8
al previsto, delle dichiarazioni di fallimento tanto da indurre il legislatore a
presentare, nell'ambito appunto del decreto correttivo, una disposizione che,
introducendo un terzo requisito, dovrebbe allargare l'area dei fallimenti. A
partire dal 1° gennaio 2008, per non fallire, oltre ai due requisiti già richie-
sti bisognerà avere altresì un ammontare di debiti, anche non scaduti, non
superiore ad euro cinquecentomila. Il decreto correttivo aggiunge, così, un
parametro, quello dell'indebitamento, ai due precedenti, e richiede in più il
possesso congiunto di tutti e tre i requisiti, addossandone l’onere della pro-
va al debitore.
Una tutela in più è stata poi approntata a favore del promissario
acquirente dell'immobile ad uso abitativo, includendo il relativo preliminare
di vendita, concluso a giusto prezzo, tra i casi di esenzione da revocatoria di
cui al terzo comma, lettera c, dell’articolo 67, con l'ulteriore previsione di
esclusione, per il curatore, della facoltà di sciogliersi dal vincolo negoziale,
in base al nuovo art. 72 l.fall.
Ancora una sterzata nel senso della privatizzazione va registrata con
la disposizione rettificatrice in tema di programma di liquidazione: nel testo
del 2006 è, infatti, previsto che il programma, atto fondamentale del curato-
re fallimentare, sia approvato, ex art. 104-ter, dal giudice delegato, acquisi-
to il parere favorevole del comitato dei creditori. In futuro, invece, non sarà
più richiesta l’autorizzazione del giudice, che viene spogliato quindi anche
di questa residuale forma di controllo preventivo sull'attività del curatore.
Il decreto correttivo punta inoltre a rivedere l'assetto dei concordati in
maniera da rendere più conveniente il ricorso alle forme stragiudiziali di
soluzione delle crisi d'impresa. Sul punto viene perciò estesa anche al con-
cordato preventivo la possibilità di pagamento solo parziale dei creditori
privilegiati, così da equilibrarne la convenienza rispetto al concordato falli-
mentare, divenuto, nell’ultimo anno, la via più comoda per uscire da una si-
tuazione d’insolvenza.
9
Un’ulteriore ritocco è stato in più effettuato all’istituto dell’esdebi-
tazione, che il decreto correttivo estende alle procedure pendenti alla data di
entrata in vigore del decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 e, per quelle
nel frattempo già chiuse, precisa che la domanda può essere comunque an-
cora presentata entro un anno decorrente dal 1° gennaio 2008, data di entra-
ta in vigore del decreto correttivo stesso.
Quanto al tema che più da vicino ci riguarda, e cioè i rapporti tra ar-
bitrato e procedure concorsuali, occorre dire che nulla, o quasi, è cambiato
anche a seguito di quest’ulteriore riforma della legge fallimentare.
Invariato è rimasto, infatti, l’art. 83-bis l.fall. che tratta del destino
dell’arbitrato pendente a seguito dello scioglimento del contratto in cui è
contenuta la clausola compromissoria.
All’art. 35 l.fall., che conferisce al curatore il potere di stipulare
compromessi dietro l’autorizzazione del comitato dei creditori, è aggiunto
un nuovo comma dopo il primo che recita «Nel richiedere l'autorizzazione
del comitato dei creditori, il curatore formula le proprie conclusioni anche
sulla convenienza della proposta».
All’art. 24 l.fall., sulla competenza del tribunale fallimentare a cono-
scere tutte le azioni che derivano dal fallimento, è abrogato il secondo com-
ma che richiama le disposizioni del codice di procedura civile sui procedi-
menti in camera di consiglio.
Infine, all’art. 25, primo comma, n. 6, l.fall. le parole «agli avvocati»
sono sostituite da «ai difensori»; così che il curatore, che sia subentrato o
abbia dato vita ad un procedimento arbitrale, avrà il potere, riconosciuto
espressamente dalla norma in questione, di nominare qualsiasi persona, che
sia un avvocato, un commercialista, un ingegnere oppure un medico, idonea
ad assumere la difesa nel giudizio.
