coinvolgono gli utenti di pubblici servizi
(2)
: occorre prestare molta attenzione alla
previsione di mezzi di composizione out of court dei conflitti, specie nei settori nevralgici
cui si è fatto cenno ora, in particolar modo perché, sempre più spesso, senza il preventivo
esperimento di essi è addirittura preclusa la possibilità di rivolgersi al giudice. Fra i mezzi di
risoluzione stragiudiziale delle controversie, va indicato fin d’ora il più rilevante di questi
fenomeni, l’arbitrato rituale. Vengono citati tali esempi di fuga dalla giurisdizione togata
che amministra il processo ordinario, fra i molti altri possibili, perché essi appaiono non
solo i più interessanti, ma anche quelli più problematici.
L’istituzione del giudice di pace, avvenuta con la legge 21 novembre 1991, n. 374, ha
dato luogo a strascichi polemici che ancora non sono scomparsi: va ricordato come il ceto
degli avvocati, per molte ragioni che non possono essere qui analiticamente spiegate, sia
contrario alla nuova figura. Lo status giuridico di questo organo giurisdizionale, come lo
definì la Corte costituzionale a proposito della nomina dei giudici di pace nella Valle
d’Aosta, è quello (v. art. 1, 2° comma l. n. 374/1991 e art. 4, 2° comma r. d. 30/1/1941, n.
12) del magistrato onorario appartenente all’ordine giudiziario. In altre parole, il giudice di
pace non è un impiegato dello Stato, al contrario dei suoi colleghi, ma la sua decisione ha la
medesima efficacia di quella del magistrato togato.
Ciò che ha suscitato scalpore, è stata la amplissima competenza attribuita alla nuova
magistratura, una competenza anche in campo penale, che è sembrata sproporzionata alla
onorarietà, ovvero alla non professionalità della carica. Va notato come il giudice di pace
abbia oggi una competenza ben maggiore rispetto a quella del conciliatore, di cui ha preso il
posto.
2
V. la l. 29 dicembre 1993, n. 580 recante il “Riordinamento delle Camere di commercio, industria,
artigianato, agricoltura” (art. 2, 4° comma, alinea a), per cui le Camere di commercio possono
“promuovere la costituzione di commissioni arbitrali e conciliative per la risoluzione delle controversie tra
imprese e tra imprese e consumatori ed utenti”. V. inoltre la l. 18 giugno 1998, n. 192, recante “Disciplina
della subfornitura industriale” (art. 10), per cui “le controversie relative ai contratti di subfornitura di cui
alla presente legge sono sottoposte al tentativo obbligatorio di conciliazione presso la Camera di
commercio in cui ha sede il subfornitore, ai sensi della lettera a), 4° comma, art. 2 della l. 29 dicembre
1993, n. 580. Qualora non si pervenga ad una conciliazione fra le parti, su richiesta di entrambi i
contraenti, la controversia è rimessa alla commissione arbitrale istituita presso la Camera di commercio di
cui al precedente comma, o in mancanza, innanzi alla commissione arbitrale istituita presso la Camera di
commercio scelta dai contraenti. Il procedimento arbitrale, disciplinato secondo le disposizioni degli artt.
806 ss. c.p.c., si conclude entro il termine massimo di 60 giorni a decorrere dal primo tentativo di
riconciliazione, salvo che le parti si accordino per un termine inferiore”. V. le leggi 31 luglio 1997, n. 249
recante “Istituzione dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e norme sui sistemi delle
telecomunicazioni e radiovisivo” (art. 1, 11° comma ) e 14 novembre 1995, n. 481, recante “Istituzione
della Autorità di regolazione dei servizi di pubblica utilità” (art. 2, 24° comma) nel corso di questa
premessa.
La preoccupazione di deflazionare la mole di lavoro delle pubbliche magistrature, non
ha evidentemente consentito di domandarsi quanto fosse opportuno affidare ad un comune
cittadino, pure dotato di certi ancorché minimi requisiti e nominato attraverso un
procedimento in cui il ruolo del Consiglio superiore della magistratura si riduce spesso ad
una funzione notarile (v. art. 4, 1° comma, l. n. 374/1991), la responsabilità di decidere su
controversie non proprio bagatellari. Si è trascurato inoltre, secondo gli accusatori del
giudice di pace, che un giudice deve innanzitutto essere e anche apparire indipendente ed
imparziale, disinteressato ad ogni tipo di rapporto con le parti: la temporaneità della carica
ed in genere il regime delle incompatibilità previsto, non sembrano offrire a questo riguardo
sufficienti garanzie.
