132
2.2 Cinematografia visuale
La ricostruzione che produsse Diego Carpitella delle ascendenze italiane nel
film etnografico costituisce una base di partenza per arrivare a indicare il
percorso seguito in Italia in merito all’antropologia visuale. Si è visto come
questo percorso sia molto autonomo rispetto a ciò che avvenne nel mondo
anglosassone o in Francia in tempi coevi. il dibattito e la ricerca si
svilupparono successivamente, e sono ancora molto vivi e pulsanti, con
approfondimenti teorici, attività di ricerca, di didattica, di produzione e
divulgazione culturale fino al presente. Si intende affrontare il contesto
italiano tentando di trasformare un’area geografica in un’area di dibattito
etnografico-scientifico con un’operazione lecita volta a valorizzare e a
difendere le specifiche esperienze e riflessioni all’interno del dibattito
internazionale. Valore di questo sta nella storicità e nei collegamenti con altre
tradizioni di studio e di ricerca (Grasseni, Tiragallo 2008: 3). Passaggio
importante e quasi fondante diventa l’analisi del documentarismo
demartiniano, importante nell’orientamento dell’identità degli etnografi
visuali italiani (ibidem).
Per stabilire un punto di partenza per l’analisi del presente dell’antropologia
visuale, accolgo l’opzione, empirica e decostruttiva, indicata
nell’introduzione del testo a cura di Grasseni e Tiragallo:
«Chi fa cosa dove; Chi parla ed in nome di chi? Chi mostra e chi si mostra?
174
;
Quali interconnessioni di confine si propongono, per esempio tra
musealizzazione e cinematografia, tra folklore e documentazione partecipata,
tra fiction e documentario, tra libera ricerca e domanda (se non vera e propria
committenza) di documentazione, tra diverse competenze alla lettura dello
spazio e delle immagini in movimento?» (Tiragallo 2007b) (ivi: 5).
Questi interrogativi dimorano nei dibattiti e fruttano nuove occasioni di
riconoscimento reciproco tra ideatori di immagini, i loro soggetti, i produttori
di autorappresentazioni e gli interpreti di culture visive differenti. Diventa
utile capire, nello sviluppo dello studio dell’antropologia visuale in Italia, in
che modo le sollecitazioni provenienti dai dibattiti ricchi su visone e
174
Indicazioni di metodo enunciate e sintetizzate durante la lezione dell’insegnamento
Antropologia Visuale in UNIBO da Giulia Grassilli, nelle slide a supporto della lezione in
DAD in data 08 aprile 2021 con: COSA/ COME/ ↔CHI/ PER CHI/ PERCHE’/ QUANDO
(appunti dello scrivente).
133
antropologia abbiano trovato riscontro nelle pratiche di ricerca attivate in
Italia e/o sull’Italia (ibidem).
Secondo Grasseni e Tiragallo, e io concordo appieno, la nozione di
antropologia visiva rappresenta una concezione che prevede lo studio di cosa,
dove e infine come si guarda all’interno di una specifica comunità di pratica.
«Gli artefatti visivi che costellano l’ecologia della quotidianeità sono molteplici,
immagini ma non solo: utensili, strumenti, ambienti, suppelletili – in una parola
artefatti, che con le relative tecniche della loro manipolazione costruiscono, in breve,
un’ecologia della visione, ovvero un intero ambiente fortemente strutturato e
orientante, che facilita la condivisione di sguardo professionale, e che ruota attorno
all’adozione, l’uso e la manipolazione di determinati artefatti “formatori dello
sguardo” (Grasseni 2007, Grasseni – Ronzon 2006) Questi materiali possono essere
analizzati come un momento di esternalizzazione di uno sguardo condiviso
175
(Tiragallo 2007a, 2008). […] La stessa ricerca etnografica, a maggior ragione quella
visiva, può essere letta sottoforma di un processo di apprendistato, apprendistato di
sguardi in primis
176
. Come ha sottolineato Charles Goodwin per esempio, gli «sguardi
professionali» si definiscono secondo la condivisione di criteri per l’organizzazione
di modalità di percezione e azione nel mondo che permettono di gestirlo, di
riconoscerlo come pieno di senso, di orientarvisi secondo una «struttura di
intenzionalità»
177
. La pratica etnografica visiva può, rispetto a questi fenomeni,
divenire sia un catalizzatore dell’attenzione dell’etnografo che uno strumento di presa
di distanza da modi familiari o generici di inquadrare l’oggetto (Tiragallo 2006)
(ibidem).
Viene evidenziato il percorso attraverso cui autori come Mauss, Leroi-
Gourhan e Warnier e altri hanno sottolineato il carattere specificatamente
175
In quanto strutturano e veicolano una categorizzazione professionale del mondo, che è
ultima analisi anche una relazione identitaria, e costituiscono un ordine estetico
profondamente morale che non riguarda solo le performance professionali ma che struttura
la vita emotiva e cognitiva, che definisce cioè una comunità senso e i suoi confini (Grasseni,
Tiragallo 2008: 5).
