dal sentirsi
partecipi di una casta di
uomini così utili alla società,
è stata la connotazione
d’inevitabilità che il rapporto
con l’architettura aveva.
Eravamo e saremmo stati tutti
prigionieri dell’architettura;
che lo volessimo o no,
essa ci avrebbe avvolti
tutti comunque, avrebbe
influenzato le nostre vite,
avrebbe condizionato la
nostra esistenza. La reclusione
in questa condizione di
prigionia involontaria, spesso
non percepita, può essere
vissuta in regime di assoluta
“buona condotta”, nella
speranza di una liberazione
anticipata, che si lasci alle
Significare l’architettura
La fisica spiega che al di là delle
forme concrete, evidenti di
energia, esistono delle forme
che vengono chiamate
potenziali, che esprimono
la capacità, la possibilità
inespressa. Queste forme di
energia sono delle sorti di
cellule silenti, per dirla in un
gergo terroristico-poliziesco,
strutture sempre pronte
all’azione, nel caso in cui si
verifichino le circostanze della
necessità. Si potrebbe usare
questa distinzione fisico-
scientifica per descrivere il
rapporto tra significazione
e comunicazione.
Immaginando un’ipotetica
centrale idroelettrica,
potremmo dire che l’acqua
che scorre e che con la sua
massa cinetica costringe
al movimento la turbina,
generando poi energia
elettrica, è la comunicazione,
e che invece la significazione
non è altro che il bacino a
monte. Quieto, trascorre
il tempo aspettando dalla
sua altezza di trasformarsi
in potenza creatrice. La
necessità dell’una rispetto
all’altro è evidente, senza
comunicazione noi non
potremmo conoscere la
significazione, ma senza
quest’ultima non ci sarebbe
la prima. Interrogarsi sulla
produzione di significato
da parte di una massa di
cemento, acciaio, e vetro,
vuole dire prima di ogni altro
aspetto, interrogarsi sulla sua
dimensione potenziale, su
15
Prigionieri dell’architettura
calata ad un pubblico che
adopera questa dimensione,
la usa, ne ricava messaggi,
potendo partecipare alla sua
elaborazione solo in maniera
indiretta.
Rimanendo nella
s c h e m a t i z z a z i o n e
De Fuschiana
9
, in cui
si contrappongono
conformazione e
rappresentazione, ciò che
riesce più difficile accettare
non è il perché di questo
tipo di discriminante,
quando il vederlo
applicato in maniera quasi
automatica alla dimensione
architettonica nelle sue
componenti esterno/interno.
Le equazioni
Interno
=
Spazio
=
Conformazione
Esterno
=
Superfice
=
Rappresentazione
sebbene forniscano una
soluzione affascinante nella
sua sistematica semplicità
non rendono merito delle
possibilità che invece
l’architettura si riserva. È
facile infatti trovare facciate
che abbiano maggior valore
conformativo piuttosto che
rappresentativo, o interni la
cui componente spaziale sia
di poco conto se confrontata
con la carica simbolica o
secondo la prevalenza, o
dell’aspetto conformativo, o
di quello rappresentativo. In
questo modo l’architettura
finisce per vedere legittimata
la propria autonomia da
pittura o scultura proprio
per il prevalere della
dimensione conformativa,
della capacità cioè di
presentarsi come forma
spaziale, e specularmente di
dare forma al circostante.
Ovviamente, come è solito,
il mondo dell’arte è fatto
più di eccezioni che di
rispetto delle regole e la
classificazione diviene più
terreno di spostamenti e
affinità, che rigido contenitore
a compartimenti stagni.
Leggendo in maniera laterale il
concetto di “conformazione”,
si può ritrovare strisciante
il fondamento fascinoso
della legittimazione della
disciplina, da tanti utilizzato.
In un’ottica per così dire
tecnico-urbanistico o
giuridica-legislativa, infatti, il
concetto di “conformazione”
più che condizione formale
autosufficiente, diviene
sintesi di un atteggiamento a
proposizione vincolante, atto
a regolare le conseguenze, a
discriminare “forme” di agire.
