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INTRODUZIONE
Il ventennio tra le due guerre mondiali può essere sinteticamente descritto da due
espressioni: crisi economico-politica mondiale e fervori culturali.
Pur trovandosi travolta dalla recessione economica e dall’instaurarsi di regimi
autoritari, per l’Europa è il momento del Detscher Werkbund, del Futurismo, del
Dadaismo, del Bauhaus, di Mies Van der Rohe, di Le Corbusier, di Terragni, di Libera,
di Speer e di un’infinità di altri artisti e intellettuali, capaci di infiammare il clima
culturale di quegli anni.
Molti autori hanno fornito i loro preziosi contributi allo studio delle grandi
realizzazioni dei maestri dell’epoca.
Ma quanti si sono soffermati a considerare le architetture provvisorie, industriali,
abitative e tutte quelle espressioni cosiddette “minori”? E, in particolar modo, quanti
hanno ritenuto opportuno scandagliare il patrimonio edilizio in legno, allo scopo di
valorizzarne la straordinaria inventiva e sfruttarne i suggerimenti tecnici per il
presente?
Questa indagine intende rivolgere la propria attenzione su tali aspetti misconosciuti
dell’architettura a cavallo degli anni ’20 e ’30. Le esperienze sviluppatesi a quel tempo
nel campo delle costruzioni lignee, oltre a meritare interesse per le loro spiccate
caratteristiche di originalità e inventiva, sono in grado di fornire spunti stimolanti
nell’ambito della ricerca odierna di tecniche di conservazione e restauro architettonici.
La scelta dei limiti temporali (1920-1940) e geografici (Italia e Germania) di
pertinenza della ricerca, ovviamente, ha delle ragioni ben precise. L’idea iniziale era
incentrata sull’Italia e sull’autarchia, in particolare quell’autarchia esibita ed esaltata
dal regime fascista nel periodo delle sanzioni (1935-36 e seguenti). In seguito al
reperimento di alcuni testi sull’argomento, però, sono emersi i connotati dell’autarchia
non come evento puntuale, legato all’Italia e alle sanzioni, ma quale fenomeno
economico diffuso su scala internazionale ed esteso esattamente tra la fine della prima
guerra mondiale e l’inizio della seconda. Un accostamento tra la situazione in Italia e
quella in Germania, poi, era particolarmente indicato anche dal punto di vista politico,
a causa delle analogie tra i regimi autoritari in esse presenti.
Dalle indagini è venuto alla luce un patrimonio vastissimo di costruzioni in legno,
specialmente per quanto riguarda la Germania. Un patrimonio di cui oggi, purtroppo,
non rimane in piedi praticamente nulla.
Alcuni edifici, costruiti in occasione di mostre e fiere, una volta esaurita la loro
funzione, furono immediatamente smantellati, altri finirono inceneriti da incendi
devastanti. Molte grandi strutture, simbolo e strumento delle adunanze politiche dei
regimi autoritari, vennero con questi abbattute o non sopravvissero al passaggio della
guerra. Inoltre la noncuranza con cui spesso sono state trattate le costruzioni in legno,
in quanto considerate provvisorie e di scarso pregio, ne ha determinato il completo
abbandono, con conseguente collasso per degrado. All’opposto, laddove si è tentato di
conservarle, si è avuto un completo snaturamento di tali opere, a causa dell’abitudine
diffusa di intervenire sugli edifici in legno sostituendo tout court le parti degradate o
lesionate con elementi del tutto nuovi, senza tener conto dei moderni criteri di restauro,
orientati, invece, verso la massima conservazione possibile dei materiali originari.
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Il presente lavoro è articolato in quattro parti, con l’aggiunta di un volume in appendice,
ed intende fornire il proprio modesto contributo indirizzato alla scoperta o alla riscoperta
di simili espressioni architettoniche, della loro importanza e della validità degli spunti
tecnici in esse contenuti, ai fini del restauro architettonico moderno.
Fin da subito, si è resa necessaria l’introduzione di una prima parte di inquadramento
storico, che inserisse gli edifici nel loro contesto e ne definisse esattamente i limiti. Non si
è trattato di una divagazione gratuita o di un dilungarsi ozioso su questioni non
strettamente architettoniche, poiché ritengo che le scelte costruttive operate nella
cosiddetta “edilizia minore” risentano più di altre delle congiunture economiche e delle
scelte politiche del momento storico in cui si svolgono.
Nella seconda parte, l’ambito di ricerca è quello italiano. Oltre ad un primo momento di
presentazione del fenomeno autarchico nei suoi sviluppi, vengono analizzati i materiali
edili di origine vegetale, creati dall’inventiva e dalla necessità e impiegati in abbondanza
nell’edilizia italiana di quegli anni. Dopodiché si passa alle due tematiche specifiche: uno
sguardo alle abitazioni ed ai relativi sistemi di costruzione, quindi una carrellata sugli
edifici di grandi dimensioni (con un occhio di riguardo per i padiglioni espositivi) e sulle
rispettive soluzioni tecniche.
La terza parte concerne invece la Germania, la scelta del legno come bene-rifugio da
sfruttare prima e risparmiare poi, le specie legnose e i tagli in uso in edilizia. Anche qui, in
un secondo momento, l’analisi si articola nell’esamina di un’ampia casistica di abitazioni
e grandi strutture con le relative tecniche costruttive.
Con la quarta parte, alcuni meccanismi strutturali lignei fra quelli presentati vengono
estrapolati e proposti all’attenzione come possibili suggerimenti all’indirizzo di quanti si
occupano di conservazione edilizia oggi, con l’azzardo di qualche ipotesi di impiego di
apparecchi strutturali del passato, soprattutto nel consolidamento dei solai, alla luce dei
moderni criteri di restauro.
In appendice, infine, viene offerto un abaco di realizzazioni e progetti, organizzato in
forma di schede, in grado di fornire, nella maniera più sintetica possibile, le principali
informazioni riguardanti ciascun edificio: autore, anno di costruzione, ubicazione,
descrizione, ecc.
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FINALITÀ DELLA RICERCA E METODOLOGIA
D’INDA G INE
Questo lavoro è nato con il proposito di rintracciare, tra gli esempi di meccanismi
strutturali lignei del periodo compreso tra gli anni ’20 e ’30, spunti utili allo sviluppo
delle tecniche odierne di conservazione e restauro. La scelta è caduta su questo lasso
temporale proprio per la ricchezza di invenzione e sperimentazione che lo ha
caratterizzato, a testimonianza di come lo stato di necessità possa stimolare
positivamente l’inventiva degli operatori in campo architettonico.
L’indagine si è svolta a partire dalla formazione di una cultura storica specifica. Questa
si era resa strettamente necessaria per inquadrare con precisione i limiti temporali e
geografici da attribuire alla ricerca, per individuare la connessione tra le vicende
politico-economiche e le diverse scelte architettoniche, per accertare la valenza del
termine “autarchia” fuori dai confini italiani e al di là del biennio delle sanzioni imposte
dalla Società delle Nazioni.
Il secondo passo è riassumibile nella ricerca di esempi concreti di edifici, estrapolati
dagli archivi, dalla letteratura e dalla pubblicistica specializzata. Trattandosi per lo più
di edilizia cosiddetta “minore”, cioè di costruzioni che esulano dal campo delle
architetture normalmente citate nei testi, fonte privilegiata per il reperimento di
materiale ad hoc sono state le riviste di architettura dell’epoca, italiane e tedesche,
conservate in quantità nei fondi di consultazione della Biblioteca della Facoltà di
Architettura di Firenze. Da qui è stato possibile portare alla luce un congruo numero di
esempi di strutture in legno, localizzate soprattutto in area germanica, abbastanza ben
documentate da fornire informazioni sufficienti a costruire una discreta casistica a
supporto dell’indagine. Sulla base di tali dati sono state costruite delle schede di analisi
dei singoli edifici, tese a consentire l’individuazione più rapida e precisa delle
caratteristiche fondamentali dell’oggetto: denominazione, autore, ubicazione, anno di
costruzione, tipologia strutturale, ecc.