176
Gli autori fanno riferimento al concetto di abilità dello sguardo, affrontato in diverse
occasioni, dal simposio Skilled Vision. Educating attention in the fild del 14 maggio 2004 a
Cambridge, al panel Skilled Vision. Between Apprenticeship and Standards della conferenza
EASA 2004 poi sfociati nel volume Skilled Vision (Grasseni 2007). Il centro di Ricerca
sull’Antropologia e l’Epistemologia della Complessità (CERCO) dell’Università di Bergamo
e la sua scuola di dottorato ospitano appuntamenti frequenti sui temi dell’antropologia e
dell’epistemologia della visione: Cinema e Migrazioni (2004), Cinema e Antropologia:
sguardi, memoria e conflitti (2005), Apprendere e guardare. Antropologia della visione e
sguardi competenti (2006) (ibidem) (nota).
177
Lo sguardo esperto si definisce per il fatto di saper disciplinare e sintonizzare la propria
capacità di percezione (in particolare, qui, visiva): è una «questione di sguardi» (Berger
1972), che dipende da una serie di codici condivisi che regolano la pratica dello sguardo
valutativo (ibidem). Faeta lo definisce come uno: «sguardo che non soltanto sostiene la logica
dei saperi e contribuisce a costruire le cose, ma che contribuisce a tessere le relazioni tra
saperi, cose, rapporti sociali» (Grasseni Tiragallo 2008: 12).
134
culturale, complesso e imbricato (embedded) dei compiti della vita quotidiana
delle società preindustriali, che vengono appresi gradualmente, per
imitazione e per tentativi di partecipazione (ovvero per processi di
partecipazione periferica legittima, Lave e Wenger 1991) e vanno a costituire
un sapere tecnico incorporato
178
(Angioni 1986). L’etnografia visiva è quasi
il risultato di un esperimento epistemologico pratico, effetto di un processo di
spaesamento per poi operare un esercizio di incorporazione dello sguardo.
Esiste un rapporto importante e complesso tra la competenza
dell’osservazione, a volte anche del filmare (o del fotografare), e la
competenza dell’antropologo a comprendere le culture, un rapporto che passa
per diverse esperienze di apprendistato (ivi: 6). Una prima diventa la tecnica
di ripresa cinematografica, Tiragallo citando Rosenfeld (1994) la chiama:
«problema della riconversione dello sguardo»: la composizione dello sguardo
ha un suo movimento nella vita reale, diventa uno spazzolare la realtà fino a
ad arrivare alla visione rettangolare e meccanica della telecamera, che non
considera la perifericità artificiale (ma l’operatore non deve escluderla
completamente) e introducendo l’immobilità dello sguardo. Si rivoluzioni il
modo di guardare con cui vanno fatti i conti (MacDougall 2006). Enrico
Ghezzi al riguardo dice:
«il cinema è antropologia inumana; la camera è grande strumento antropologico
ossimorico, grazie alla meccanicità inumana del suo occhio. Distanza antropologica,
visione di non visioni mediata dall’inumanità/ impersonalità della vera macchina,
quella da presa (occhio che uccide)
179
».
È importante ricordare che si guarda in un certo modo che non è quello
naturale, che mai si tratta di uno sguardo senza corpo (disembodied). Lo
sguardo, quindi, è soprattutto una forma del vedere, non solo gaze (Grasseni
2003). (ivi: 6)
178
Per imparare a guardare occorre fare esperienze che non hanno necessariamente a che fare
solo con l’esercizio dell’occhio. Non si tratta di entrare nella testa degli altri, ma si tratta di
entrare in una ecologia delle relazioni e trovare modi adatti per farla risaltare (esempio in
Tiragallo 2007: il documentarista Joris Ivens durante le riprese di Zuiderzee (1930) per capire
dove porre il punto macchina per filmare operai intenti alla movimentazione di blocchi di
pietra, si cimento in prima persona in quel lavoro). Anzi la varietà della pratica etnografica
dipende dalla diversità delle soluzioni proposte per una messa in condivisione del senso e, in
qualche caso, degli sguardi, che non è operata automaticamente dal mezzo meccanico (ivi:
6).
179
Rai Tre, 20 febbraio 2004, giorno della morte di Jean Rouch (ibidem) (nota).
135
Il lavoro di raccolta e di moderazione eseguito dai curatori del testo Grasseni
e Tiragallo individua anche linee di riflessione, non conclusive,
sull’antropologia visiva in Italia. Si individuano linee di continuità nel
dibattito su cui spicca la figura di Carpitella e l’eredità demartiniana assieme
a confronti e interrogazioni in relazione al dibattuto internazionale. In questo
emerge l’esperienza mac-dougalina della ricerca-azione partecipativa, il
circuito dei festival del film etnografico, i circuiti del film documentaristico
e il passaggio della sensibilità e delle tecniche etnografiche che usciti dalla
disciplina antropologica stanno contaminando i nuovi canali di
comunicazione anche di massa evidenziando sfide complesse e interessanti
180
(ivi: 7).