11
CAPITOLO I
Arbitrato e materie compromettibili
-Limiti propri dell’istituto e limiti imposti dalle procedure concorsuali-
SOMMARIO: 1. Arbitrato. Concetti e definizioni generali. - 2. Segue: Arbitrato e sua
natura. - 3. Tipologie d’arbitrato: obbligatorio, facoltativo da legge, istituzionale; di di-
ritto o d’equità; nazionale, estero o internazionale. - 4. Controversie arbitrabili e non
alla luce del nuovo art. 806 c.p.c. - 5. Limiti alla compromettibilità imposti dalle caratte-
ristiche stesse dell’istituto arbitrale. - 6. Segue: Implicazioni in materia fallimentare. In
particolare: interferenze con la verificazione del passivo. - 7. Segue: Implicazioni nelle
altre procedure concorsuali. - 8. Spazio arbitrabile residuo.
1. Arbitrato. Concetti e definizioni generali.
Prima di entrare nel vivo della trattazione credo sia opportuno
dedicare alcune pagine al tema dell’arbitrato alla luce anche dei cambia-
menti apportati dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 contenente “modifiche al
codice di procedura civile in materia di processo di cassazione in funzione
nomofilattica e di arbitrato” emanato sulla base della delega contenuta
nella l. 14 maggio 2005, n. 80, per darne un’impronta generale ed avere così
delle fondamenta solide su cui costruire il nostro discorso.
L’arbitrato costituisce il più rilevante strumento di risoluzione delle
controversie civili alternativo rispetto alla giurisdizione civile ordinaria,
ampiamente utilizzato nella pratica e caratterizzato da due aspetti fonda-
mentali: sono le parti a decidere espressamente di rinunciare alla tutela
offerta loro dall’ordinamento giudiziario; sono sempre le parti della
controversia a scegliere, nella convenzione di arbitrato, chi dovrà deciderla.
In altre parole, l’arbitrato sarà il frutto di una libera scelta in suo favore e in
luogo della giurisdizione dello Stato. Non si può avviare un arbitrato o tanto
12
più esservi coinvolti in assenza di un esplicito consenso, manifestato da
entrambe le parti per iscritto, a seguire tale via in alternativa a quella
giudiziaria.
Ma questa scelta è sempre possibile? Partendo dall’assunto che la
nostra Costituzione non prevede nulla in tema di arbitrato, mentre invece
sembrerebbe riservare l’attività giurisdizionale all’autorità giudiziaria stata-
le ex art. 102, primo comma, Cost.
(1)
, ci fu chi, in passato, dubitò della
conformità a Costituzione delle norme che il codice di procedura civile
dedicava, e dedica tuttora, a quest’istituto (art. 806 ss.). La prima risposta
della Corte,
(2)
risalente agli inizi degli anni sessanta, non fu indirizzata
nell’affermare l’assoluta irrilevanza della questione, ma dichiarò l’infonda-
tezza della medesima in quanto allora era previsto che la decisione arbitrale
dovesse essere necessariamente convogliata nell’alveo della giurisdizione,
così finendo con l’essere in un certo senso “statalizzata”. All’epoca, infatti,
gli arbitri, se non volevano che la decisione da loro presa perdesse efficacia,
avevano l’onere di depositare il lodo presso la pretura in modo tale che il
giudice statale, previa verifica di regolarità, lo dichiarasse esecutivo con
decreto, trasformandolo così in sentenza. Era dunque l’organo giurisdi-
zionale che conferiva al lodo arbitrale la piena efficacia esecutiva di senten-
za, solo con quel decreto la decisione arbitrale entrava nel mondo del diritto
e vi entrava come «sentenza».
(3)
Risposta, questa della Corte, in linea con l’ideologia di uno Stato
ispirato ad una concezione forte di sovranità e comprensibile alla luce delle
norme vigenti all’epoca. In seguito, però, all’emanazione della l. 9 febbraio
1983 n. 28, con cui si introdusse l’ultimo comma dell’art. 823 che recitava
«il lodo ha efficacia vincolante tra le parti dalla data della sua ultima
sottoscrizione», il legislatore riconobbe realtà e valore giuridico alla deci-
(1)
Art. 102 Cost., c.1 «La funzione giurisdizionale è esercitata dai magistrati ordinari istituiti e
regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario.»