Una volta completato il lavoro di ricerca, traduzione dei testi e schedatura degli esempi,
sono emerse delle linee guida da seguire nell’affrontare il tema. In primo luogo,
risultava indispensabile comprendere a fondo il diverso approccio italiano e tedesco nei
confronti dell’economia autarchica. Immagini e documenti, infatti, testimoniavano
atteggiamenti diversi e talvolta quasi contraddittori nei confronti del legno: prima,
esortazioni all’impiego di legname in edilizia, seguiti da accorati appelli al suo
risparmio, con contemporanee esibizioni di abbondanza di questo materiale.
Una volta chiarito il quadro della situazione, si è trattato di presentare quanto reperito in
maniera il più possibile sistematica, partendo dall’analisi dei materiali impiegati (legno
e derivati), per poi passare ad un excursus sulle diverse costruzioni, suddivise in
abitazioni e in edifici vari (espositivi, industriali, pubblici, ecc.), con relativi sistemi
costruttivi specifici.
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L’ultimo passo è consistito nell’estrapolare, dall’insieme di sistemi costruttivi
e membrature strutturali varie, quegli elementi che maggiormente si potevano
prestare a suggerire soluzioni alternative valide per la conservazione ed il
restauro architettonico odierni.
Inquadramento storico di carattere generale
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Prima parte
INQUADRAMENTO STORICO DI CARATTERE
GENERALE
1. Una premessa.
Il 4 novembre 1918 entrò in vigore l’armistizio firmato dall’Austria. La “Grande Guerra” si era conclusa, almeno sul
fronte italiano. Un ufficiale di artiglieria inglese ricordò che quella notte “il cielo era illuminato dalla luce dei falò e
dagli spari di razzi colorati…Dietro di noi, in direzione di Treviso, si sentiva un lontano rintocco di campane, e
canti ed esplosioni di gioia ovunque. Era un momento di perfezione e di compimento…”.
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Sul fronte occidentale, invece, venne decretata la cessazione delle ostilità solo a partire dalle ore 11 dell’11
novembre 1918.
L’Europa che uscì da quel devastante conflitto, in cui gli imperi centrali ebbero 3.500.000 morti sui campi di
battaglia, e le potenze alleate, che pure lo vinsero, ne ebbero 5.100.000, avrebbe risentito per lungo tempo degli
effetti di quella carneficina, e, ancora di più, delle conseguenze dei trattati di pace che seguirono e che diedero un
nuovo assetto a molte delle nazioni coinvolte.
Quella che si aprì a partire dal 1918 non fu, come negli auspici, una nuova èra di fratellanza tra i popoli, resi più
saggi dalla lezione riportata con gli orrori del conflitto, ma tutt’altro. Alcuni storici ritengono addirittura che gli anni
Venti e Trenta non siano da considerare che una tregua lunga un ventennio all’interno di un unico, gigantesco
conflitto mondiale, cominciato nel 1914 e conclusosi definitivamente soltanto nel 1945. Molti segnali di una
seconda catastrofe erano chiaramente nell’aria, la politica del tempo viaggiava sui binari di tale consapevolezza, e
questo sarebbe stato in molti casi un fattore determinante nelle scelte dei vari Stati relative alle linee politiche ed
economiche da seguire.
L’impostazione più o meno marcatamente autarchica delle economie europee in quegli anni prescindeva da eventi
scatenanti puntuali (sanzioni, embarghi, ecc.) ed interessava parimenti le potenze uscite vincitrici dalla guerra e
quelle sconfitte. Era considerata necessità storica, presidio a difesa delle sorti delle nazioni, garanzia di un futuro più
sicuro.
La Grande Guerra ed il ruolo ricoperto dagli Stati Uniti in quel frangente avevano dimostrato che i conflitti moderni
potevano essere vinti solo da chi fosse stato in grado di procacciarsi rifornimenti adeguati per truppe e civili anche
in situazioni belliche estreme, nelle quali blocchi e combattimenti marittimi avessero impedito i normali scambi
commerciali con altri Paesi.
Pertanto, in previsione di un’altra guerra mondiale, la principale preoccupazione degli Stati europei riguardava il
mantenimento delle riserve auree entro i confini nazionali (colonie comprese), il rafforzamento della produzione
interna, lo sfruttamento estremo di ogni possibile risorsa locale, la maggiore indipendenza dagli scambi
internazionali realizzabile.
In questo contesto, l’edilizia, anche e soprattutto nelle sue espressioni considerate “minori”, ricopriva un ruolo molto
importante. I tecnici erano chiamati a risolvere i più svariati problemi con soluzioni talvolta realmente ingegnose,
stimolate proprio dall’urgenza e dalla carenza. Tanto in Italia, affetta da penuria cronica di materie prime, quanto in
Germania, ridotta al lumicino dallo sforzo bellico e dalle conseguenti riparazioni, la parola d’ordine divenne:
risparmiare e far da sé.
Per questo occorre qui soffermarsi su avvenimenti che, a prima vista, sembrerebbero assai lontani e avulsi dalle
questioni architettoniche qui affrontate; si tratta invece di fatti e circostanze ad esse intimamente legati. I criteri e le
soluzioni tecniche adottate nell’edilizia rappresentavano con particolare chiarezza il frutto di orientamenti economici
determinati dall’atmosfera politica di quegli anni, pregna di aspettative di guerra. Sarà possibile rendersi meglio
conto della situazione architettonica, dando uno sguardo al panorama politico ed economico europeo, italiano e
tedesco, e ripercorrendo i fatti storici più o meno noti da tener presenti.
1
Martin Gilbert, La grande storia della prima guerra mondiale, Mondadori, Milano, 1998, pag. 595
Inquadramento storico di carattere generale
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2. L’epilogo della Grande Guerra. Le radici del malessere.
Quella del 1914-18 si era manifestata come una guerra del tutto nuova, sia per strategie e mezzi militari che per lo
spirito presente sui campi di battaglia. Tanto le vicende sul fronte occidentale come quelle sul fronte orientale, fin
dall’inizio furono caratterizzate da scontri feroci ed episodi di fraternizzazione tra i combattenti, diserzioni di massa,
ammutinamenti.
Nel 1917, dopo tre anni di conflitto, gli imperi centrali (Germania, Impero Austro-Ungarico, Bulgaria e Turchia) da
una parte, e le potenze occidentali (Francia, Gran Bretagna, Belgio, Italia, Russia, Stati Uniti) dall’altra, erano
ancora impegnati a combattere su svariati fronti, in ognuno dei quali i massacri si moltiplicavano nel continuo
alternarsi di avanzate e ritirate.
Il 2 dicembre 1917, alle prese con la rivoluzione e la conseguente guerra civile, la Russia bolscevica decise di uscire
dal conflitto a cui aveva preso parte a fianco degli Stati occidentali, intavolando i primi negoziati di Brest-Litovsk
con le forze degli imperi centrali per deporre le armi sul fronte orientale.
Questo evento sembrò essere determinante per la definitiva spallata che avrebbe potuto portare Germania e Austria
alla vittoria, consentendo loro di spostare uomini e mezzi sul fronte italiano e su quello occidentale, forse il più
ostico.
Ma mentre l’andamento della guerra sembrava volgersi a loro favore, la situazione socio-economica all’interno degli
Imperi Centrali aveva da tempo assunto toni drammatici a causa della mancanza dei rifornimenti, determinata
dall’embargo inglese e dalla guerra navale e sottomarina nell’Atlantico:
“Intanto, dietro le linee del fronte, nei Paesi che non potevano più importare viveri a causa del blocco navale, le
sofferenze si facevano ogni giorno più acute. A Costantinopoli, nel 1917 morirono di stenti circa 10.000 persone.