2.3 Ernesto De Martino
Dopo avere ricostruito il dibattito relativo al film etnografico e alle
indicazioni epistemologiche necessarie ad inquadrare gli inizi
dell’antropologia visuale in Italia si può iniziare a costruire la conoscenza con
i principali autori e intellettuali partecipanti alla nascita della disciplina.
Giusto diventa illustrare l’opera di Ernesto De Martino. Nel paragrafo
introduttivo, nelle note (10 e 11), si è accennato al dibattito innescato dalle
indicazioni metodologiche volute da Croce che influirono tutto il decennio
dagli anni Quaranta ai Cinquanta. Proprio quando cominciava ad essere
messa in discussione questa costruzione egemonica crociana apparì sulla
scena Ernesto De Martino, allievo di Croce. Egli esprimeva il progetto di
estendere lo storicismo idealista alle popolazioni etnologiche e alle classi
subalterne, dunque di realizzare la storia dei popoli dominati. Nel 1941 scrive
Naturalismo e storicismo nell’etnologia e nel 1948 Il mondo magico.
Prolegomeni a una storia del magismo. In queste opere pur salvando l’eredità
di Croce vuole riconosciuta quell’autonomia delle culture subalterne come
soggetto storico e del folklore come oggetto di studio, in dialettica con le
classi dominanti, così come auspicato nella proposta intellettuale di Antonio
180
Carpitella dice: «In che cosa consiste il contributo cognitivo del documento
cinematografico (in pellicola o in elettronica) nello studio etnologico, antropologico sociale,
ecc.? nel documentare cose che la parola e lo scritto non possono costituzionalmente
restituire: la musica, la danza, i comportamenti cinesici, ecc. […] Mirare un evento nel suo
dettaglio è un contributo alla scientificità, anche nelle scienze umane (Carpitella 1992: 158-
159) (Grasseni Tiragallo 2008: 20).
136
Gramsci. Il pensiero di Gramsci pubblicato in Quaderni dal carcere (1948),
il Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi (1945) e le suggestioni provenienti
da Rocco Scotellaro
181
stimolarono l’interesse etnologico demartiniano per le
classi subalterne meridionali e formarono l’atteggiamento con cui lo studioso,
in quanto appartenente a una classe borghese, si pone nei confronti degli
“umili”. Atteggiamento che fu condiviso dai documentaristi “demartiniani” e
visualizzato nelle opere producendo precise scelte poetiche e retoriche.
Gramsci nel testo Osservazioni sul folclore affermava:
«si può dire che il folclore finora sia stato studiato prevalentemente come elemento
“pittorico” […]. Occorrerebbe studiarlo invece come “concezione del mondo me della
vita”, implicita in grande misura, di determinati strati di (determinati dal tempo e dallo
spazio) della società, in contrapposizione (anch’essa per lo più implicita, meccanica,
oggettiva) con le concezioni del mondo ufficiali (o in senso più largo, delle parti colte
della società storicamente determinate) che si sono successe nello sviluppo storico
(Gramsci 1950: 215) (Marano 2007: 13).
De Martino con il suo Il mondo magico (1948) aveva iniziato lo studio della
cultura delle classi subalterne ma Gramsci introdusse la novità dell’elemento
dialettico, la contrapposizione mutuata dalla logica marxista di opposizione
tra le classi dominanti e determinati strati, De Martino pensava di poter
scrivere una storia degli umili accanto alla storia crociana delle classi
dominanti, e individuante e non frutto del metodo comparativo tipico delle
pseudo-scienze cioè sociologia e filologia, come indicate da Croce, che
portano alla ricerca di invarianti e di risultati generalizzanti. (cfr. Cirese 1971:
220-221) in (ibidem). Questa storia si sarebbe potuta scrivere grazie ad un
etnocentrismo critico in cui l’etnologia vista come scienza occidentale in cui
l’Occidente e le altre culture si rapportano:
«siamo noi in quanto occidentali, cioè in quanto depositari dell’unica cultura umana
che, a capo di un lungo corso storico, ha prodotto la scienza del confronto con le altre
culture: la etnologia
182
» (De Martino 1977: 352) in (ibidem).
181
Ernesto De Martino riconosceva nell’opera di Carlo Levi il merito di avere realizzato un
ritratto della società contadina del Mezzogiorno d’Italia. Comprese come con le opere
Contadini del sud (1954) di Rocco Scotellaro e Cristo si è fermato ad Eboli fosse ribadito
l’insorgere della Questione Meridionale, erano svelati dietro la miseria del mondo contadino
la presenza di contenuti culturali secolari. Il mondo contadino diventò un punto di partenza
per un rinnovamento di azioni politiche e culturali di questa società che non fu più considerata
all’ombra dei suoi condizionamenti psicologici arcaici e superstiziosi (Sparti 1982: 23)
(Marano 2007: 11).