(2)
Corte Cost. 12 febbraio 1963 n. 3, in Foro it., I, 1963, p. 397.
(3)
Disponeva, al riguardo, l’originario art. 825 c.p.c., c. 5, relativo al “Deposito del lodo” «Il de-
creto del pretore conferisce al lodo efficacia di sentenza». Comma abrogato dalla l. 5 gennaio
1994 n. 25.
13
sione arbitrale in sé e per sé, non rinunciando tuttavia ancora alla possibilità
di elevare il valore della pronuncia arbitrale facendogli raggiungere, col de-
creto di exequatur, l’efficacia di sentenza. Rinuncia che avvenne una decina
di anni più tardi a seguito della riforma, operata con l. 5 gennaio 1994 n. 25,
con il quale il legislatore abbandonò definitivamente l’idea che il lodo fosse
meno che sentenza e che potesse crescere in valore per decreto pretorile
acquistandone la stessa efficacia.
(4)
La Corte Costituzionale, alla luce del
nuovo orientamento legislativo che riconosceva valore immediato ed incon-
dizionato al lodo come strumento di decisione delle controversie, facendo
dipendere dal decreto del giudice statale solo la sua esecutività, intervenne
nuovamente sulla questione correggendo il suo precedente orientamento. Le
pronunce furono molteplici fino alla recente decisione dell’8 giugno 2005,
n. 221 in cui la Corte ha evidenziato come l’art. 24 Cost., quando prevede
che «Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e inte-
ressi legittimi», obbliga lo Stato ad apprestare l’organizzazione giudiziaria
indispensabile per garantire tale diritto ma non pone un vincolo nei con-
fronti dei cittadini a farvi ricorso. Questi ultimi possono decidere in piena
autonomia di non tutelare i propri diritti così come possono decidere di
tutelarli diversamente, optando per una via alternativa al giudice statale,
l’arbitrato appunto.
(5)
Il fondamento dell’arbitrato dal punto di vista negativo sta, quindi,
nell’art. 24 Cost. e dal punto di vista positivo nell’autonomia privata.
Sulla scia di questo orientamento, da ultimo il legislatore, con il d.lgs.
2 febbraio 2006, n. 40, è intervenuto in maniera autoritaria e ha soppresso
l’ultimo comma dell’art. 823, inserendo al suo posto l’art. 824-bis che recita
«Salvo quanto disposto dall’art. 825, il lodo ha dalla data della sua ultima
sottoscrizione gli effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudizia-
(4)
Sull’argomento vedi LA CHINA, L’arbitrato: Il sistema e l’esperienza, Milano, 2004, p. 11;
AA.VV., Transazione, arbitrato e risoluzione alternativa delle controversie, coordinato da Giu-
seppe Cassano, Torino, 2006, p. 255 ss.
(5)
In proposito VERDE, Lineamenti di diritto dell’arbitrato, Torino, 2006; CASSANO - NISATI,
La riforma dell’arbitrato, Milano, 2006.
14
ria». Si chiude così in senso positivo, e con una chiara e definitiva afferma-
zione di “autonoma efficacia” del lodo in sé, rispetto al decreto del giudice
statale, che non ha più la funzione che aveva un tempo di “statalizzare” la
decisione degli arbitri, la questione relativa alla costituzionalità del proce-
dimento arbitrale.
2. Segue: Arbitrato e sua natura.
Quest’ultima riforma ha influito inoltre sulla disputa, ormai quasi cen-
tenaria, che la dottrina ha condotto attorno alla natura giuridica dell’arbi-
trato. Il dibattito dottrinale si è sviluppato prendendo le mosse da due pecu-
liari aspetti dell’istituto: da un lato la sua origine convenzionale (la conven-
zione d’arbitrato, termine introdotto dal d.lgs. n. 40/2006 che così intitola il
capo I del titolo VIII, libro IV c.p.c., è un atto di origine contrattuale);
dall’altro la sua conclusione con un provvedimento, il lodo, somigliante ad
una sentenza e munito dell’esecutorietà.