Nell‟impero austro-ungarico la fame provocò scioperi e tumulti per il pane a Vienna e a Budapest, tanto che il
governo fu costretto a richiamare sette divisioni dal fronte – e il ritiro divenne permanente all‟inizio del 1918 – per
presidiare le strade. In Germania, nel 1917, più di 250.000 civili morirono di fame in conseguenza del blocco
britannico. Ormai i tormenti della lunga guerra si facevano sentire non solo fra le truppe sui campi di battaglia, fra
i marinai, fra gli aviatori e fra gli uomini rinchiusi in numero sempre crescente nei campi di prigionia, ma anche in
città europee un tempo prospere.
2
[…] A Berlino più di 400.000 lavoratori scesero in sciopero invocando la pace. Nel giro di quarantott‟ore gli
scioperi si estesero ad altre sei città tedesche. Le autorità reagirono con rapidità e fermezza, imponendo la legge
marziale a Berlino e ad Amburgo e spedendo al fronte molti manifestanti. Ma la fame, che il blocco navale
britannico aveva ulteriormente acuito, non poteva essere placata né dalla legge marziale né dal servizio militare
obbligatorio. I civili si videro costretti a mangiare i cani e i gatti, „i conigli dei tetti‟ come li chiamavano. Il pane
veniva fatto con una mistura di bucce di patate e di segatura”.
3
Nelle prime ore del 21 marzo 1918 il generale tedesco Ludendorff diede avvio a quella che, negli intenti, avrebbe
dovuto essere l’offensiva finale per la vittoria delle armate del Kaiser Guglielmo II sul fronte occidentale.
Ma nonostante il grande impeto iniziale, l’avanzata germanica non riuscì a sfondare fino al punto di separare del
tutto le linee inglesi da quelle francesi. Finalmente, a tamponare le falle apertesi nello schieramento Alleato, erano
giunti gli Americani. Tra il giugno e l’agosto del 1918 si svolse il contrattacco degli Stati occidentali.
Frattanto in Italia, sul fronte del Piave, le armate austriache, che avrebbero dovuto sferrare l’attacco per la vittoria
definitiva dopo la disastrosa rotta italiana di Caporetto, furono invece sconfitte e ricacciate indietro, con il contributo
dei bombardamenti aerei italiani e inglesi.
Le forze degli imperi centrali cominciarono a dare segni evidenti di cedimento.
La Bulgaria fu il primo Stato dell’Intesa ad uscire dal conflitto e questa decisione assestò un duro colpo a Germania
e Austria, che si videro improvvisamente private di ogni possibilità di collegamento con l’alleato turco.
Nel frattempo, si moltiplicavano le insurrezioni dei popoli facenti parte l’impero austro-ungarico. Si cominciava a
parlare di Cecoslovacchia, Polonia e Ungheria come Stati autonomi.
L’imperatore Carlo I d’Austria, a seguito delle sconfitte, delle defezioni e del disgregarsi del suo impero, decise
finalmente di firmare una pace separata e l’armistizio immediato, entrato in vigore il 4 novembre 1918.
Nonostante gli evidenti segni di sfacelo, gli alti comandi tedeschi, invece, si ostinavano a pensare di poter evitare il
tracollo, di essere in grado di proseguire la guerra portandosi sui campi di battaglia in una posizione più favorevole
per la firma dell’armistizio, ma erano completamente fuori dalla realtà delle cose. Il contrattacco degli Alleati, con la
loro preponderanza sul campo sostenuta dalle ingenti quantità di uomini e rifornimenti provenienti dagli Stati Uniti,
era in pieno svolgimento.
2
Martin Gilbert, La grande storia della prima guerra mondiale, Mondadori, Milano, 1998, pag. 474.
3
Ibid., pag. 479.
Inquadramento storico di carattere generale
7
In Germania ormai tutti, dal Reichstag agli spartachisti
4
, invocavano l’abdicazione di Guglielmo II e la fine della
monarchia, ma il Kaiser non era assolutamente intenzionato a farlo.
Ai primi di novembre scoppiarono rivoluzioni rosse a Vienna e a Budapest.
A Berlino, a Monaco, a Colonia si moltiplicavano gli scioperi, le rivolte, gli ammutinamenti di stampo bolscevico.
La marina tedesca era in piena rivolta, non c’era più possibilità di usare l’esercito per reprimere le sommosse nelle
città tedesche, su undici delle quali sventolava già la bandiera rossa.
Alla fine Guglielmo II fu costretto ad abdicare e a partire per l’esilio nella neutrale Olanda; in base al trattato di
pace, sarebbe in seguito comparso in giudizio come criminale di guerra.
L’11 novembre 1918 il governo parlamentare tedesco del cancelliere Massimiliano, principe del Baden, firmò
l’armistizio finale stipulato a Compiègne, basato sul programma di pace per l’Europa in 14 punti del presidente
americano Wilson.
Qualcuno, però, cominciò fin da subito a temere che quel modo di porre fine ad una guerra tanto cruenta avrebbe
potuto creare seri problemi in futuro. Il generale Pershing, comandante delle forze americane in Francia, si chiedeva
se non sarebbe stato meglio continuare a combattere finché i tedeschi non avessero gettato le armi e si fossero arresi
sul campo. “La mia paura è che la Germania non abbia capito di averle prese. Se ci avessero dato un‟altra
settimana, glielo avremmo fatto capire”
5
. In effetti molti soldati tedeschi, non vedendo chiaramente i segni della
disfatta, poiché le trincee sul suolo francese e belga erano ancora piene di uomini e di artiglierie, si sentirono traditi
da coloro che avevano firmato l’armistizio, consegnando la vittoria agli Alleati al tavolo dei negoziati.
3. I trattati di pace
Il 18 gennaio 1919 si aprì a Parigi, nella Sala degli Specchi del castello di Versailles, la Conferenza per la Pace fra le
potenze occidentali e la Germania sconfitta, in un’atmosfera di grande tensione.
Il problema dell’affidamento delle colonie tedesche e di quelle turche venne risolto con un certo numero di mandati,
che la Società delle Nazioni affidò alle varie potenze vincitrici.
Molto accesa fu anche la discussione per decidere sul pagamento dei danni di guerra: Lloyd George invitò alla
moderazione e a rimandare la decisione di un paio di anni, in modo che i prezzi inflazionati dalla guerra potessero
tornare alla normalità, gli animi si fossero placati e fosse possibile riflettere più serenamente, ma non fu ascoltato.
L’argomento più scottante, però, concerneva l’attribuzione della responsabilità della guerra:
“La formula alleata, che i tedeschi sintetizzavano in „dichiarazione di colpevolezza‟, recitava: «La Germania
accetta la responsabilità propria e dei suoi alleati di aver provocato tutte le perdite e i danni che gli Alleati, i
governi associati e le loro nazioni hanno dovuto subire a causa di una guerra che è stata loro imposta
dall‟aggressione della Germania e dei suoi alleati».
«…una guerra che è stata loro imposta dall‟aggressione della Germania e dei suoi alleati»: raramente è successo
che una frase di una decina di parole abbia avuto ripercussioni così negative – e, a tempo debito, violente – da
culminare in una nuova guerra, tanto che la „Grande Guerra‟ del 1914-18 dovette essere ribattezzata „Prima
guerra mondiale‟, poiché seguita da una seconda. A fare da ponte tra le due guerre, separate da soli vent‟anni, fu
proprio la clausola della „colpevolezza‟ per come veniva percepita dalla Germania, enfatizzata dai suoi politici
estremisti, additata quale bersaglio da colpire con il ferro e con il fuoco da Hitler, l‟ex caporale che della vendetta
contro le potenze alleate e le nazioni associate (tre delle quali – Italia, Romania e Giappone – sarebbero diventate
alleate della Germania nella seconda guerra mondiale) avrebbe fatto la sua missione”.