182
E la nostra cultura occidentale è l’unica che non ha «mascherato la storicità dell’esistenza
umana» (De Martino 1977: 354) in (Marano, 2007:13). Siamo noi ad avere questa
consapevolezza; siamo noi a riconoscere che nessuna osservazione etnografica, è possibile
137
Gramsci individuò il concetto di intellettuale organico relativo al rapporto fra
cinema ed etnografia. La figura di:
«intellettuale parassita […] uccellino fatto per la gabbietta d’oro che dev’essere
mantenuto a pastone e a chicchini di miglio» così come descritto da Prezzolini (cit. in
Gramsci 1950: 65), è secondo Gramsci obsoleta; «e nemmeno l’intellettuale può
esprimere verso gli umili un sentimento sufficiente di una propria indiscussa
superiorità, il rapporto come tra due razze, una ritenuta superiore e l’altra inferiore, il
rapporto come tra adulto e bambino (Gramsci 1950: 72) (ivi: 14).
L’intellettuale deve partecipare alla vita del popolo, riuscendo a cogliere la
contrapposizione dialettica con la classe dominante cui egli stesso
appartiene
183
.
2.3.1 La cinematografia “demartiniana”
Comincia nel meridione d’Italia, in Basilicata e comincia con una netta rottura
rispetto il dibattito teorico metodologico accademico e antropologico
accesosi negli anni 1953-59. La figura di Ernesto De Martino si lega ai film,
del 1953 di Michele Gardin e Magia lucana (1958) di Luigi Di Gianni, di
carattere etnografico, dove stabilisce con i registi un rapporto indiretto, di
ispiratore o al massimo consulente – se si escludono quei film realizzati
all’interno del gruppo di ricerca che operò durante la spedizione in Lucania
nell’ottobre 1952, Dalla culla alla bara di Pinna che realizzò girando trecento
metri di pellicola su:
«aspetti della miseria, della fatica, la cronaca di un funerale, danze popolari, nozze,
ecc.» (Gallini 1996: 85)
e Meloterapia del tarantismo, girato da Carpitella nel 1959 durante la
spedizione nel Salento (Marano 2007: 28).
Il documentario di Pinna, andato perduto, si sa che fu girato a Grottole perché
viene menzionato nelle note di campo di De Martino dove è riportata la
senza l’impiego di determinate categorie di osservazione; siamo noi ad avere la
consapevolezza che però così rischieremmo di attribuire a tali culture la nostra storia e
dunque dobbiamo rivedere criticamente le nostre categorie, riconoscerne i limiti e l’estraneità
a quelle culture che vogliamo studiare per giungere a un nuovo umanesimo ((De Martino
1977: 354) in (ibidem).
183
L’errore dell’intellettuale – scrive Gramsci -consiste nel credere che si possa sapere senza
comprendere e specialmente senza sentire le passioni elementari del popolo, comprendendole
e quindi spiegandole e giustificandole nella determinata situazione storica. […] In assenza di
tale nesso i rapporti dell’intellettuale col popolo- nazione sono o si riducono a rapporti di
ordine puramente burocratico, formale; gli intellettuali diventano una cosa o un sacerdozio
(Gramsci 1966: 114-115 cit. in Lombardi Satriani 1980: 35-36) in (Marano, 2007:14).
138
scaletta del film
184
. Per quegli anni l’antropologo napoletano fu l’unico
studioso a dimostrare un’apertura nei confronti del mezzo filmico e questo lo
teorizzò anche successivamente anche se tardivamente e in termini che
appaiono inadeguati (Gallini 1981: 23).
De Martino utilizzò molto anche la fotografia, alle sue spedizioni
etnografiche parteciparono fotografi: Franco Pinna, Arturo Zavattini e Ando
Gilardi. Non approfondisco questo tema, molto ricco e come Marano rinvio
ai fondamentali saggi di Francesco Faeta sull’etnografia visiva
demartiniana
185
. Importante diventa ricordare come i materiali raccolti nel
corso delle spedizioni nei luoghi del Sud per De Martino erano sussidi
all’attività conoscitiva dell’etnografo, quindi non strumenti di indagine della
realtà e intesi in questo senso non rivelavano nulla allo studioso. Era una
raccolta di dati visivi e non
186
(Marano 2007: 29). L’attività di De martino fu
comunque pubblicizzata anche attraverso modalità comunicative non
specialistiche, sui quotidiani, in conferenze e i materiali usati in colonne
sonore di film, trasmissioni radiofoniche e televisive, in articoli pubblicati su
riviste popolari
187
(Gallini 1996: 85-86) in (ivi: 30).
In seguito a queste considerazioni, quindi si nota come De martino abbia
collaborato con operatori di formazione cinematografica, lontani
dall’accademia, dalla produzione etnocinematografica
188
. Essi furono Lino
184
«Dalla culla alla bara/ Documentario/ Dove nasce l’uomo. Culla/ Battesimo/ Ninna-nanna/
Scuola/ Lavoro/ Ingaggio/ serenata/ Nozze/ Lavoro/ Vecchiaia/ Morte, lamenti funebri» (De
Martino 1995:87) in (Marano 2007: 29; nota).