Eppure non si è che all’inizio. Considerando la più recente produzione legislativa, è
difficile negare infatti che oggi sia in atto una radicata tendenza alla “privatizzazione”
(almeno soggettiva) della giustizia civile
(3)
. La l. 22 luglio 1997, n. 276, recante
“Disposizioni per la definizione del contenzioso civile pendente: nomina di giudici onorari
aggregati e istituzione delle sezioni stralcio nei tribunali ordinari”, ha operato una scelta,
successivamente confermata da ulteriori provvedimenti normativi, di cooptazione di
soggetti esterni all’amministrazione giudiziaria, della quale si parlava più sopra.
Dispone l’art. 1, 1° comma, che tutti i “procedimenti civili pendenti davanti al tribunale
alla data del 30 aprile 1995, esclusi quelli già assunti in decisione”, saranno decisi da
“giudici onorari aggregati nel numero di mille”, che sono individuati (2° comma) fra “gli
avvocati, anche se a riposo e i magistrati a riposo; gli avvocati e i procuratori dello Stato a
riposo; i professori ordinari e i ricercatori universitari confermati in materie giuridiche”. I
procedimenti pendenti (art. 11) sono assegnati alle “sezioni stralcio” istituite presso ogni
tribunale e formate “da un magistrato che la presiede e da almeno due giudici onorari
aggregati”.
Il decreto legislativo 19 febbraio 1998, n. 51, “Norme in materia di istituzione del
giudice unico di primo grado”, nel sopprimere (art. 1) l’ufficio del pretore e ripartire quindi
le competenze giudiziarie di primo grado fra il giudice di pace ed il tribunale, dispone
addirittura (art. 8) che al “tribunale ordinario possono essere addetti giudici onorari”, a
condizione che si tratti di cittadini italiani, senza precedenti penali, laureati in
giurisprudenza e di età compresa fra i venticinque e sessantanove anni.
Dapprima dunque, la magistratura onoraria, con la legge n. 276 del 1997, rimane
confinata all’interno delle costituende sezioni stralcio, dove è appena il caso di notare che i
giudici aggregati rappresentano la maggior parte dei magistrati ad esse addetti, quando forse
3
VACCÀ C., La giustizia non togata. Alle radici della composizione dei conflitti fra conciliazione,
arbitrato e giurisdizioni speciali, Marinotti, 1998, pagg. 189 ss.
sarebbe stato opportuno assicurare la maggioranza ai colleghi togati; in un secondo tempo,
con il decreto legislativo n. 51 del 1998, il ricorso ai magistrati onorari arriva fino al punto
di impiegarli stabilmente nelle sezioni ordinarie dei tribunali, il che lascia perplessi.
Questa escalation, di cui le norme citate sono testimonianza, dà luogo a veri e propri
problemi di legittimità costituzionale. Non si è di fronte ad un rimedio straordinario che
consenta un apporto di energie e attività di giudici onorari per far fronte ad un accumulo di
arretrato di cause civili, ma sempre più ad un reclutamento parallelo di magistrati, al di fuori
del concorso previsto dall’art. 106 della Costituzione
(4)
.
Non minori questioni di legittimità costituzionale solleva quell’altra via di fuga dalla
giurisdizione civile dello Stato cui pure si è accennato: cioè l’arbitrato rituale
(5)
. Quest’ultimo
costituisce la forma principe di “giustizia privata” alternativa a quella prestata dai giudici
della Repubblica. I vantaggi di questa giustizia privata, come osserva Chiarloni
(6)
, non
solo per gli utenti, ma anche per gli specialisti a vario titolo coinvolti, sono noti ed in parte
giustificano gli entusiasmi della dottrina che se ne occupa, rendendosi talvolta responsabile di
qualche forzatura, come è avvenuto ad esempio in sede di interpretazione della penultima
legge di riforma (il riferimento è soprattutto alle polemiche relative all’efficacia da attribuire
al lodo in pendenza del termine annuale per il deposito).
Con riguardo agli utenti, non si tratta soltanto del dono prezioso consistente nella
velocità della procedura con cui si perviene alla definizione del contenzioso (si ricordi che,
secondo l’art. 820 c.p.c., gli arbitri debbono pronunciare il lodo nel termine di centottanta
giorni). Si tratta anche della maggiore capacità di questo modello processuale di favorire
conclusioni non traumatiche, che vedano gli arbitri impegnati a costruire soluzioni
accettabili da tutte le parti. Si tratta, almeno in astratto, della maggiore facilità, rispetto alla
magistratura togata, di avvalersi in ogni singolo processo di giudici in possesso delle
cognizioni di varia natura, utili a risolvere controversie variamente complicate. Ancora, si
tratta della maggiore accettabilità di giudici scelti dalle parti nelle controversie nascenti da
contratto, soprattutto nell’ambito del commercio internazionale, dove ben si capisce la
ritrosia di ciascun contraente a farsi giudicare dalla giurisdizione dell’altro.