L’architettura può quindi
essere vista come un’azione
persuasiva con diversi gradi di
coercitività, un suggerimento
dal sapore regolamentario,
attuata da coloro che
possiedono il codice di
questa “logotecnica”, come
avrebbe detto Barthes
8
,
costituente architettonico.
Se la struttura semiotica
verbale, sia per il piano
dell’espressione che per
quello del contenuto, con
la ricerca e formulazione
di entità minime che
componendosi per
sommatoria combinatoria
danno origine a strutture
complesse, è nel suo rigore,
autosufficiente, la realtà
operativa mostra ambiguità
e possibilità laterali che
impongono flessibilità ed
elasticità nell’applicare
gli schemi. La fallacia
nell’applicazione, mai neutra,
dello schema linguistico
verbale risiede anche
nel volersi concentrare
maggiormente sulle analogie
con la lingua piuttosto che sulle
differenze. La sottomissione
Barthesiana
6
di ogni forma
di linguaggio alla condizione
verbale e alle sue strutture
semiotiche, condannò la
semiotica architettonica ad
un gioco traduttivo, svuotato
di contenuti e strumentalità
progettuali.
Nonostante l’oblio seguito al
naufragio dei molti tentativi
di conciliare la semiotica-
linguistica alla condizione
architettonica, alcune
strumenti allora formulati si
dimostrano ancora ricchi di
potenzialità inesplorate.
Nella strutturazione
classificatoria proposta da De
Fusco
7
, il mondo multicolore
dell’espressione artistica
può essere discriminato
16
Prigionieri dell’architettura
che meglio rendono l’immagine della complessità della
circostanza architettonica contemporanea
Metaforizzando e generalizzando si può pensare all’architettura
come a un campo di forze, come cioè qualcosa che propaga
la propria presenza nella dimensione spazio-temporale
circostante, come un modificatore multilivello dalla concretezza
sfuggente, capace di conformare, conformarsi, rappresentare
e rappresentarsi. La dimensione materiale, concreta, materica
per l’architettura è sicuramente fuori discussione, ma diventa
presupposto, più che finalità. Quello che rimane spesso
sconosciuto, più difficile da decifrare, è quali delle sue parti,
delle sue facce, sia quella determinante nel produrre il
cambiamento e di che qualità sia questo cambiamento. Per
entrambe la risposta risiede più nel motivo della ricerca che
nell’oggetto architettonico in se.
Heisenberg e l’architettura
Nel 1927 il fisico tedesco dimostrò come l’osservazione di
un fenomeno modifichi il fenomeno stesso, e come quindi
l’indeterminazione non fosse solo una spiacevole ed eventuale
negativa conseguenza, ma piuttosto una condizione connaturata
e genetica ai fenomeni fisici e agli strumenti che li decrivono.
Nonostante la fisica quantistica e l’architettura siano discipline
metaforica. Ripensate, quindi, le due equazioni si trasformano
in una matrice di possibilità,
Interno
Spazio
Conformazione
Esterno
Esterno
conformazione
Esterno
spazio
Rappresentazione
spazio
Rappresentazione
interno
Superfice
interno
Superfice
conformazione
Superfice
Rappresentazione
17
Prigionieri dell’architettura
Aureli, Gabriele Mastrigli,
e l’intramontabile Peter
Eisenman, dall’altra gli
ETERONOMISTI raccolti
attorno al sempreverde
Koolhaas, alla rivista “Volume”
e al suo grido “to beyond or
not to be”, raccolti intorno
Aaron Betsky e alla sua
biennale 2008 “Architecture
beyond building”. Data la
mole, spesso le prove fornite
da entrambe le parti in causa
coincidono o differiscono
solo per sottili interpretazioni.
Ciò ha costretto l’azione di
adesione a una delle due
sponde a un atto di vera e
propria fede, dove è meglio
non chiedersi il perché
ma seguire le personali e
spontanee inclinazioni.