185
Ernesto De martino e l’etnografia visiva; I viaggi nel Sud di Ernesto De Martino, a cura
di F. Faeta e C. Gallini, Bollati Boringhieri, Torino, 1999; Lo sguardo dell’etnologo Ernesto
De Martino, l’etnografia, l’etnografia visiva, in Strategie dell’occhio. Saggi di etnografia
visiva, Franco Angeli, Milano, 2003, pp. 50-77. (ibidem; nota)
186
I documentaristi che collaborarono con De Martino si avvicinarono al mondo magico-
rituale del Meridione d’Italia nel tentativo di: «dare per la prima volta voce e dignità ad una
categoria sociale trascurata dalla storiografia ufficiale attraverso lo studio rispettoso delle
loro tradizioni culturali, non considerate più come pratiche superstiziose e di inciviltà
[creando lo] stesso contatto che si crea ogni volta che noi spettatori guardiamo scorrere i
volti, i paesaggi di una realtà che non esiste più. Scomparsi i protagonisti, di quel mondo non
ci rimangono che poche immagini, sbiadite nel tempo; i documentari, il regno delle ombre
dell’immaginazione, sono diventati l’unica realtà possibile. […] I volti dei contadini lucani
diventano il ritratto di una terra, e i paesaggi scarni diventano l’immagine di una intera
cultura. E così anche noi ci scopriamo parte dell’immaginario, che il progresso non ha
cancellato» (Sciannameo 2006a: 13-15) in (Sparti 1982: 21).
187
«A distanza di cinquant’anni questo materiale fotografico è diventato un prezioso
documento storico di un fenomeno che non c’è più. Le immagini foto-cinematografiche ci
restituiscono i volti segnati dalla fatica, i paesaggi, le misere case, i riti e il lavoro. Insomma
il ritratto unico di un mondo che stava per scomparire (ivi: 27).
188
I vari Mingozzi, Di Gianni, ecc., (non va dimenticato) si recarono sul campo anzitutto
come registi, non come etnologi, anche se vollero poggiare il loro lavoro su consistenti
139
Del Fra, Luigi Di Gianni, Giuseppe Ferrara, Michele Gandin, Cecilia Mangini
e Gianfranco Mingozzi
189
. L’influenza delle opere e delle teorie demartiniane
sulla cultura italiana e su tanti documentaristi è riconosciuta da Cecilia
Mangini:
«L’incontro è avvenuto con Morte e pianto rituale nel mondo antico, il libro che è
all’origine di Stendalì
190
[…] la lezione demartiniana è andata ben al di là della
scoperta delle coordinate etnologiche del nostro Meridione, delle quali, come sapete,
ci siamo innamorati in tanti, noi documentaristi: per noi ha rappresentato una griglia
conoscitiva che obbligava all’indagine sulla stratificazione culturale, imponeva il
postulato del fenomeno complesso, ci coinvolgeva nella necessità dell’analisi
interdisciplinare. Anche se siamo stati affascinati dal concetto demartiniano che il
fenomeno magico si forma nella «richiesta di protezione contro la potenza del
negativo nella vita quotidiana», ancora più ha contato il fatto che, con esplicito
riferimento a Lévi-Strauss, per De Martino dedicarsi all’etnologia (cito Lévi-Strauss,
citato da De Martino stesso) «è la conseguenza di una scelta più radicale, che implica
la messa in causa del sistema nel quale si è nati e cresciuti» (in Sciannameo 2006
a:142) (ivi: 31).
Nel 1960 De Martino aiutò nella costruzione del documentario Passione del
grano di Lino Del Fra con soggetto la raccolta del grano:
«Il gioco della falce ricostruisce - scrive Clara Gallini – un rituale della mietitura di
San Giorgio Lucano, che De Martino aveva potuto vedere in atto in una delle sue
missioni in Lucania, ma che poi era stato abbandonato, De Martino suggerì di persona
luogo, trama e anche la principale chiave di lettura di questo rito che, mimando la
premesse scientifiche. Dobbiamo quindi chiederci che cosa andassero cercando tra i
contadini del Sud e, più in generale, che cosa in quegli anni il mondo del cinema avesse visto
(Gallini 1981: 27).
189
La filmografia include: Lamento funebre, Pisticci e Costume lucano, prodotti nel 1953
quali prime tre voci di una “enciclopedia cinematografica” che non ebbe fortune. Nel 1958
De Martino collabora a Magia lucana, primo documentario di Luigi Di Gianni, al quale
suggerisce la location del secondo film girato nel 1959, Nascita e morte nel Meridione
(Gallini 1981: 25; Iaccio 2002:140). Al film Stendalì (1959) di Cecilia Mangini, De martino
sostanzialmente non partecipò; ci informa Clara Gallini: vide il film già realizzato («a De
Martino piacque moltissimo» racconta la Mangini) e ne discusse con l’autrice. (Marano,
2007: 31).