6
Già allora Lloyd George nutriva forti dubbi che la scelta di imporre dure condizioni alla Germania fosse la più
saggia. Nel suo memorandum di Fontainebleau, egli criticava quelle clausole che sarebbero potute diventare
“motivo costante di irritazione”:
4
Spartachismo: movimento rivoluzionario di sinistra sorto in Germania nel 1916, da cui nacque in seguito il partito
comunista tedesco; der. di Spartacus, it. Spartaco, pseudonimo usato dall’uomo politico e rivoluzionario tedesco
Karl Liebknecht (1871-1919), dal nome del gladiatore che nel 73-71 a.C. capeggiò una rivolta di schiavi contro
Roma. (Da Dizionario italiano, a cura di Tullio De Mauro, Paravia, 2000, Verona)
5
Martin Gilbert, La grande storia della prima guerra mondiale, Mondadori, Milano, 1998., pag. 607
6
Martin Gilbert, La grande storia della prima guerra mondiale, Mondadori, Milano, 1998, pag. 615.
Inquadramento storico di carattere generale
8
«Il mantenimento della pace dipenderà dal fatto che non sorgano costantemente motivi che spingano il patriottismo,
il senso di giustizia o di lealtà a chiedere di raddrizzare i torti… La nostra pace dovrebbe essere dettata da uomini
che agiscano nello spirito di giudici impegnati in un processo che non li tocca personalmente nelle emozioni e negli
interessi, e non già nello spirito della vendetta selvaggia, che trova soddisfazione soltanto nella mutilazione o
nell‟infliggere sofferenza e umiliazione. […] Sono fortemente contrario a trasferire più tedeschi di quanto sia
necessario sotto il controllo di altre nazioni. Non riesco a immaginare un motivo più fondato per una guerra futura
(una nuova guerra nell‟Europa orientale) del fatto che la Germania, che si è senza dubbio dimostrata una delle
nazioni più forti e potenti del mondo, sia circondata da innumerevoli staterelli – molti dei quali costituiti da popoli
che mai in precedenza si sono dati un governo stabile – contenenti masse di tedeschi che chiedono a gran voce il
ricongiungimento alla terra natale».
7
Tuttavia le perplessità inglesi non riuscirono a convincere i francesi a limitare le richieste di risarcimento dei danni
di guerra e a ridurre il meno possibile il territorio nazionale tedesco
8
.
Nei 440 articoli contenuti nel trattato, veniva imposto alla Germania, tra le altre cose, l’abbandono di molte zone di
confine, tra cui la contesissima Alsazia-Lorena; Danzica venne dichiarata città libera, il territorio della Saar fu posto
per 15 anni sotto l’amministrazione della Società delle Nazioni, mentre i bacini carboniferi furono assegnati alla
Francia. Si proibiva altresì l’annessione alla Germania dell’Austria (“Anschluss”) e si imponeva il mantenimento
della riva sinistra del Reno demilitarizzata e divisa in tre zone d’occupazione.
Il controllo della smobilitazione, eseguito da parte di commissioni alleate, prevedeva la consegna del materiale
bellico pesante, di tutte le navi mercantili di oltre 1600 tonnellate di stazza e di metà di quelle tra 1000 e 1600
tonnellate, e la riduzione dell’esercito a 100.000 uomini.
L’ammontare del debito di guerra, stabilito successivamente dalla Conferenza di Boulogne (21 giugno 1920), era
pari a 269 miliardi di marchi-oro, da pagarsi in 42 annualità.
Dopo molte resistenze, la Germania si trovò costretta a firmare il Trattato di Versailles (28 giugno 1919), ma
dimostrò apertamente di considerare il tutto una grossa ingiustizia nei propri confronti.
A questo seguirono ulteriori trattati fra gli Alleati e gli altri Stati che avevano partecipato alla guerra con gli imperi
centrali, fra cui il Trattato di pace con l’Austria a St.Germain-en.Laye (con il quale l’Italia entrò in possesso dell’
Alto Adige fino al Brennero, Trieste, Istria, alcuni territori in Dalmazia, Carinzia e Carniola) ed il Trattato di pace
con la Turchia a Sèvres (da cui l’Italia ottenne il Dodecaneso e Rodi).
Contemporaneamente, il crollo dell’impero zarista e l’assenza della Russia dal tavolo della pace favorirono la
nascita di nuovi stati, come la Repubblica di Polonia, di Lituania, di Estonia, di Lettonia, di Finlandia.
Alla conclusione di questi trattati, i segnali di scontento provenienti dalle varie parti in causa (compresa l’Italia, per
la quale si sarebbe parlato di “vittoria mutilata”) erano davvero molti. Eppure rimase viva la convinzione che la
nuova pace dopo il 1918 avrebbe dovuto mantenersi in piedi non con lo spauracchio delle armi, ma con il disarmo,
sotto l’ala protettrice della Società delle Nazioni:
“Nel mondo uscito dalla guerra i trattati avrebbero costituito l‟ossatura giuridica dell‟indipendenza e della
sacralità delle nuove frontiere (ma, chiedevano alcuni, la frontiera del Belgio non era garantita da un trattato
anche prima del 1914?)”.
9
7
Ibid., pag. 618.
8
J.M.Keynes, “Le conseguenze economiche della pace”, in Catalano SSS: “Il Trattato non comprende alcuna
clausola che miri alla rinascita economica dell‟Europa, nulla che possa trasformare in buoni vicini gli Imperi
centrali disfatti, nulla che valga a consolidare i nuovi Stati d‟Europa, nulla che chiami a novella vita la Russia;
esso non promuove neppure, in alcuna guisa, una stretta solidarietà economica fra gli stessi Alleati. […]
Il Consiglio dei Quattro non prestò alcuna attenzione a questi problemi, preoccupato com‟era da altre questioni:
Clemenceau di distruggere la vita economica del suo nemico; Lloyd Gorge di arrivare ad un compromesso
qualsiasi pur di riportare in patria qualche cosa che potesse resistere alle critiche di una settimana; il Presidente di
non far nulla che non fosse giusto ed equo. È un fatto straordinario che il problema fondamentale di un‟Europa
affamata e disintegrantesi davanti ai loro stessi occhi fu la sola questione alla quale non fu possibile interessare i
Quattro. Le riparazioni furono la loro principale escursione nel campo dei problemi economici, ed essi le
definirono come un problema di teologia, di politica, di controversia elettorale, da ogni punto di vista, insomma,
eccetto che da quello della vita economica futura degli Stati ai cui destini essi erano stati chiamati a provvedere.”
9
Martin Gilbert, La grande storia della prima guerra mondiale, Mondadori, Milano, 1998, pag. 639.
Inquadramento storico di carattere generale
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4. I problemi politici ed economici del dopoguerra europeo
I problemi a cui le nazioni, soprattutto quelle sconfitte, avrebbero dovuto far fronte erano enormi:
“[…] combattere le forze della rivoluzione a sinistra e il militarismo a destra, rivitalizzare l‟economia distrutta,
tenere alto il morale della nazione bollata dal marchio della sconfitta e schiacciata dal peso sempre più oneroso
della “colpa della guerra”, che si traduceva nel desiderio di recuperare territori e sicurezze perduti all‟ultimo
momento e nella ricerca di capri espiatori”.
10
Sul piano politico, il nuovo assetto mondiale avrebbe dovuto decretare il trionfo dell’autodecisione dei popoli e della
coscienza nazionale, ma rimanevano per lo più insoluti i problemi riguardanti le minoranze nazionali e molte
questioni di confine. D’altra parte la guerra parve segnare, almeno in un primo tempo, la vittoria di quei principi
democratici stabiliti nei “Quattordici punti” di Wilson e la concreta realizzazione dell’auspicata “rivoluzione
democratica mondiale”. Erano scomparse le dinastie degli Asburgo, dei Romanov, degli Hohenzollern e dei sultani
ottomani. L’Europa, che nel 1914 contava 17 monarchie e 3 repubbliche (Svizzera, Francia e Portogallo), nel 1919
aveva in sé 13 repubbliche e 13 monarchie.