Nessuna meraviglia dunque che nel nostro Paese esistano numerose manifestazioni di
4
L’allarme, in questa direzione, era già stato suonato dalla rivista La Magistratura, 1996, n. 1-2 -
gennaio-marzo/aprile-giugno, pagg. 10 ss.
5
Va precisato che, in questa dissertazione, la nozione processualcivilistica e la disciplina analitica
(ovvero quella di cui agli artt. 806 ss. c.p.c.) dell’arbitrato rituale, sono date per scontate. Singole norme
verranno citate e studiate solo in quanto siano significative al fine della discussione sui profili di
illegittimità dell’istituto.
6
CHIARLONI S., Accesso alla giustizia e uscita dalla giustizia, testo italiano della relazione al convegno
su “Les cultures judiciaires en Europe” tenutosi a Lilla il 9 e 10 dicembre 1994, in Documenti Giustizia,
1995, n. 1-2 - gennaio-febbraio, c. 23 ss.
“una grande voglia di arbitrato”: è attiva una associazione prestigiosa, l’Associazione
Italiana per l’Arbitrato (A.I.A.), nata per promuoverne lo studio; inoltre grazie all’esistenza
di riviste specializzate, è particolarmente ricca l’elaborazione scientifica sui numerosi
problemi che nascono in relazione alla disciplina; si vanno diffondendo scuole post
universitarie per la formazione di specifiche competenze. Ma soprattutto, l’importanza e
l’attenzione che quest’istituto ha via via assunto in Italia, sono ben più concretamente
testimoniate dalla recente legge 5 gennaio 1994, n. 25 (“Nuove disposizioni in materia di
arbitrato e disciplina dell’arbitrato internazionale”), la quale ha ridisegnato la disciplina
della materia, apportando le modifiche istituzionali necessarie per dare maggiore impulso
alla pratica arbitrale nel nostro Paese, con ciò suscitando però nuovi e vecchi dubbi sulla
legittimità dell’arbitrato stesso.
Esistono infatti fattori problematici, che minano nel profondo il bell’edificio e rischiano
prima o poi di danneggiarlo, se non si corre ai ripari. Si sospetta la violazione da parte della
disciplina dell’istituto in parola, di precise norme costituzionali: in primo luogo, quella che
riserva l’attività giurisdizionale ai giudici dello Stato (art. 102, 1° comma Cost.) e quella
fondamentale che garantisce l’azione civile (art. 24, 1° comma Cost.); in secondo luogo,
quelle che stabiliscono l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge (art. 3, 1° comma
Cost.) ovvero il principio di inviolabilità del diritto di difesa in ogni stato e grado del
procedimento (art. 24, 2° comma Cost.); ed infine quelle sull’imparzialità,
sull’indipendenza, sull’idoneità, sulla precostituzione nonché sull’ordinarietà del giudice
(artt. 25, 1° comma e 101 ss. Cost.). Tali questioni non sono state finora sufficientemente
approfondite, nonostante sia addirittura avvenuto che la novella del 1994 abbia travolto gran
parte degli elementi sulla base dei quali la Corte costituzionale aveva difeso l’arbitrato
rituale da pesanti accuse di incostituzionalità, in specie nella sua sentenza del 12 febbraio
1963, n. 2.
In termini molto sintetici, semplificati e tanto per incominciare limitatamente all’art.
102 Cost., il problema può rappresentarsi attraverso due interrogativi.
Primo: possono i singoli soggetti di diritto comporre le proprie controversie mediante il
ricorso ad un giudizio privato, quando espressamente la Costituzione (art. 102, 1° comma)
vuole che la funzione giurisdizionale sia riservata ai magistrati ordinari, istituiti e regolati
dalle norme sull’ordinamento giudiziario? A questo proposito, occorre rispondere subito che
nessuno è costretto a rivolgersi alle pubbliche magistrature per la definizione di qualunque
lite; non è questo il significato della riserva di cui all’articolo 102 della Costituzione, come
ha inequivocabilmente sancito anche la Consulta (v. sent. n. 2 del 1963): tale norma non
vieta “ad ogni soggetto giuridico di svolgere la propria autonomia per la soluzione delle
controversie di suo interesse e di ricorrere ad un mezzo, come quello dell’arbitrato, che è
legittimato da un regolamento del diritto di azione valido nel limite in cui su questo diritto la
volontà singola opera efficacemente”.