(6)
Per cui si trattava di stabilire
quanto il procedimento rimanesse ancorato alla sua fase iniziale, caratteriz-
zata dalla manifestazione del consenso delle parti di rimettere agli arbitri il
compito di dirimere la controversia tra loro insorta, in modo da consacrare
la prevalenza di quel momento, a carattere negoziale, su quello processuale
degli effetti del lodo.
A confronto venivano quindi la tesi di chi sosteneva la natura priva-
tistica dell’arbitrato (rituale), considerando preminente il momento genetico
dell’accordo compromissorio, e la tesi che riteneva l’istituto a natura pub-
blicistica sulla base del rilievo che il momento finale, rappresentato dal de-
creto di exequatur, attraeva ab initio tutto il procedimento nella sfera della
giurisdizione. Secondo i sostenitori della teoria privatistica, o anche contrat-
tualistica,
(7)
l’arbitrato era totalmente sprovvisto di contenuto giurisdizio-
(6)
Sul punto vedi RUBINO SAMMARTANO, Il diritto dell'arbitrato, Padova, 2006, p. 31, nel
quale l’Autore dedica ampio spazio al tema, ponendo l’accento sulla “doppia anima dell’istituto
arbitrale”.
(7)
Tra i primi, su questa linea, CHIOVENDA, Principi di diritto processuale civile, Napoli, 1923
p. 110, e Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, 1935, p. 70.
15
nale: gli arbitri effettuerebbero un giudizio meramente logico, il quale reste-
rebbe nella sfera dell’attività privatistica, che il giudice ordinario trasforme-
rebbe in sentenza attraverso il decreto di exequatur. Per la teoria privatistica
quindi l’attività degli arbitri non poteva assumere mai rilevanza proces-
suale.
(8)
Di contrario avviso erano, invece, i fautori della teoria processuali-
stica,
(9)
secondo i quali la convenzione arbitrale era, sì, un negozio di diritto
privato, ma produttivo di effetti processuali ed il potere degli arbitri traeva
origine, prima ancora che dal mandato ricevuto dalle parti, dalla volontà
della legge che, con disposizioni espresse contenute nel c.p.c., consentiva
alle parti di ricorrere a tale tipo di procedimento. Gli arbitri quindi, secondo
tale teoria, svolgerebbero un’attività giurisdizionale, originata dalla legge
che consente alle parti di dare ad essa vita.
In una posizione intermedia tra le due suddette teorie si collocava
l’idea di Carnelutti
(10)
secondo il quale, stabilito che la decisione arbitrale
non era una sentenza in quanto necessitava del decreto pretorile per diveni-
re, sia esecutiva, ma anzitutto obbligatoria e che gli arbitri ed il giudice,
quindi, concorrevano entrambi alla formazione dell’atto che decideva la
controversia, la sentenza era costituita sia dal lodo che dal decreto del preto-
re, qualificandosi come un “atto complesso ineguale”, alla cui formazione
contribuivano, come detto, sia gli arbitri nel deliberare il lodo, sia il giudice
nell’emettere il decreto.
In tale quadro dottrinale si inserì la Novella del 1983 la quale aggiunse
all’art. 823 il comma, già richiamato in precedenza, che attribuiva al lodo
efficacia vincolante tra le parti dalla data della sua ultima sottoscrizione,
rendendolo quindi obbligatorio a prescindere dal successivo decreto preto-
rile. Un’importante novità questa, rispetto al regime precedente, che consi-
(8)
Dello stesso parere sono BETTI, Diritto processuale civile italiano, Roma, 1936; ROCCO,
Trattato di diritto processuale civile, Torino, 1966, per il quale l’attività dell’arbitro è priva, come
il parere di un privato, di alcuna efficacia obbligatoria.
(9)
Tra cui, fra tutti, MORTARA, Commentario del codice e delle leggi di procedura, Milano,
1923, p. 34 che rilevava nell’arbitrato la piena funzione giurisdizionale.