190
Su Stendalì - racconta la Mangini- si era rovesciata la scomunica degli etnologi che
lavoravano nell’ambito del Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari: a loro dire, un
vero documentario etnografico doveva essere girato a macchina fissa, cioè con la sola
sempiterna inquadratura, e questo era l’imperativo dell’obiettività scientifica. Quando io ho
obiettato che la sola scelta dell’angolazione della macchina da presa unica che fosse,
implicava la negazione della cosiddetta obiettività scientifica, non sin sono spostati di un
millimetro dalla loro formula, credo basata sulla falsariga dei documenti etnografici filmati
dagli americani. Ma un documento filmico non né un documentario, e soprattutto De martino
non era un travet dell’etnologia (in Grasso 2005: 50-51) (ivi: 32).
140
caccia all’uomo-capro simbolo dell’animale del raccolto, intenderebbe destorificare il
drammatico momento dell’uccisione del campo» (Gallini 1981: 26) (ivi: 32)
191
.
Gianfranco Mingozzi realizzò La taranta nel 1961, con il testo di Salvatore
Quasimodo, che De Martino, come consulente, giudicò positivamente
(Gallini 1981: 26). Seguendo il racconto di Clara Gallini, apprendiamo come
anche i film di Giuseppe Ferrara: Il ballo delle vedove e I maciari (1962)
furono realizzati con la consulenza di De Martino
192
e nel secondo collaborò
la Gallini stessa. L’antropologa ci illustra come nella produzione
demartiniana, cioè quei film a cui De Martino ha collaborato, indicando come
da lui vennero svolti vari ruoli contrassegnati comunque da una netta
divisione fra il cineasta e il consulente
193
. La mancanza di collaborazione fra
antropologo e filmmaker è evidenziata da Paolo Chiozzi:
«al di là della cosiddetta “consulenza scientifica”, non si stabilisce una effettiva
interazione fra antropologo e cineasta […] il documentario viene realizzato in
prevalenza “dopo” che il ricercatore ha compiuto la sua indagine, per cui il film risulta
essere una “presentazione” dei dati raccolti o l’interpretazione dell’evento data
dall’antropologo. […] Lungi dall’essere una “osservazione filmica” di un evento,
l’azione del filmare si presenta come un ripercorrere a posteriori l’itinerario che il
ricercatore ha già precedentemente percorso da solo
194
; di conseguenza egli tende a
191
La destorificazione è la modalità secondo cui il negativo (la sofferenza, il problema, la
malattia, ecc.), attraverso un rituale magico, è riportato al mito che ne narra l’origine e la
risoluzione simbolica; viene cioè sottratto alla contingenza storica in cui è sorto e ricollocato
nell’ordine in cui il mito astoricamente lo pone e lo risolve (ivi: 33).
192
«Va detto che il nostro etnologo [De Martino] non partecipò mai a una ripresa, raramente
fu presente in fase di montaggio (La tanata; Passione del grano) e solo in un’occasione
(Passione del grano) scrisse il testo di commento» (Gallini 1981: 25).
193
Questa suddivisione appare evidente nell’esecuzione del film La passione del grano (fra
il rito come gioco di del fra e il rito come espressione e risoluzione di conflitti in De Martino
(Marano, 2007:33).
194
Diego Carpitella nel suo testo De Martino e le nuove discipline in (Gallini 1986: 69-70)
ci indica che, per tutta la produzione documentaristica etnografica avvenuta nel nostro paese
dalla prima metà degli anni Sessanta fino ad oggi, si possa dire che i contrappunti fotografici
con De Martino sono stati un punto obbligato di riferimento. […] L’interesse di De Martino
per la cinesica, vale a dire per gli atteggiamenti gestuali e comportamentali in movimento, si
esprime soprattutto nelle sue riflessioni sulle tecniche corporali intorno alle quali, parlando
di Marcel Mauss, ritorna a trattare di alcune pagine de La fine del mondo (1977). In Sud e
magia (1959), in Morte e pianto rituale nel mondo antico (1958), nel tarantismo e, in misura
minore, nell’argismo sardo, vi è sempre un riferimento, talvolta in superficie e spesso in
profondità, alla continua presenza del corpo, come ricettacolo di un modo diverso con cui
l’uomo vuole apparire per estraniarsi dal quotidiano. I nessi tra le posture e gli atteggiamenti
dei protagonisti della ricerca sincronica con le testimonianze archeologiche soprattutto nel
mondo greco-romano (lamentazione funebre e tarantismo) rientrano nelle possibilità che lo
studio cinesico (sincronico e diacronico) offre in ambito etnologico e demologico. Esso può
portare ad alcune rilevanti e sostanziali interpretazioni che, rigidamente legate alle
formalizzazioni scritte, apparirebbero meno ricche e riduttive. I nessi tra alcuni atteggiamenti
delle crisi di possessione salentina e le immagini delle baccanti del Corpus vasorum
apulorum (unitamente ad alcuni Frammenti pitagorici) dimostrano l’interesse cinesico di
queste ricerche negli anni Cinquanta e in una parte degli anni Sessanta.
141
pre selezionare gli elementi costitutivi dell’evento che gli appaiono più rilevanti per
supportare le proprie interpretazioni. Insomma ci troviamo di fronte a una situazione
che viene ritenuta poco utile in antropologia visuale (Chiozzi 1993: 194) (ivi: 34).