Nel corso dei capitoli che seguiranno, si cercherà di capire cosa ciò significhi e
naturalmente quale sia allora il contenuto della riserva di giurisdizione di cui al più volte
menzionato articolo 102 della Costituzione, esponendo argomentazioni decisamente non
scontate.
Ma si consideri ora il secondo degli interrogativi illustrati. Posto che vi è cittadinanza,
in un ordinamento giuridico come il nostro, per un istituto di giustizia privata qual è
l’arbitrato, ci si chiede: quali limiti di efficacia dovrà avere questo giudizio privato? La
giurisdizione è giudizio, autorità, potere, sovranità: è, in primissima approssimazione può
dirsi questo, l’ordinamento giuridico che si impone ai privati nel caso specifico; l’arbitrato
invece è giudizio che nasce dalla volontà dei soggetti che l’hanno preferito ed instaurato,
senza altra forza che questa loro volontà e dunque senza potere, autorità, supremazia.
Certo, lo scopo pratico perseguito dalle parti nel devolvere le controversie agli arbitri, è
quello stesso che esse avrebbero potuto e non hanno voluto raggiungere agendo davanti al
giudice statale (cioè esattamente la composizione, la risoluzione delle liti), ma il nostro
problema consiste adesso nello stabilire se la giustizia privata arbitrale e quella statale
possano essere interamente fungibili, completamente sovrapponibili o se invece, vista la
diversa matrice di entrambe, gli effetti dell’una debbano radicalmente essere differenti da
quelli dell’altra. Proseguendo su questa linea di ragionamento, si dovrà capire se il
legislatore ordinario possa e abbia in pratica voluto equiparare le pronunzie arbitrali alle
sentenze emesse dagli organi giurisdizionali, come molti sostengono, attribuendo così a
comuni e privati cittadini (gli arbitri, appunto) null’altro che la funzione di tutela dei diritti
soggettivi.
Nel far tutto questo occorrerà analizzare con particolare attenzione i due atti tipici, la
sentenza ed il lodo, che concludono rispettivamente il procedimento giurisdizionale togato
la prima, quello arbitrale il secondo.
Va insomma affermato, come autorevolmente sostenuto da Montesano
(7)
fra gli altri, che il
sospetto di incostituzionalità dell’arbitrato, in ragione delle norme che riservano l’esercizio
della giurisdizione a magistrature togate (artt. 102 e 103 della Costituzione) può sorgere
solo in riguardo alla equiparazione di tutti gli effetti, o anche di alcuni effetti, del lodo
arbitrale a quelli della sentenza. La stessa Corte costituzionale, nella medesima pronuncia
del 1963, ha stabilito che il momento in cui l’ordinamento legale dell’arbitrato può ledere
l’art. 102 Cost., è unicamente quello in cui si voglia far acquistare al lodo l’efficacia della
7
MONTESANO L., Magistrature - ordinarie e speciali - e arbitri nella giustizia civile secondo la
Costituzione, in Rivista di diritto processuale, 1996, pagg. 645 ss.
sentenza. E a questo punto la Consulta salvava l’istituto da ogni dubbio di incostituzionalità,
in quanto rilevava che “quando la parte vuole che il lodo assuma la forza della sentenza, è il
magistrato ordinario che provvede: è lui infatti che riveste di imperatività il lodo”. In ultima
analisi dunque, era pur sempre lo Stato, attraverso un suo organo, a conferire all’atto
privato-lodo il rango di sentenza. Da allora però, la disciplina dell’istituto ha subito
profonde innovazioni, fino alla celeberrima legge n. 25 del 1994, alla luce della quale tutta
la questione della legittimità dell’arbitrato deve essere ripensata. E’ utile capire fin d’ora
perché, ripercorrendo brevemente le tappe di quest’evoluzione legislativa, di cui non poco si
tratterà nei prossimi capitoli
(8)
.