(10)
CARNELUTTI, Arbitrato estero, in Riv. dir. comm. 1961, p. 3741.
16
derava, addirittura, inesistente il lodo non depositato e consentiva di ecce-
pire tale invalidità in ogni sede ed in qualsiasi momento. La modifica intro-
dotta non risolse, però, il conflitto esistente tra i due schieramenti dottrinali,
anzi, tanto la teoria privatistica che la teoria processualistica la interpretaro-
no nel senso che essa rafforzava la loro rispettiva posizione. La Novella,
dunque, lungi dal dirimere il contrasto tra le due fazioni, lo aveva riacceso.
Mentre, infatti, secondo la precedente normativa, il procedimento, sino
all’exequatur, non era completo e quindi si riteneva non producesse effetti
processuali; con la modifica il legislatore aveva attribuito compiutezza al
lodo in sé, rendendolo, quindi, produttivo di effetti che, se non potevano
certo essere effetti esecutivi in quanto questi dipendevano sempre dal decre-
to pretorile, dovevano essere degli effetti decisionali. Rimaneva ancora da
stabilire, però, se questi ultimi avessero natura negoziale o già processuale,
e su questo punto continuava a scontrarsi la dottrina.
(11)
A distanza di circa dieci anni la disputa dottrinale sulla natura giuridi-
ca dell’arbitrato toccò una seconda tappa decisiva con la riforma del 1994.
Il testo di tale legge, come detto nel paragrafo precedente, riprendeva il te-
ma degli effetti vincolanti attribuiti alla decisione arbitrale, prima dell’exe-
quatur, dalla Novella del 1983, incidendo profondamente sull’art. 825,
abrogandone la parte in cui si stabiliva che «il decreto del pretore confe-
risce al lodo efficacia di sentenza» e inserendo al suo posto un 3° comma,
ancora oggi in vigore, il quale prevedeva che «Il lodo reso esecutivo è sog-
getto a trascrizione, in tutti i casi nei quali sarebbe soggetta a trascrizione
la sentenza avente il medesimo contenuto», abbandonando, così, definiti-
vamente l’idea che il lodo potesse essere un atto negoziale risultante da
un’attività demandata agli arbitri dall’autonomia privata delle parti e che
(11)
Per un maggiore approfondimento sul punto vedi RUBINO SAMMARTANO, Il diritto
dell'arbitrato, Padova, 2006, p. 36; CASSANO - NISATI, La riforma dell’arbitrato, Milano,
2006, p. 7; e MANDRIOLI, Corso di diritto processuale civile, 9° ediz., Torino, 1993, p. 371, ove
si sostiene che l’efficacia del lodo non depositato «debba essere intesa come un’efficacia non
ancora piena, o prodromica, rispetto a quella propria della sentenza; efficacia che già vincola le
parti perché la legge così dispone, ma che è fondata su un accertamento in itinere, ossia su un
accertamento che sta per divenire, pur non essendolo ancora, quello proprio della sentenza».
17
potesse, successivamente, acquisire l’efficacia propria di una sentenza sol-
tanto a seguito del decreto pretorile. Già la relazione al disegno di legge
presentato alla Commissione Permanente di Giustizia affermava, infatti, che
«il lodo ha, fin dalla sua deliberazione e sottoscrizione, effetti di accerta-
mento analoghi a quelli di una sentenza», effetti di natura immediatamente
giudiziaria quindi, senza dover attendere il decreto del pretore che si sareb-
be cercato di ottenere quante volte fosse stato necessario, alla parte, utiliz-
zare il lodo per procedere all’esecuzione forzata.