Tradotta in ambito
linguistico-comunicativo
la situazione equivale a
chiedersi se il messaggio
architettonico significhi
qualcos’altro all’architettura
o se sia prevalentemente
architettonico. L’architettura
come tutte le discipline
umane non è un fenomeno
naturale e in quanto
tale deve costruirsi delle
proprie regole per poter
sopravvivere. Queste regole
in prima istanza vengono
mutuate da fenomeni
percepibili per divenire
autosufficienti e ritagliarsi una
certa autonomia disciplinare.
È quindi indubbio che molti
dei messaggi architettonici
siano per così interni, ed
è forse anche per questo
che molto spesso si hanno
non vuol dire che non
possano essere fissati dei
limiti, che dividano il mondo
dell’interpretazione da quello
della sovrainterpretazione, il
mondo della decostruzione
strumentale del significato.
Autonomia o eteronomia,
inside or beyond
Una volta determinato
il limite quantitativo del
messaggio architettonico
non rimane che chiedersi
la qualità di questo. La
domanda potrebbe
sembrare superflua, per chi si
accontenti di risolverla nella
limitata infinitezza esposta
poco prima. In realtà più
che lo specifico valore del
singolo significato assorbibile
da un oggetto architettonico,
che come mostrato ricalca
la totalità dello scibile, è
più interessante cercare di
scoprire la sua natura, dal
momento che il novero
delle possibilità sembra
ricalcare in pieno uno di
quelle questioni di “fede”
della disciplina. Autonomia
ed eteronomia sono per le
architetture contemporanee
gli estremi di una traiettoria
su cui spostare il proprio
baricentro. A difendere
queste due posizioni
esistono veri e propri
partiti che non mancano di
supportare la propria fazione
con quantità di riferimenti,
esempio e deduzioni. Da
un lato gli AUTONOMISTI
come i giovani Pier Vittorio
distanti nei loro ambiti
di ricerca, il principio di
indeterminazione le avvicina.
Che lo si definisca sincretico,
come fa Hammad
10
, o
complesso e contraddittorio,
come fa R. Venturi
11
, un
oggetto architettonico
rimane sempre una
dimensione troppo vasta
per essere unitariamente e
esaustivamente compreso
e spiegato. L’apertura che
Eco professava
12
, trova
nell’architettura la sua più
degna dimostrazione e
determina la vittoria del Post
moderno.
Legami stilistici, influenze
politiche, sviluppi tecnologici,
cambiamenti climatici,
perversioni estetiche,
contingenze economiche,
ingerenze religiose, riscontri
chimico-biologici, sono tutti
possibili significati, determinati
più dalla necessità della
ricerca che dalla natura
dell’architettura. Con questo
non si vuole affermare
che ogni interpretazione
sia plausibile, non si vuole
cadere cioè nella fossa del
“tutto è possibile”, luogo in
cui tutto non più ha senso,
ma dimostrare come il
sistema interpretativo sia
potenzialmente senza fine e
dotato di limiti senza i quali la
ricerca stessa si dissolverebbe
nell’inutilità. Sempre Eco
sostiene in “Interpretazione
e sovrainterpretazione”
13
che
nonostante il processo di
semiosi si debba giustamente
considerare infinto, questo
18
Prigionieri dell’architettura
notevoli difficoltà, da parte
di un pubblico non esperto,
a comprendere le esigenze
celate dietro un oggetto
architettonico. Senza la spinta
autonomista, senza cioè la
capacità di approfondire ed
eventualmente stressare
gli strumenti acquisiti,
sarebbe impossibile qualsiasi
specificazione speculativa.