2.3.2 Luigi Di Gianni
Clara Gallini nel suo testo sul cinema demartiniano (1981) indica nel 1958
l’anno in cui De Martino sviluppa la sua ricerca tentando di togliere la ricerca
etnografica da quell’isolamento individualistico entro cui la prassi
accademica l’aveva rinchiusa. In quell’anno venne fondato il Centro
Etnografico e Sociologico che seppur destinato a breve vita patrocinò assieme
al Museo delle Arti e Tradizioni Popolari il secondo documentario
etnografico di un giovane regista: Magia lucana di Luigi Di Gianni. Vi
percorreva alcuni temi di Sud e Magia e Morte e pianto rituale
195
(Gallini
1981: 25). Luigi Di Gianni è considerato il più demartiniano fra i registi che
produssero film sui temi della miseria e della magia cari a De Martino.
Diplomato al Centro Sperimentale di Cinematografia nel 1954 in regia
dichiara da subito il suo amore per l’espressionismo e la esibisce nelle sue
opere: il bianco e nero contrastato, il gesto simbolico, le atmosfere misteriose
e drammatiche esaltate dalle oniriche colonne sonore di Egisto Macchi
196
. Gli
attori presenti nei suoi film dovevano recitare sé stessi all’interno di una
ricostruzione etnografica, avrebbero interpretato l’idea che il regista aveva di
loro. Ne risultava una ricostruzione drammatica con obiettivo una denuncia
sociale dello stato di vita dei contadini meridionali, lucani in particolare.
Intervistato racconta a proposito del film Nascita e morte nel Meridione
197
(1959):
«per ambientare la vicenda, interamente ricostruita, scelsi una casa in cui gli animali
stavano con gli uomini, cosa che in realtà non succedeva in tutte le case del paese. Io
non scelgo mai il meglio ma il peggio perché è molto più emblematico ed eloquente.
Se devi raccontare in dieci minuti l’essenziale, lasciando emergere la tragicità delle
195
Clara Gallini indica quali potrebbero essere i rilievi possibili a quest’opera che comunque
era rappresentativa dello spirito con cui si girava in quegli anni: poca attenzione alla
documentazione orale, mancata indicazione del grado di intervento del regista sul
documento, che appare ricostruito. L’autrice non si dichiara contraria alle ricostruzioni ma
richiede che sia dichiarata e richiede che si indichi se si riferisce a pratiche ancora in atto
oppure scomparse (Gallini 1981: 25).
196
Egisto Macchi (Grosseto1928 – Roma 1992), compositore, ha collaborato anche con
Cecilia Mangini, Lino Del Fra e Gianfranco Mingozzi (Marano 2007: 34; nota).
197
De Martino indicò a Di Gianni il luogo e l’argomento delle riprese e non altro per
l’esecuzione del girato (Gallini 1981: 25)
142
situazioni, le mezze tinte non ti servono. Del resto, l’atmosfera non è qualcosa di
puramente esteriore ma discende da un collegamento tra fuori e dentro» (Ferraro 2001:
15-16) (Marano 2007: 35).
La lettura dell’ambiente che effettua Di Gianni ci richiama di più l’immagine
che del contadino del Sud aveva proposto il Carlo Levi di Cristo si è fermato
ad Eboli (Gallini 1981: 25). Ci rimanda un’immagine in bianco e nero del
contadino lucano rinchiuso nel suo mondo magico come si vedrà anche in
altri film demartiniani una continuazione del mondo di Levi. La sua poetica
autoriale forte facilmente riconoscibile e con la narrazione che domina la
descrizione. Una produzione che si allontana dal cinema d’osservazione e
anche dalla documentazione positivistica. Quando le immagini tendono ad
osservare in modo oggettivo possono contrapporsi al commento scientifico
dell’antropologo. Clara Gallini sul film Madonna del Pollino (1971) dice:
«Questa dissociazione [fra antropologo e cineasta] è paradossalmente più marcata in
quei casi in cui [Di Gianni] ebbe la consulenza di Annabella Rossi, che suggerì gli
oggetti da riprendere e scrisse anche testi. Caso limite, ma fortemente significativo, è
la Madonna del Pollino» (ivi: 36).
Le sue osservazioni sul film sono considerate la prima recensione a un film
etnografico
198
.
Anche in un altro film Il male di San Donato (1965) girato senza le abituali
ricostruzioni, Di Gianni ci illustra la realtà in modo espressivo. Scegli le
inquadrature, l’illuminazione, le situazioni e i volti più suggestivi. Per questo
film il regista si trovò in sintonia con Annabella Rossi:
198
«Testo e immagini sembrano andare in due direzioni opposte. Il primo insiste con toni
non sempre sobri sulla tematica della miseria, la denuncia della subalternità culturale delle
plebi meridionali, l’accusa all’etnologia di essere serva del sistema. Le immagini invece in
tutta la loro forza ci impongono una realtà per il regista ben diversa: quella di una
profondissima esperienza che di per sé fa dramma. Nel complesso dell’opera di Di Gianni,
molto Unitaria anche dal punto di vista formale, ritroviamo di fatto alcuni segni che rinviano
direttamente al suo specifico modo di vedere e intendere la religiosità dei contadini del Sud.