Il cambiamento di rotta era dunque netto, ed apparentemente favore-
vole alla teoria processualistica;
(12)
questo però non significava dimenticare
la natura contrattuale della convenzione arbitrale ma, bensì, tener presente il
rilievo di Carnelutti, secondo il quale «il procedimento arbitrale trae ori-
gine solo in via indiretta dalla volontà delle parti ma in primo luogo e
soprattutto dalla volontà della legge, che consente alle parti di scegliere, in
alternativa al giudice statale, i propri arbitri, così come la procedura da
applicarsi». La “doppia anima” del procedimento arbitrale, così come
sottolineato da Rubino Sammartano, è un’immagine figurata che fonde in sé
tali elementi, l’autonomia privata e sopra di essa la volontà della legge, aiu-
tando a rendere un po’ più chiara la natura dell’arbitrato.
Arriviamo, così, all’ultima riforma attuata con il D.lgs. 2 febbraio
2006, n. 40 che, come già anticipato, inserendosi nel filone tracciato dalla
precedente modifica, ha eliminato l’ultimo comma dell’art. 823 nel quale si
attribuiva al lodo efficacia vincolante alla data della sua ultima sottoscri-
zione, introducendo un, ben più esplicito, articolo 824-bis in cui si stabilisce
(12)
Ritenevano che il lodo arbitrale avesse gli stessi effetti della sentenza sin dall’ultima sottoscri-
zione ed a prescindere dall’exequatur del pretore, dopo la l. 25/1994: RICCI, L’efficacia
vincolante del lodo arbitrale dopo la legge n. 25 del 1994, in Riv. dir. proc. civ., 1994, p. 809;
TARZIA, in Tarzia, Luzzatto, Ricci, Legge 5 gennaio 1994, n. 25. Nuove disposizioni in materia
di arbitrato e disciplina dell’arbitrato internazionale, Padova, 1995, p. 171; MONTESANO, Sugli
effetti del nuovo lodo arbitrale e sulle funzioni della sua omologazione, in Riv. dir. proc. civ.,
1994, p. 821; BRIGUGLIO, Impugnabilità ed efficacia del lodo non omologato dopo la legge di
riforma n. 25 del 5 gennaio 1994, in Giust. civ., 1994, p. 295.
Sempre dopo la l. 25/1994, riteneva che il lodo avesse efficacia negoziale sia prima che
successivamente all’exequatur del pretore: PUNZI, I principi generali della nuova normativa
sull’arbitrato, in Riv. dir. proc., 1994, p. 331; ID., L’efficacia del lodo arbitrale, in Riv. dir. proc.,
1995, p. 10.
18
che il lodo, sempre alla data della sua ultima sottoscrizione, non produce
una mera efficacia vincolante tra le parti ma, bensì, ha «gli effetti della
sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria», tentando, in tal modo, di
mettere a tacere la voce di coloro i quali sostenevano ancora la natura nego-
ziale dell’arbitrato rituale. Così, però, non è stato, ed, a parte il giusto rilie-
vo di Satta,
(13)
secondo cui non spetta al legislatore determinare la natura
giuridica di un istituto, vi sono tuttora autorevoli autori che sostengono a
gran voce, e con argomentazioni valide, la natura prettamente privata
dell’istituto arbitrale. Su tutti Punzi,
(14)
il quale sottolinea che, attraverso
l’odierna previsione che ripropone la formula della “efficacia di sentenza”
già presente, fino alla riforma del 1994, nel codice di procedura civile, ove
veniva ricollegata al lodo munito dell’exequatur giudiziale, il legislatore
non fa che riproporre quelle discussioni già sorte, appunto prima della legge
del 1994, circa la portata normativa della locuzione in questione. Sostiene
poi l’autore che il legislatore, con il ribadire che il campo in cui opera
l’arbitrato coincide con l’area dei diritti disponibili, indirettamente ha finito
per confermare il fondamento negoziale dell’istituto. Da tale previsione di-
scende, infatti, con chiarezza che l’arbitrato vive e si fonda sull’autonomia
privata. La potestas iudicandi degli arbitri deriva direttamente e soltanto
dalle parti litigiose per effetto della stipulazione, ad opera di quest’ultime,
del patto compromissorio; ne consegue che gli arbitri, a differenza dei giu-
dici togati, sono condizionati nell’esercizio della loro funzione dagli stessi
limiti che incontrano le parti nelle manifestazioni dell’autonomia privata,
ossia il limite della disponibilità dei diritti e del rispetto delle norme inde-
rogabili di ordine pubblico. L’ufficio esercitato dagli arbitri ha, dunque, per
la fonte privata dell’investitura, natura anch’esso privata. Con la stipulazio-
ne del patto compromissorio le parti compiono una scelta di autonomia e di
libertà ottenendo il risultato di escludere l’azione e la giurisdizione ordina-
(13)
SATTA, Commentario al codice di procedura civile, IV, Milano, 1971, p. 162.