Fig. 1 Democrazie e regimi autoritari fino al 1932 (da: “L‟Universale – La Grande Enciclopedia Tematica –
Atlante storico”, Garzanti Libri, 2003, Milano.)
Ma la vittoria della democrazia si rivelò effimera per la mancanza di maturità politica di molti dei popoli che
cercarono di adottare un simile ordinamento rappresentativo. Durante la guerra, inoltre, anche nell’Occidente
democratico, l’opinione pubblica si era abituata alle misure energiche connesse con il conflitto (censura,
requisizioni, razionamento), messe in atto dall’esecutivo con procedure d’urgenza, senza le discussioni parlamentari
normalmente presenti nello Stato liberale. Così, a guerra finita, tanto le classi borghesi quanto quelle popolari si
aspettavano dal governo una rapida e radicale soluzione dei più gravi problemi sorti dalla smobilitazione:
10
Ibid., pag. 609.
Inquadramento storico di carattere generale
10
ricostruzione dell’industria, superamento delle difficoltà economiche, ristabilimento dell’ordine pubblico. Era il
segnale dell’affermarsi dell’idea dello “Stato forte” e della definitiva crisi degli ordinamenti liberali. Anche l’agone
politico subì una trasformazione radicale. In molti Stati dell’Europa continentale avvenne il passaggio dal sistema
elettorale uninominale, con cui l’eletto conosceva bene le esigenze dell’elettore, benché fosse alto il rischio di brogli
e clientele, a quello proporzionale, con gli elementi ideologici e gli interessi di partito che facevano aggio su tutto il
resto. Questo sistema comportò anche la moltiplicazione delle fazioni politiche e la precarietà delle maggioranze
parlamentari, il che favorì in alcuni Paesi l’ascesa di minoranze eversive e totalitarie guidate da spregiudicati
capipopolo.
Fig. 2 Democrazie e regimi autoritari, 1933-1939 (da: “L‟Universale – La Grande Enciclopedia Tematica –
Atlante storico”, Garzanti Libri, 2003, Milano.)
Si avviava ormai a conclusione l’epoca dei politici tradizionali, era il momento dei grandi movimenti di masse
fanatizzate, delle arringhe tribunizie alle piazze, della loro organizzazione e direzione centralizzate. Persino
l’influenza di moderne tecniche di propaganda, come l’uso della radio, finì per rivelarsi un fattore determinante
nell’instaurarsi di regimi totalitari, determinando un contatto più diretto fra capi e popolo, con la ripetizione
incessante di slogan primitivi, ma efficaci. Nell’URSS si era già affermata la dittatura bolscevica, in altri paesi
(Italia, Spagna, ecc.) dittature di destra e regimi autoritari, ma fino al 1933, quando in Germania salirono al potere i
nazionalsocialisti di Hitler, il pericolo assolutista venne sciaguratamente sottovalutato dagli Stati ancora retti da
ordinamenti democratici. Fu così che, proprio dai trattati di pace, nacquero nuove controversie, con le nazioni
vincitrici, da una parte, ben decise a mantenere il nuovo ordinamento e a rafforzarlo con alleanze, e con il
revisionismo delle potenze uscite sconfitte o insoddisfatte dalla guerra dall’altra, a provocare continui contrasti.
Se la situazione politica delle neonate democrazie era precaria, quella economica generale era drammatica, sia per
quanto riguardava i consueti problemi postbellici di ritorno alla normalità, sia per le particolari congiunture
verificatesi in quel periodo.
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J.M.Keynes, “Le conseguenze economiche della pace”, in Catalano SSS: “[…]…l‟Europa consiste del più denso
aggregato di popolazioni che la storia del mondo ricordi; questa popolazione è abituata ad uno standard di vita
Inquadramento storico di carattere generale
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L’economia durante la guerra mondiale era stata caratterizzata da:
1. Arresto degli scambi internazionali, a seguito dei blocchi avversari e della guerra marittima, che aveva
reso insicure le rotte commerciali;
2. Conseguente limitazione della produzione dei beni di consumo e loro razionamento, con relative
ripercussioni soprattutto sul quotidiano dei ceti medio-bassi;
3. Sviluppo smodato dell’industria bellica e successiva difficoltà di riconversione alla fine del conflitto;
4. Aumento della capacità produttiva negli Stati Uniti, fattore a cui si dovette un vero e proprio
spostamento del fulcro dell’egemonia economica a scapito dell’Europa;
5. Riduzione dei crediti esteri e contrazione delle riserve auree nei Paesi belligeranti (con l’eccezione
degli Stati Uniti, divenuti i maggiori creditori degli Stati europei, sia per i prestiti di guerra che per le
forniture commerciali e industriali);
6. Incremento della manodopera femminile (in sostituzione di quella maschile, impegnata al fronte),
generale diminuzione della produttività.
Con la fine delle ostilità, risultò tuttavia oltremodo difficile procedere ad una rapida ricostituzione del commercio e
del traffico mondiale, sia per il gran numero di Paesi che erano stati coinvolti nel conflitto e che adesso si trovavano
a dover affrontare problemi analoghi, sia per una serie di ostacoli che, sotto svariati aspetti, si erano venuti
delineando:
Presenza di dazi protezionistici imposti da numerosi Stati per favorire la ricostruzione delle economie
nazionali, privilegiando le industrie locali, a scapito delle importazioni dall’estero;
Trasformazione degli Stati Uniti da Stato debitore a Stato creditore (monopolio dell’oro), seguita da
una politica di ritorno all’isolazionismo, che portò all’applicazione di tariffe protettive su tutte le merci
importate ed alla drastica riduzione dell’immigrazione dai Paesi europei;
Sorgere di nuove barriere doganali in Europa in seguito alla formazione di altri Stati;
Sforzi verso l’autarchia dei singoli Stati per ovviare a difficoltà di approvvigionamento (la guerra di
logoramento aveva dimostrato che la vittoria non era appannaggio di chi avesse escogitato le migliori
strategie militari, ma di chi fosse stato in grado di avere a disposizione uomini e mezzi sempre efficienti, di
assicurarsi le maggiori scorte di viveri e di materie prime, di produrre la maggiore quantità di materiale
bellico);
Conseguenze negative dei provvedimenti di emergenza applicati dai vincitori verso le potenze sconfitte
(requisizione della “proprietà nemica”);
Caos monetario (inflazione e crollo di numerose monete), dovuto al finanziamento delle spese belliche
(stampa di cartamoneta);
Monopolio statale del commercio estero deciso dall’Unione Sovietica in omaggio ai principi della
pianificazione socialista.
Dopo i primi, faticosissimi anni di sforzi per la riconversione dell’economia alle condizioni del tempo di pace, ebbe
inizio un periodo di relativa prosperità, compreso grossomodo tra il 1924 ed il 1929. Furono anni di rapida
evoluzione della tecnica (razionalizzazione dei processi produttivi, standardizzazione, ecc.), con conseguente
sviluppo della grande industria meccanica, elettrica e chimica e progressiva concentrazione economica (spesso
con l’appoggio statale) attuata mediante la creazione di cartelli, trust, grandi banche e complessi industriali.
relativamente alto, di cui anche ora talune classi si prospettano un miglioramento piuttosto che un peggioramento.