D’altro canto però,
costringersi in un proprio
codice chiuso, come diceva
Eco
14
, conduce all’asfissia,
impedendo ogni forma di
innovazione, chiudendosi
in un linguaggio che parla
solo a se stesso divenendo
estraneo a coloro per i
quali è stato creato. L’azione
eteronoma, la capacità di
guardare oltre le barriere del
proprio mondo per assorbire
esperienze extra-disciplinari,
è il rimboccare necessario
della fonte al fiume che
altrimenti rischierebbe di
esaurirsi nella divisione in
rivoli sempre più sottili.
Consente alla disciplina
un contatto con il mondo,
l’evasione da posizioni di
eremitico compiacimento.
La dinamica architettonica
è di tipo ondulatorio, si
muove tra due poli opposti
che più che attrarsi tendono
ad allontanarsi, lasciando
sempre più spazio per le
sfumature intermedie.
NOTE
1 S. Traini, “Le due vie della semiotica” , Bompiani, Milano, 2006
2 M. Hammad, “Leggere lo spazio, comprendere l’architettura.” , Meltemi,
Roma, 2003
3 R. De Fusco, “Segni, storia e progetto dell’ architettura” , Laterza, Roma,
1989
R. De Fusco,” Architettura come mass-medium” , Dedalo, Roma, 2005
4 Op. cit.
5 C. W. Morris, “Segni, linguaggio e comportamento” , Longanesi, Milano,
1949
6 R. Barthes, “Elementi di semiologia” , Einaudi, Torino, 1966
7
R. De Fusco, “Segni, storia e progetto dell’ architettura” , Laterza, Roma,
1989
8 Op. cit.
9
R. De Fusco,” Architettura come mass-medium” , Dedalo, Roma, 2005
10 Op. cit.
11 R. Venturi, “Complexity and contradiction in architecture” , The museum
of modern art, New York, 1966
12 U.Eco, “Opera aperta” , Bompiani, Milano, 1962
13 U. Eco, “Interpretazione e sovrainterpretazione” , Bompiani, Milano,
1995
14 U. Eco, “Le forme del contenuto” , Bompiani, Milano, 1971
L’impero
d e l l a
vista
icone
abbia esaustivamente avvertito delle
difficoltà filosofiche soggiacenti a
questa tripartizione, la popolarità
che continua ad avere, forse perché
– sostiene lo stesso Eco - sembra
soddisfare, meglio che altre categorie,
il senso comune, spiega di per sé
l’interesse per l’ icona. Tecnicamente
un segno iconico è tale se conserva
Icone, Icone, Icone
U
no_Tra le molte classificazioni che Charles Sanders
Pierce, co-fondatore della semiotica moderna con
Ferdinand de Sassure, ci ha offerto del segno, quella che
ha avuto maggior successo, anche al di fuori dello stretto
ambito disciplinare, discrimina i segni in funzione del tipo
di legame presunto con il referente. Indice, icona e simbolo
sono i tre possibili rapporti potenziali. Nonostante Eco
1
20
icone
informatico a interfaccia grafica, per
la navigazione nel sistema operativo,
per il lancio di programmi, per l’uso
della funzionalità dei programmi
stessi. Le icone hanno caratteristiche
anche molto diverse, alcune sono
propriamente icone, intese in
termini semiotici, ovvero con un
rapporto di analogia grafica con il
comando e l’azione collegata, altre
invece sono maggiormente basate
su una convenzionalità simbolica.
Tutte ormai sono accompagnate da
un’inscrizione verbale, se non sono
state completamente sostituite da
lettere. Nelle ultime due edizione del
pacchetto di programmi di grafica
digitale l’Adobe™ ha scelto, come
icona, le sole iniziali dei programmi
che presentandosi su campo
colorato, hanno sostituto qualsiasi
forma analogica, spostando la
referenzialità direttamente al nome,
e alla fama che si è creata negli anni.
L’ icona oggi è, grazie alla traduzione
informatica, il simbolo dell’operatività,
della navigazione e della capacità
riassuntiva.