(14)
PUNZI, Ancora sulla delega in tema di arbitrato: riaffermazione della natura privatistica
dell'istituto, In Riv. di dir. process., 2005, p. 975 e ss, dove vengono affrontati i problemi vecchi e
nuovi della configurazione processualistica dell’istituto arbitrale.
19
ria, ma se essi possono scegliere con tutta libertà, nell’ambito dei diritti
disponibili, di far decidere una controversia privatamente, non possono però
conseguire quei risultati e quell’effetto di cosa giudicata sostanziale che
compete solo alle sentenze dello Stato.
(15)
Lo stesso Satta, già diversi anni fa, avvertiva che se spetta ai privati
poter risolvere la lite senza il ricorso al giudice statale, essi non possono
creare o far creare da privati delle sentenze; secondo l’A. lo Stato non ha il
monopolio del diritto, ma il monopolio della forza, la quale non si manife-
sta solo nella esecuzione forzata, ma anche nella emanazione della sentenza
per la forza del giudicato materiale che l’accompagna.
(16)
Di diverso avviso Ricci
(17)
che da sempre, in armonia con la soluzione
preferita negli altri Paesi, sia europei che extraeuropei, ha sostenuto che il
lodo, anche in passato, avesse gli effetti propri della decisione giudiziaria, e
che ha, dunque, accolto con favore l’ultima modifica apportata al c.p.c. dal
legislatore che, come ormai più volte detto, stabilisce la perfetta equivale-
(15)
Vedi PUNZI, Ancora sulla delega in tema di arbitrato: riaffermazione della natura privatistica
dell'istituto, In Riv. dir. proc., 2005, p. 976, dove l’A. sostiene che «è indubbio che anche il lodo
ha una sua valenza imperativa, nel senso che con esso gli arbitri decidono la lite; ma tale valenza
imperativa o di comando è, a mio avviso, la stessa che nel nostro ordinamento viene assegnata al
contratto, del quale, appunto, il codice metaforicamente dice che “ha forza di legge tra le parti”»;
vedi anche, Id., Disegno sistematico dell'arbitrato, Vol. II. Padova, 2000, p. 87, interessante anche
il rilievo di CURTI, L'arbitrato: Le novità della riforma, D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, Milano-
fiori, Assago, 2006, p. 10, secondo cui la riforma ha chiarito che l’arbitrato ha natura privatistica
escludendo espressamente, all’art. 813, che gli arbitri possano essere qualificati pubblici ufficiali o
incaricati di pubblico servizio. Tale norma toglierebbe ogni possibile dubbio circa la natura priva-
tistica del procedimento arbitrale. L’arbitrato è un procedimento non processuale, alternativo alla
A.g.o., gestito da privati, secondo criteri e regole di natura privatistica.
(16)
SATTA, Diritto processuale civile, Padova, 1959, p. 631; in senso non troppo dissimile vedi
PUNZI, Disegno sistematico dell'arbitrato, Vol. I, Padova, 2000, p. 31, ove, riprendendo un pen-
siero di Capaccioli, afferma che essenziale ed esclusiva per lo Stato non è la riserva del potere di
risolvere le controversie, che possono essere tranquillamente decise anche da privati, bensì la riser-
va, il monopolio della forza, cioè il potere di dare efficacia esecutiva alla decisione; di recente, poi,
un’autorevole dottrina ha proposto di inquadrare l’istituto dell’arbitrato nell’ambito della c.d. «giu-
risdizione privata», vedi in tal proposito VERDE, Sul monopolio dello Stato in tema di giurisdizio-
ne, In Riv. dir. proc., 2003, p. 371 e ss.; AA. VV., Studi in memoria di Angelo Bonsignori, Milano,
2004, Pubblico e privato nel processo arbitrale, a cura di Giovanni Verde, p. 811 e ss.; ed ancora
VERDE, Lineamenti di diritto dell'arbitrato, Torino, 2006, p. 150; nei quali l’A., mettendo in
discussione che la giurisdizione sia una funzione esclusiva dello Stato e arrivando ad affermare
che per aversi giurisdizione non importa che ad esercitarla sia un giudice dello Stato ma è suffi-
ciente che sia un terzo imparziale, inquadra l’arbitrato nella giurisdizione privata e l’opzione per il
giudice privato come frutto dell’autonomia delle parti.