In relazione agli altri continenti, l‟Europa non può bastare a sé stessa e, in particolare, essa non è in grado di
produrre i viveri che le sono necessari. […] Avanti la guerra questa popolazione si procurava i mezzi di
sussistenza, senza che le rimanesse un gran margine, attraverso una delicata e complicatissima organizzazione
basata sul carbone, sul ferro, sui trasporti e su un ininterrotto rifornimento di viveri e di materie prime da altri
continenti. Distrutta questa organizzazione ed interrotte le correnti dei rifornimenti, una parte di questa
popolazione viene privata dei mezzi di esistenza. L‟emigrazione non resta aperta all‟eccedenza di popolazione,
poiché occorrerebbero degli anni per trasportarla oltre oceano, anche se si potessero trovare paesi pronti a
riceverla. Il pericolo a cui ci troviamo di fronte quindi è quello di una rapida depressione del tenore di vita della
popolazione europea fino ad un punto tale che significhi l‟inedia assoluta per alcuni (punto già raggiunto dalla
Russia ed in via di essere raggiunto dall‟Austria). Gli uomini non saranno sempre disposti a morire
tranquillamente, poiché la fame, che spinge taluni all‟apatia e alla prostrazione, trascina altri temperamenti ad una
instabilità isterica e ad una folle disperazione. E questi, nella loro disperazione, possono sconvolgere quanto resta
ancora in vita della vecchia organizzazione e sommergere la civiltà stessa nel loro sforzo di soddisfare con
qualunque mezzo il prepotente bisogno individuale.”
Inquadramento storico di carattere generale
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Fig. 3 Flessione della produzione mondiale (in milioni di t) (da: “L‟Universale – La Grande Enciclopedia
Tematica – Atlante storico”, Garzanti Libri, 2003, Milano.)
La ruggente espansione economica degli Anni Venti ed il relativo aumento del reddito nazionale in tutti i Paesi
ammortizzarono la percezione della grande crisi ormai prossima, di cui non mancavano i sintomi: la grave
disoccupazione nei Paesi industriali europei, la stagnazione e, a volte, la caduta dei prezzi, causata da una
congiuntura di superproduzione agricola, con conseguenti bassi profitti e limitata distribuzione della ricchezza, la
smodata ascesa dei titoli in Borsa (soprattutto negli Stati Uniti), la diminuita richiesta di carbon fossile e di
prodotti dell’industria tessile.
Sull’esempio dell’economia dirigista bellica, nonché delle teorie economiche socialiste e dei piani quinquennali
dell’Unione Sovietica, venne affermandosi ovunque, in diverse forme, il principio dell’economia pianificata. Per
la crescente interdipendenza tra potere politico ed economico, il modello dell’economia nazionale con la sua
tendenza all’autarchia trovò terreno fertile per sostituirsi a quella internazionale di libero scambio.
Fig. 4 Lo sviluppo della disoccupazione nel mondo, 1929-1938 (da: “L‟Universale – La Grande Enciclopedia
Tematica – Atlante storico”, Garzanti Libri, 2003, Milano.)
Lo squilibrio tra il costo delle materie prime e quello dei manufatti, tra la produzione mondiale dei beni di consumo
e il limitato potere d’acquisto di gran parte delle masse, insieme con molte spericolate speculazioni, provocarono il
crollo della Borsa-valori di New York (24/10/1929) e l’inizio della cosiddetta “grande depressione”. Una crisi
economica devastante investì quasi tutti i Paesi europei. Vennero a mancare i crediti americani, diminuì
l’esportazione europea negli Stati Uniti e i prezzi di tutte le materie prime e dei prodotti agricoli subirono un
tracollo, determinando così fallimenti a catena, caduta dei prezzi, disoccupazione e crac bancari. Le reazioni che si
ebbero finirono per aggravare la crisi. Ciascun paese si illuse di limitarne le conseguenze ponendo ostacoli e barriere
all’altrui commercio estero o svalutando competitivamente la propria valuta, in modo da favorire le esportazioni, ma
l’unico risultato fu di costringere gli altri a fare altrettanto. Così, nel tentativo di risanamento delle devastate
economie nazionali, gli scambi internazionali divennero nel complesso più difficili.
Dopo il fallimento della Conferenza economica mondiale di Londra (1933), convocata per studiare un’azione
coordinata contro il caos, i governi dovettero intervenire per superare la crisi. Vennero adottati provvedimenti per il
controllo del credito, per la promozione di lavori pubblici che combattessero la disoccupazione (Stati uniti,
Germania), per la socializzazione di imprese (Gran Bretagna, Francia), per acquisti mirati a sostenere i prezzi delle
materie prime non facilmente piazzabili, per l’assegnazione di crediti alle industrie e per maggiori controlli di prezzi
e salari. Anche in questo caso, il ricorso ad un maggiore intervento del governo nella gestione del mercato seguiva la
Inquadramento storico di carattere generale
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direzione della tendenza alla pianificazione dell’economia ed al protezionismo autarchico. Perciò, nonostante
l’aumento della produzione industriale, gli sforzi ulteriormente incrementati verso l’autarchia e la tensione
internazionale ostacolarono il risanamento dell’economia in tutti i Paesi e favorirono esperimenti autoritari e
profondi rivolgimenti politici.
5. L’Italia tra le due guerre.
La conclusione vittoriosa della guerra portò in Italia una ventata di orgoglio nazionale e di entusiasmo. Eppure i
problemi post-bellici da affrontare erano enormi: oltre 600.000 morti, circa mezzo milione di mutilati, intere
province devastate, deficit, inflazione e costo della vita in rialzo, diminuzione delle forniture di carbone e di grano
dall’estero, industrie che stentavano a riprendere una normale produzione di pace. Gli occhi di tutti erano puntati
sulla Conferenza per la pace di Versailles, da cui ci si aspettavano grandi vantaggi territoriali ed economici, in
qualità di nazione facente parte della coalizione vincitrice.
All’inizio della guerra, l’Italia, ancora neutrale, si era staccata dalla Triplice Alleanza, avvicinandosi all’Intesa
franco-britannica per tutelare i propri interessi politici contro l’Austria-Ungheria in materia di irredentismo e
questione adriatica. Il 26 aprile 1915 aveva stipulato il Patto segreto di Londra, con il quale si impegnava ad entrare
nel conflitto a fianco dell’Intesa in cambio della promessa di estensione del confine alpino fino al Brennero,
dell’Istria, della Dalmazia, di alcune concessioni minerarie in Asia Minore e di ingrandimenti coloniali nell’Africa
tedesca.
La questione di Fiume, città che faceva parte dell’impero austriaco, ma a maggioranza di abitanti italiana, non era
stata presa in considerazione: si dava per scontato il fatto che, alla fine della guerra, l’impero austro-ungarico
sarebbe rimasto in piedi e che Fiume ne sarebbe stato l’unico porto sull’Adriatico, mentre Trieste e Pola sarebbero
state italiane. Invece l’impero si era smembrato e il 30 ottobre 1918 Fiume aveva dichiarato la propria indipendenza,
chiedendo poi di unirsi all’Italia, ma, in definitiva, rimanendo senza padrone.
In sede di Conferenza per la pace, la condotta puntigliosa del primo ministro Vittorio Emanuele Orlando in merito
alla situazione fiumana non ebbe altri effetti che una spartizione delle colonie tedesche solamente tra Francia, Gran
Bretagna e Giappone, il che relegava l’Italia ad un ruolo quasi di Nazione sconfitta.
12
Si parlò così di “vittoria
mutilata”, formula che andò ad aggiungersi al coacervo di livori, recriminazioni e frustrazioni che fioccavano tanto
dalla parte dei nazionalisti, degli ex combattenti, dei ceti borghesi, quanto dai ceti operai e medio-bassi in genere.
Il trattato di pace con l’Austria a St. Germain-en-Laye stipulò la cessione all’Italia dell’Alto Adige fino al Brennero,
di Trieste, dell’Istria e di alcuni territori in Dalmazia, Carinzia e Carniola.