Ghery e la retroattvità
N
el 1997, nel nord della Spagna,
precisamente a Bilbao, Paesi
Baschi, viene completato l’edificio
che diverrà il più grande successo
e quindi eterna giustificazione del
risanamento economico a suon di
edifici-icone. La città versava ormai
da anni nelle tipiche difficoltà della
riconversione post-industriale e
decise di capitalizzare lo sforzo di
trasformazione urbana attraverso
la costruzione di un museo di arte
contemporanea da affidare ad una
firma dello StarSystem architettonico.
Il museo doveva essere elemento
di riconoscibilità e di attrazione
internazionale. Il Guggenheim
una somiglianza con il referente, se cioè alcune sue
proprietà corrispondono a quelle dell’oggetto. Fotografie,
disegni, diagrammi, formule logiche e immagini mentali
sono tutte icone. Ciò che le caratterizza è la “somiglianza” ,
che essendo una dimensione misurabile dà luogo a una
sottoclassificazione in immagini, diagrammi, e metafore. Le
prime hanno una somiglianza evidente alla vista, i secondi
riproducono le relazioni, le terze hanno un legame più
labile e convenzionale divenendo elemento di confine con
i “simboli” . Nonostante quella dell’icona possa sembrare una
condizione naturale, o quanto meno, tra le tre, quella che più
si avvicina, data la “somiglianza” , allo stato delle cose, quella
cioè meno segnata da deviazioni culturali, essa necessita
in realtà di almeno tre condizioni vincolanti: la possibilità di
definire dei tratti di riconoscimento, caratteristiche colte come
caratterizzanti dell’entità, una convenzione che consenta di
rappresentare questi tratti emergenti, e una convenzione
che regoli le modalità di produzione della corrispondenza dei
tratti di riconoscimento e degli oggetti che li comunichino.
È chiaro quindi come in realtà anche l’icona poggi su solide
basi convenzionali e quindi arbitrarie.
D
ue_Il termine icona non è però usato nella nostra cultura
solo con quest’ accezione semiotico – linguistica, si
indica normalmente con questo termine una tavola lignea
di forma rettangolare, con dimensioni modeste, incorniciata,
e dipinta con soggetti a carattere sacro. Sebbene l’aggettivo
iconico, di matrice semiotica, sia stata concepito a partire
da questo tipo di rappresentazioni dall’ origine bizantina, il
loro funzionamento almeno in origine è speculare. Un segno
iconico è qualcosa che prende dal referente alcuni caratteri
dei quali si veste e che spiega come salienti. Nel caso della
rappresentazione sacra il referente per sua stessa definizione
è inesistente e l’azione consiste nel crearlo, prendendo ad
esempio referenti per contiguità associativa. L’icona sacra
crea la rappresentazione che diventerà l’esempio, e non è il
segno, il dipinto, che mutua caratteristiche dall’oggetto, ma
è l’oggetto che le assorbe dalla sua rappresentazione. L’icona
sacra crea un’immagine che deve diventare di riferimento,
distinguendosi per venerazione, ed enigmaticità.
T
re_ Chiunque oggi ci chiedesse di descrivere la prima
immagine che ci baleni in testa al sentire la parola
icona si sentirebbe di certo rispondere un piccola immagine,
spesso con le sembianze di una cartella raccoglitrice
cartacea, disposta più o meno liberamente sul desktop
del nostro personal computer. È fondamentalmente lo
strumento principale dell’accessibilità in qualsiasi strumento
21
icone
e al consolidamento di credenze
e pratiche religiose correlate, in
architettura diviene lo strumento
per scardinare l’ordine costituito, per
oltraggiarlo, per insinuare il dubbio
all’interno di un ambito in cui troppo
facilmente si usa la giustificazione
della naturalità per sostenere
scelte del tutto convenzionali. In
questi termini l’edificio icona è lo
strumento più potente nelle mani
del post-modernismo. A Bilbao –
dice Jencks – Ghery ha aperto il vaso
di Pandora dei tabù architettonici,
sdoganando il non convenzionale
e dimostrando l’effettiva resa sul
mercato dell’information economy.