La prima legge di riforma dell’arbitrato fu la l. 9 febbraio 1983, n. 28. Prima di allora,
esisteva nei confronti dell’istituto l’atteggiamento di maggior ritrosia, più diffidente e quasi
di gelosa difesa dei giudici statali, che aveva portato a concepirlo come un iter e giudizio
che acquistava giuridica rilevanza ed utilità solo se ed in quanto lo Stato lo avesse fatto suo,
se ne fosse appropriato per così dire, incorporandolo in un provvedimento dei propri
magistrati: la decisione arbitrale doveva necessariamente ottenere dal pretore un decreto c.d.
di esecutività, che in realtà era qualcosa di ben più pregnante che una semplice attribuzione
di idoneità a fondare l'esecuzione forzata, poiché solo con quel decreto la decisone arbitrale
sarebbe entrata nel mondo del diritto e vi sarebbe entrata come “sentenza”. Insomma il lodo
non aveva alcun valore prima dell’exequatur pretorile.
Grazie alla legge del 1983, l’atteggiamento di si è detto mutò radicalmente, divenendo
più aperto: il legislatore riconobbe realtà e valore giuridico alla pronuncia degli arbitri in sé
e per sé (v. art. 823 ult. comma c.p.c.: “il lodo ha efficacia vincolante tra le parti dalla data
della sua ultima sottoscrizione”), senza pretendere di conferire il crisma della giuridicità con
atto di giudice e restrinse la necessità di un intervento di quest’ultimo (nella nostra
esperienza, tramite il decreto pretorile) alla sola ipotesi in cui si volesse propriamente fare
acquistare al lodo la qualità di titolo esecutivo.
Ma era ancora il decreto pretorile, e soltanto esso, a permettere altresì alla pronuncia
degli arbitri di acquisire l’efficacia di sentenza, come appare chiaro dalla lettera dell’art.
825, 5° comma c.p.c. ex novella 1983: “il decreto del pretore conferisce al lodo efficacia di
sentenza”.
L’ultima legge di riforma, la legge 5 gennaio 1994, n. 25, fra le moltissime innovazioni,
ha eliminato il suddetto 5° comma dell’art. 825 c.p.c., mantenendo invariato tuttavia il
disposto secondo cui la pronuncia degli arbitri vincola le parti fra loro fin dalla data della
sua ultima sottoscrizione.
8
V. per una veloce ed efficace panoramica sull’argomento, LA CHINA S., L’arbitrato, il sistema e
l’esperienza, Giuffré, 1995, pagg. 10 ss.
Si ripropone così un quesito d’importanza capitale, già sorto a proposito degli effetti da
attribuire al lodo prima dell’omologazione all’indomani della riforma del 1983: di che
natura è tale efficacia vincolante? Il complesso delle modificazioni legislative del 1994, ma
in particolare proprio la eliminazione del vecchio 5° comma art. 825 c.p.c., hanno fatto
propendere la maggioranza degli Autori per un’efficacia di sentenza del lodo fin
dall’inizio
(9)
; in altre parole il legislatore avrebbe definitivamente abbandonato l’idea che il
lodo sia meno che sentenza e dunque non vi sarebbe alcuna necessità di un ulteriore
provvedimento del giudice per fargli acquisire un tale rango. Bisogna sottolineare che
quanto appena detto è materia di discussione in dottrina; tuttavia non si può fare a meno di
notare come queste conclusioni disattendano in pieno proprio le parole con cui la Consulta
si pronunciò in senso favorevole all’arbitrato e che sono state ricordate più sopra.
L’arbitrato è divenuto illegittimo? E’ presto per affermarlo: certo la sua “difesa” è ora più
difficile, ma, si vedrà, non impossibile.
9
V., tanto per citare qualche esempio, RICCI E. F., L’“efficacia vincolante” del lodo arbitrale dopo la
legge n. 25 del 1994, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1994, pagg. 817 ss.:
“Innanzitutto va sottolineato che la nuova disciplina elimina l’ostacolo testuale, contro il quale la tesi
della equiparazione tra iniziale efficacia del lodo e efficacia della sentenza sembrava urtare in
precedenza. Mi riferisco alla già ricordata eliminazione della norma (art. 825, 5° comma c.p.c., nella
versione risultante dalla novella del 1983), in virtù della quale era espressamente conferita efficacia di
sentenza al lodo reso esecutivo dal pretore.”; v. nella medesima direzione MONTESANO L., “Privato”
e “pubblico” nell’efficacia e nell’esecutorietà del lodo arbitrale, in Rivista dell’arbitrato, Giuffré, 1998,
pagg. 8 ss.; v. infine, GHIRGA M. F., La Legge 5 gennaio 1994, n. 25. Nuova disciplina dell’arbitrato,
ne Le nuove leggi civili commentate, 1995, pagg. 524 ss.