Fiume rimase a lungo un vero e proprio pomo della discordia e teatro di scontri e violenze tra irredentisti e truppe
interalleate. Fu altresì il contesto in cui si snodò la vicenda della Legione Fiumana di Gabriele D’Annunzio ed in cui
vide la luce tutto l’apparato del futuro simbolismo fascista.
Ci volle il ritorno al governo di Giolitti per dirimere la questione fiumana, con la firma del Trattato di Rapallo tra
Italia e Jugoslavia (12 novembre 1920) .
Mentre si svolgevano questi fatti, l’Italia si scopriva un Paese profondamente diviso ed economicamente in crisi,
preda di rivendicazioni di ogni tipo, di scioperi, di tumulti, di disoccupazione. Era il cosiddetto “biennio rosso”
(1919-1920). I combattenti smobilitati, al ritorno dal fronte, si erano trovati in mezzo a difficoltà di tipo psicologico
ed economico e stentavano a reinserirsi nella società post-bellica, andando così ad ingrossare le fila dei disoccupati e
degli scontenti.
13
La crisi economica e la svalutazione della lira colpirono in particolar modo il potere d’acquisto dei
12
Indro Montanelli, “Storia d‟Italia – vol.37” , Fabbri Editori, 1999, Milano. Pag.91 e segg.: “Orlando, per
protesta, aveva abbandonato la Conferenza ed era ripartito con Sonnino per Roma. Vi fu accolto come un eroe,
dovette anche lui affacciarsi al balcone, e lasciandosi come al solito contagiare dagli umori della folla, pronunciò
parole che approfondivano ancor di più la rottura con gli Alleati. Egli era convinto che di fronte a quelle
dimostrazioni di unità e di concordia nazionale intorno al suo nome, costoro si sarebbero affrettati a richiamarlo a
Parigi.
Ma il richiamo non venne […]
In Italia, i furori nazionalistici che vi avevano ricreato un‟atmosfera da “maggio radioso” sbollirono di colpo per
lasciare il posto alle recriminazioni. […]La sera del 5 maggio, quasi di nascosto, Orlando e Sonnino risalirono sul
treno di Parigi, dove furono accolti quasi come due fastidiosi postulanti.”
13
Indro Montanelli, “Storia d‟Italia – vol.37” , Fabbri Editori, 1999, Milano. Pag.125 e segg.: “In questo clima di
demagogico oltranzismo, il partito [socialista] prese alcune decisioni che di lì a poco si sarebbero rivelate
rovinose. Una fu quella d‟intensificare la campagna contro la guerra proprio nel momento in cui questa volgeva al
suo vittorioso epilogo scatenandone un‟altra non solo contro coloro che l‟avevano voluta, ma anche contro coloro
che l‟avevano fatta come semplici soldati di leva. Fra di essi ce n‟erano molti che, tornati delusi dalle trincee, non
Inquadramento storico di carattere generale
14
salari dei ceti operai e contadini, ma non risparmiarono neppure i ceti medi delle professioni liberali ed i piccoli
proprietari di fondi rustici e immobili. Si moltiplicarono gli scioperi nelle fabbriche e tra i braccianti agricoli, con lo
scopo immediato di ottenere aumenti salariali e diminuzione degli orari di lavoro.
14
Galvanizzati dal successo della
rivoluzione russa e dai fermenti di rivolta in Germania, i dirigenti socialisti e sindacali dell’ala massimalista diedero
per imminente l’instaurazione di un regime di stampo sovietico anche in Italia. In realtà non c’era un’effettiva
preparazione per questo, gli scioperi e le occupazioni delle fabbriche erano episodi diffusi in tutto il Paese, ma privi
di una regìa politica unitaria, pertanto fallirono miseramente.
15
L’Italia dei ceti medi, però, era ormai stanca di
agitazioni e violenze e temeva seriamente l’instaurarsi di un regime di stampo bolscevico.
Avendo fiutato nell’aria questo crescente bisogno di normalità e di ordine, il giornalista dell’”Avanti!” nonché
reduce di guerra Benito Mussolini impose ai suoi Fasci di Combattimento (già Fasci d’Azione)
16
, fin quasi dalla loro
nascita (23 marzo 1919), una connotazione reazionaria, quale diga nei confronti della temuta sovversione rossa.
Tuttavia gli esordi politici del movimento alle prime elezioni con il sistema proporzionale, tenutesi il 16 ottobre
1919, furono un fiasco.
Con il tempo, il consenso riscosso dai Fasci andava crescendo in sempre più numerosi strati sociali.
17
L’ammissione
del movimento all’interno dell’arco costituzionale, voluta da Giolitti
18
, convinse definitivamente Mussolini a farne
un partito a tutti gli effetti, dotato di un’organizzazione che gli permettesse di controllare meglio le imbarazzanti
spinte eversive dei più turbolenti ras locali dei Fasci di combattimento.
Fu così che il 7 novembre 1921 nacque il Partito Nazionale Fascista (PNF), atto dal quale il fascismo assunse una
piena connotazione parlamentare.
Nel frattempo, però, il manganello aveva ripreso a imperversare con azioni che venivano deprecate dallo stesso
Mussolini, poiché gettavano ombre pesanti sul suo ruolo di tutore dell’ordine borghese proprio mentre i governi dei
partiti liberali fallivano uno dopo l’altro e riprendevano occupazioni e scioperi.
chiedevano di meglio che di arruolarsi sotto la bandiera rossa, e invece ne furono respinti come „complici della
borghesia‟. Un‟altra fu il rifiuto dogmatico e aprioristico di qualsiasi alleanza o intesa con altri partiti. Il
socialismo non si contentava di una parte del potere. Lo voleva tutto e da solo per sottrarsi a pericoli di
inquinamento. Turati era disperato. „Questo partito – scrisse alla Kuliscioff – ha la vocazione alla solitudine e
all‟impotenza‟.”
14
A. Tasca, “Nascita e avvento del fascismo”, Laterza, Bari, 1972
15
Ibid.
16
Indro Montanelli, “Storia d‟Italia – vol.38” , Fabbri Editori, 1999, Milano. Pag. 69: Mussolini, abbandonato da
tempo il socialismo neutralista, stava tentando di raccogliere intorno a sé l’interventismo di ogni provenienza: “I
primi a fornirgli reclute furono i futuristi, che da movimento culturale stavano tentando di trasformarsi in
movimento politico senza tuttavia riuscire a coagulare in un programma i loro contraddittori impulsi. In comune
avevano solo il passato d‟interventisti e valorosi combattenti. Per il resto c‟era di tutto, dal nazionalismo al
sovversivismo anarchico, tenuti insieme da un attivismo fine a sé stesso: non per nulla il loro motto era: marciare,
non marcire. Essi però erano riusciti a legare al loro carro gli arditi che tornavano dalle trincee con la nostalgia
della violenza, e ben decisi a perpetuarla. I fasci nacquero dalla loro fusione. Nel febbraio del ‟19 ce n‟erano già
una ventina.”
17
Indro Montanelli, “Storia d‟Italia – vol.38” , Fabbri Editori, 1999, Milano. Pag. 99. Una prima svolta alla
vicenda la impresse l’adesione ai Fasci da parte dei proprietari terrieri grandi e piccoli, terrorizzati dagli espropri
delle “leghe” rosse e bianche. Presero così avvio le mobilitazioni di squadre per spedizioni punitive.
Una seconda svolta si delineò, invece, in occasione delle elezioni previste per il maggio del 1921. Giolitti, fallito
ogni possibile accordo con i socialisti, non poté fare altro che attrarre nei suoi Blocchi Nazionali i fascisti, contando
sul fatto che, una volta al governo, la loro spinta eversiva si sarebbe esaurita. Ma così non fu.