L
’edificio icona ha radici profonde
nel terreno della democrazia, sia
artistica che politica. Senza cioè uno
stile, un linguaggio, una corrente,
un potere politico egemonico
da seguire, le libertà progettuali
sono diventate tali da esigere
continuamente di essere superate
per non essere confermate come
l’opposto. Per determinarsi come
icona un edificio deve prima di ogni
altro aspetto porsi come emergenza,
capace di creare stupore e attrazione
allo stesso in modo da alimentare
la propria sete di riconoscibilità.
La somiglianza con qualcosa di
esistente, come l’Anatra Venturiana
o le forme biologico-zoomorfe di
Calatrava, sono un ulteriore livello di
iconicità, e determinano le cosidette
icone iconiche, sorta di enormi ed
esplorabili sculture fuori scala. La
resa estetico-visiva di questo tipo di
edificio può essere trovata facendo
ricorso a vari espedienti retorici:
metafore, simbolismi, analogie,
citazioni, iperboli; tutte figure della
critica linguistica che ben descrivono
strumentalità l’azione progettuale
finalizzata alla produzione iconica.
Museum si dimostrò essere lo strumento ideale nell’attrazione
turistica da tutto il mondo e in poco tempo si affermò come
vero e proprio paradigma di un nuovo modello di edificio,
l’Iconic Building. Il feroce e prepotente affermarsi di questa
nuova strategia di architettura-marketing, fu a tal punto
veloce che viene difficile non domandarsi come mai questa
strada non fosse stata battuta prima. In realtà questa strada
era già stata percorsa, anche se con una minor attenzione
all’aspetto economico commerciale. Per l’architetto
californiano il successo di questo edificio fu a tal punto
inglobante che lo portò ad essere identificato con l’edificio
stesso e alla nuova categoria appena formulata. Chiedere
un “Ghery” , significa chiedere un edificio icona. L’effetto
Bilbao propagò la propria onda d’urto non solo nel futuro,
costituendosi come efficace precedente per ogni azione di
risanamento a colpi di architettura, ma anche nel passato
spostando l’attenzione critica e progettuale verso una nuova
categoria, nella quale ben presto entrarono edifici come
l’Unitè d’Habitation di Marsiglia, la cappella di Ronchamp,
il Guggenheim museum di New York, l’AT&T building. Chi
raccolse per primo la potenzialità teorico-critica di questa
nuova condizione fu Charles Jencks, già pioniere dell’analisi
linguistica dell’architettura negli anni ’60. Profeta, sostenitore
ed esegeta dell’ iconicità architettonica Jencks, nel 2005,
consacrerà al’iconic Building la personale bibbia: The iconic
building, the power of enigma
2
.
e difici icone o semplicemente icone : una
definizione
I
l primo indizio su cosa caratterizzi e quindi attragga
degli edifici icona Jencks ce lo fornisce sin dal titolo, o
meglio dal sottotitolo “the power of enigma” . Capacità di
un’icona è quella di realizzarsi come mai completamente
solubile, come opera aperta, incapace di essere inquadrata
in un ottica totalizzante, riluttante ad ogni facile e immediata
comprensione. L’icona concede numerose interpretazione,
non lasciandosi mai sfinire dal gesto critico, ma tralasciando
sempre diverse e misteriose possibilità. Questa apertura
concede una personale conclusione del significato, l’icona
è la condizione del possibile, un evento di cui possiamo e
dobbiamo determinare la sorte.
L
’icona nasce da esigenze economico-commerciali, di
marketing urbano e di competizione post-industriale,
dallo sviluppo delle tecniche costruttive e dalla volontà di
superare le vigenti convenzioni compositive. Mentre l’icona
pittorica contribuì storicamente alla creazione di canoni grafici
22
icone
a rchistar™: Architetto la cui
attività non è solamente
incentrata sulla progettazione di
edifici, ma anche sulla divulgazione
della propria immagine. Figura chiave
dello starsytem architettonico.