(17)
Vedi RICCI, La delega sull’arbitrato, In Riv. dir. proc., 2005, p. 953; ma anche, in passato,
sempre RICCI, Sulla efficacia del lodo arbitrale rituale dopo la legge 9 febbraio 1983, n. 28, In
Riv. dir. proc., 1983, p. 635.
20
nza tra lodo arbitrale e sentenza giudiziaria circa gli effetti di accertamento
e costitutivi, mantenendo, dunque, in vita l’istituto della c.d. “omologa” al
solo fine di attribuire al lodo arbitrale l’ulteriore effetto della esecutività.
In conclusione possiamo dire che resta, dunque, ancora aperta la di-
sputa sulla qualificazione giuridica del lodo, e della sua equiparazione alla
sentenza, e più in generale sulla natura dell’arbitrato, che di certo deve il
suo avvio all’accordo con cui le parti stipulano una convenzione arbitrale,
che, ripetiamo, è un contratto a tutti gli effetti, frutto della loro autonomia
negoziale, ma che si conclude con un provvedimento, il lodo, a cui la legge
attribuisce gli effetti di una sentenza.
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La stessa riforma ha, poi, inciso notevolmente anche sulla qualifica-
zione giuridica di un altro istituto, l’arbitrato irrituale, o libero; quest’ultimo
è puro frutto dell’autonomia privata, che ha creato questa nuova figura ne-
goziale come alternativa alla via dell’arbitrato regolato dal codice di proce-
dura civile. Come già ricordato, le parti che facevano ricorso all’arbitrato
dovevano poi necessariamente incamminarsi per la strada della giustizia
statale, in quanto era loro imposto di depositare la decisione presso il preto-
re in modo tale che la trasformasse in sentenza. In questo contesto dunque,
le parti che, per ragioni spesso fiscali ma a volte anche di riservatezza, non
volevano che la decisione emessa dagli arbitri fosse “statalizzata” fecero ri-
corso a privati che risolvessero la loro lite con atti negoziali. Nacque, così,
in contrapposizione all’arbitrato ufficiale, detto appunto rituale, un arbitrato
libero o irrituale. Tale istituto, secondo un indirizzo ormai consolidato, è di
natura contrattuale; è nulla più e nulla meno che la determinazione, affidata
ad un terzo, del contenuto di una transazione, con l’impegno delle parti di
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Circa lo studio sul compromesso e sulla clausola compromissoria, la dottrina maggioritaria non
solo ne riconosce l’identità di funzione, quale modo di esercizio dell’opzione tra la tutela offerta
dall’ordinamento giudiziario e la composizione della controversia secondo il dictum degli arbitri,
ma ne ammette anche la natura di negozi di diritto privato, la cui peculiarità è comunque ben pre-
sente, e tale da fargli attribuire di recente la qualifica di negozi di diritto sostanziale con rilevanza
ed effetti processuali; per un elenco esauriente della dottrina sul tema vedi PUNZI, Disegno siste-
matico dell'arbitrato, Vol. I, Padova, 2000, p. 174 nota 4; vedi anche FAZZALARI, Istituzioni di
diritto processuale civile, Padova, 1996, p. 518 il quale afferma che «sia le parti che gli arbitri
sono legati dal vincolo contrattuale stabilito nell’atto genetico (il patto compromissorio) e svol-
gono il loro ruolo sul piano privatistico»;