Infine, per evitare un’alleanza tra socialisti e popolari che avrebbe isolato il fascismo, Mussolini giocò, con grande
scandalo tra le file dei suoi, la carta di un Patto di Pacificazione (2 agosto 1921) con i socialisti, che in sé non riuscì,
ma sortì l’effetto di un avvicinamento dei popolari al fascismo.
18
Indro Montanelli, “Storia d‟Italia – vol.38” , Fabbri Editori, 1999, Milano. Pagg.106-107: Una volta ottenuti dalla
mossa di Giolitti l’ammissione del fascismo nell’arco costituzionale e la sua investitura a tutore unico dell’ordine,
Mussolini e i suoi voltarono le spalle al Blocco giolittiano vincitore delle elezioni, rifiutando di partecipare al
governo e determinandone così la caduta: “A questo punto forse Giolitti capì che il suo piano di attirare Mussolini
nel gioco parlamentare e di macinarvelo era fallito. Il rifiuto dei fascisti di partecipare al governo significava
ch‟essi si proponevano di continuare nel Paese la lotta armata, per rintuzzare la quale sarebbe occorso un potere
stabile e autorevole, un Esercito e una Polizia sicuri, una pubblica opinione favorevoli: tutte condizioni che
mancavano. Per tenersi in piedi, avrebbe dovuto appoggiarsi al puntello infido dei popolari di Don Sturzo, da
sempre suo nemico. E il 15 giugno preferì dimettersi, passando la mano a Bonomi, il transfuga del socialismo che
insieme a Bissolati, a Cabrini e a Podrecca Mussolini aveva fatto espellere dal partito, e che ora militava in una
delle tante frazioni democratiche.”
Inquadramento storico di carattere generale
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In questo clima caotico, sotto la continua minaccia di una rivolta bolscevica e delle violenze della Milizia fascista, si
svolse l’intricata vicenda della Marcia su Roma (28-30 ottobre 1922), che portò Mussolini al governo dell’Italia e
chiuse il periodo della “Rivoluzione”delle camicie nere.
Ormai stanca dei disordini dei 3 anni precedenti, costantemente sull’orlo di una guerra civile, l’Italia appoggiava
sempre di più Mussolini, lo “Stato forte”, al quale erano richiesti ordine, legalità e stabilità, e pazienza se la libertà
veniva limitata.
Seguirono una serie di provvedimenti, con i quali Mussolini imbrigliò definitivamente le azioni dei suoi, rafforzando
contemporaneamente la propria immagine
19
e la propria posizione istituzionale. La crisi legata all’omicidio
Matteotti (10 giugno 1924), la conseguente protesta dell’Aventino da parte dell’opposizione parlamentare ed una
ripresa delle azioni squadriste sembrarono mettere alle corde il governo di Mussolini. Questi, però, reagì con una
mossa a sorpresa e il 3 gennaio 1925, alla riunione della Camera, pronunciò un discorso, con il quale egli si
identificava col fascismo, delle cui azioni si assumeva la piena responsabilità, minacciando di scatenarlo anche
contro i deputati dell’Aventino pur di ottenere la normalizzazione. Seguivano l’annuncio di una serie di
provvedimenti, volti a sciogliere le organizzazioni sovversive, a stroncare le violenze delle squadre e a reprimere la
libertà di stampa. Era l’inizio della dittatura, anche se, lì per lì, in pochi se ne accorsero.
20
Il 2 ottobre 1925, l’accordo tra la CGL e la Confederazione delle Corporazioni fasciste sancì la fine del sindacalismo
libero (patto di Palazzo Vidoni). Gli attentati di cui Mussolini fu oggetto nel 1926 gli offrirono il destro per dare una
stretta autoritaria al regime senza incontrare ostacoli, nemmeno da parte del Re. Vennero imposte una revisione di
tutti i passaporti e pene severe per chi avesse tentato l’espatrio clandestino, l’eliminazione delle pubblicazioni
contrarie al regime, il confino e la reclusione per gli oppositori, l’istituzione dell’OVRA (Opera di Vigilanza e
Repressione dell’Antifascismo), di un Tribunale speciale per la difesa dello Stato fascista ed il ripristino della pena
di morte per i reati più gravi.
La politica economica fascista, come del resto quella di tutti gli altri paesi europei, data la recente lezione appresa
durante la Grande Guerra, si mosse con decisione in direzione del protezionismo e
dell’autarchia, applicati in modo che il prestigio nazionale prevalesse sulle questioni tecniche e la supremazia dello
Stato si affermasse su ogni particolarismo.
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Mussolini si mosse in 3 direzioni:
1) La difesa della Lira: subito dopo il conflitto, in regime di libero mercato e per effetto dell’economia di guerra,
l’esportazione dei prodotti industriali aveva avuto un’impennata, che aveva comportato un aumento della
circolazione monetaria, con relativa svalutazione della Lira. Il problema principale era la necessità di bloccare
l’inflazione senza aumentare troppo il costo della moneta, per non danneggiare le esportazioni, l’industria e
l’agricoltura.
Il Duce, invece, oltre al riassetto economico, aveva bisogno anche di qualcosa da sfruttare a livello propagandistico.
Siccome nel 1922, all’inizio dell’era fascista, il cambio Sterlina-Lira era a quota 90, bisognava riportarlo a quel
valore. A nulla servirono i mugugni di esperti, industriali e agrari nei confronti del provvedimento: il
raggiungimento di questo obbiettivo fu considerato una vittoria del Regime, punto e basta.
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In seguito all’assassinio di Don Minzoni, Mussolini pose un freno alle violenze delle camicie nere in 3 mosse: 1)
Istituzione del Gran Consiglio del Fascismo, con cui obbligava i ras che ne facevano parte a far accettare le sue
decisioni alle squadre; 2) Istituzione della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (MVSN), esercito fascista
fedele al Duce, accettato obtorto collo dal Parlamento e dal Re; 3) Assorbimento dei Nazionalisti di Federzoni nel
PNF.
A questi provvedimenti seguirono la partecipazione di Mussolini alla Conferenza di pace di Losanna fra Turchia e
Grecia e la spinosissima questione di Corfù, la cui soluzione fu sfruttata con successo a scopi propagandistici dal
Duce, in modo da presentarsi con un’aura vincente alle elezioni del 6 aprile 1924, caratterizzate da una riforma
elettorale voluta allo scopo di poter contare su una maggioranza di governo stabile e vinte dal Listone fascista.
20
Indro Montanelli, “Storia d‟Italia – vol.39” , Fabbri Editori, 1999, Milano. Pag. 126: “Eppure molti non capirono
che col discorso del 3 gennaio il fascismo cambiava volto, e diventava dittatura. Non lo capì il Re, che si dolse, ma
a mezza voce soltanto, di non esserne stato informato. Non lo capì l‟Aventino che interpretò l‟accaduto non come
un epilogo, ma come l‟inizio della „fase estrema del conflitto fra la dominazione fascista e il Paese‟. Non lo capì
Turati che lo scambiò per uno „dei soliti bluff per disorientare e spaventare le passere‟.”
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Odon Por, “Materie prime ed Autarchia”, Quaderni dell’Ist. Nazionale di Cultura Fascista n°4, Roma 1937, pag.
41: “Spogliata da tutti gli elementi contingenti e ridotta alla sua essenza, la tendenza all‟autarchia non è altro che
la volontà di ogni nazione di lavorare, di creare e di applicare tutti i mezzi che la scienza offre per valorizzare tutte
le energie e risorse del proprio territorio, perché tutta la sua popolazione possa godere di un livello di vita
decoroso e civile. Il primo impulso all‟autarchia viene dunque dal fatto che i popoli non vogliono più vedere le
proprie risorse in istato potenziale quando simili risorse sono sfruttate con vantaggio in altri paesi. Produrre in
casa propria è diventato una questione di dignità nazionale che ogni cittadino consapevole sente e propugna.”