5
e ye-con e la deriva
visibilista
G
lobalizzazione ed era
dell’informazione, sono
le due formule più usate per
descrivere la contemporaneità.
Entrambe figlie della progressiva
democratizzazione capitalistica,
consentono come fattori il famoso
ossimoro di Marshall McLuhan il
“villaggio globale”
6
: villaggio ovvero
luogo di circolazione e di controllo
dell’informazione, dimensione
territoriale in cui tutti si conoscono e
si controllano, globale ovvero nessun
si senta escluso, massimo grado di
responsabilità e possibilità, almeno
fino alla colonizzazione extra-
planetaria. Assorbendo l’ossimoro,
in architettura potremmo parlare di
“villaggio architettonico globale” .
Volendogli trovare una data di nascita,
potremmo tornare al periodo tra le
due guerre mondiali, periodo in cui
da un lato, molti architetti europei
lasciano il vecchio continente per il
nuovo, influenzando geneticamente
la coscienza architettonica americana
nascente, e dall’altro iniziano le
commissioni extra-continentali,
alimentando le mire planetario-
generaliste dei modernisti. Come
per le altre forme di informazione
anche quella architettonica vede
nell’assorbimento visivo il più
efficace strumento di proselitismo.
Dalla quotidianità della carta
stampata, alla periodicità delle
N
onostante l’ampio ventaglio di strategie perseguibili
riuscire nell’intento di produrre un vero icon building
non si è dimostrato poi così facile. L’errore si puo’ nascondere
dietro troppo rosee previsioni economiche o dietro troppo
personali gesti compositivi che si dimostrano incomprensibili
e determinano la morte prima della nascita. La volontà, la
previsione progettuale non basta ad un edificio per diventare
icona, questo perché l’icona è una categoria che si attribuisce
al successo di una strategia, che altrimenti rimane una bizzarria
autosufficiente. Jencks
3
dimostra come nel caso della Swiss
Re Tower di Norman Foster si possa ottenere un risultato
iconico senza porselo come condizione. La nuova torre
direzionale nel pieno della city londinese cerca di affermarsi
per la sensibilità ambientale e il confort ergonomico più che
per la presa visiva, anche se inevitabilmente viene ricordata
per tale. L’iconicità, almeno per il pubblico non disciplinare
o specializzato, spesso scavalca qualsiasi altra definizione
progettuale, e diviene, desiderio o condanna; l’unica chiave
per decifrare l’enigma.
L
e condizioni principali dell’icona, sia che vengano cercate
sia che siano il prodotto di condizionamenti progettuali
eteronomi sono quelle della riconoscibilità e dell’oltraggio,
ottenute attraverso l’originalità e l’impressione visiva delle
proprie forme, capaci di definire uno spazio autonomo nelle
memorie di chi vi si imbatte. La “stranezza” , il gesto irriverente,
la sfrontatezza, sono gli aspetti che introducono l’ïcona, sono
gli elementi rilevatori della categoria, ciò che innescano la
concitazione semiosica, e non semplicemente il compendio
delle possibilità contenutistiche della categoria. Mentre il
generico landmark aspira a una riconoscibilità di tipo familiare,
e il monumento diventa tale per meriti storici o civili, l’icona
deve mantenersi “strana” , “diversa” , senza concedersi mai
come dato acquisito e controllabile, cercando di allungarsi
grazie alla sua apertura di significato.
C
ome detto la categoria dell’ icona si attribuisce agli edifici
solo dopo averne constatato il successo, che dal punto
di vista mediatico si sviluppa su due livelli: la risonanza che crea
l’edificio in sé e quella che Jencks chiama “bellissima logorrea”
4
,
che invece si scatena sui principali canali di comunicazione
verbale. La prolificazione mediatica che non sempre è in
proporzione diretta con la qualità dell’architettura può essere
considerata l’elemento di certificazione dell’identità iconica
ed ha come prima conseguenza la creazione del profilo dell’
Archistar™.