Nella scelta di certi volti, di certi gesti è presente l’intenzione di restituirci, vista dall’interno,
un’esperienza del magico o del festivo che si caratterizza per alcune precise connotazioni
psicologiche: gioia, dolore, speranza, intensità, estasi, ecc., per cui la vita del gruppo sembra
piuttosto costituirsi come somma di tante vicende individuali, ciascuna con la propria
passione. C’è inoltre una precisa selezione, che porta l’occhio della macchina ad eliminare
l’intrusione di qualsiasi elemento storico: la presenza dei preti o della forza pubblica in una
festa, le automobili, gli abiti moderni, i giovani stessi. È insomma una un’esperienza religiosa
esterna quella di Di Gianni ci vuole restituire: eterna quasi nel senso di emblematica e
archetipale. Modo personalissimo di lettura oserei dire junghiana del folclore magico-
religioso del Sud, se pur molto deve a De Martino come territorio di scoperta, se ne discosta
quanto mai per spirito. Di Gianni fa dunque propria un’eredità culturale vivificandola in
modo attivo (Gallini 1981: 27) (Marano 2007: 36-37)
143
«l’evento filmato è ben adatto a rappresentare il concetto di cultura della miseria alla
base de Le feste dei poveri (Rossi 1969) e la funzione catartica dei pellegrinaggi.
Inoltre Di Gianni visualizza l’idea di uno stigma
199
specifico delle classi subalterne,
una facies determinata dalle condizioni di vita e della cultura, tanto forte e espressiva
da potersi considerare – insieme alla cinesica- come un aspetto non secondario
dell’oralità
200
» (ivi: 37).
Di Gianni non gradì queste osservazioni di Rossi e ne scrisse:
«La mia soddisfazione diminuì molto nel leggere il commento, enfatico e retorico,
privo di un vero legame con le immagini: l’itinerario religioso, le sue componenti
magiche ed emotive, che ricostruisco nel filmato, si accompagnano a elucubrazioni
dotte, ricolme di considerazioni ideologiche con toni a volte populistici. Una censura
netta che in molti punti diventa un vero e proprio conflitto» (in Ferraro 2001: 37) (ivi:
38).
Il film è realizzato nello stile “osservativo”, a colori e con il sonoro in
sincrono, lontano dalle atmosfere espressive dei film degli anni Cinquanta. Il
commento di Annabella Rossi si distanzia dall’’apertura’ del documentario e
sembra condurre forzatamente lo spettatore ad una lettura diversa
201
.
Il testo di commento di Annabella Rossi rinvia palesemente all’ideologia
demartiniana del rimorso
202
.
199
Termine utilizzato da Annabella rossi e enfaticamente rappresentato con le immagini che
accompagnano Le feste dei poveri (ibidem).
200
Considerazioni analoghe su il male di San Donato sono proposte da Sciannameo che
sottolinea l’interesse di Di Gianni per le espressioni visive: «il film infatti non è la semplice
esposizione dei dati raccolti nel corso di una ricerca scientifica, è esso stesso il risultato di
una ricerca che privilegia l’espressione visiva di una determinata cultura. Se è vero infatti
che la trasmissione della cultura delle classi popolari non avviene esclusivamente in forma
orale, bensì anche visiva, fattori come il gesto, la postura e il movimento del corpo, le pause
assumono in questo processo un peso notevole» (Sciannameo 2006b: 39) (ivi: 38)
201
I banchetti, le voci ambiente. Le tarantelle, i dialoghi animati durante la messa all’incanto
della statua divergono dalla vita misera e infelice che i contadini indistintamente vivrebbero
secondo l’antropologa (ivi: 39).
202
«Chi sono gli uomini che visitano questa grotta? Perché accendono queste candele? Che
cosa fanno? Sono i protagonisti del Ramo d’oro o di qualche altro testo di etnologia?
Appartengono alla storia di oggi o a quella del passato? Quale lingua parlano? Qual è la loro
nazione? Perché staccano dalla parete della grotta piccole pietre che conservano
gelosamente? Essi non possono rispondere, perché la loro lingua non è comprensibile alle
maggior parte di noi. Noi rispondiamo per loro, in italiano, e vi diciamo che ciò che vedete
avviene in Italia, ogni anno, nei primi giorni di luglio sul monte Pollino, ai confini fra
Basilicata e la Calabria. Il rapporto fra gli uomini, la grotta e le pietre è alla base di una pratica
magica di ordine protettivo: la grotta, luogo di apparizione della Madonna del Pollino, è un
luogo sacro e valore sacro-protettivo hanno suolo e le pareti. Dalle miserie frazioni e dalle
povere case sparse nella zona, questi uomini si avviano verso il monte Pollino, affrontando
un lungo e faticoso cammino di ore a piedi pre trascorrere due giorni accanto alla loro
protettrice, la Madonna del Pollino. Per due giorni lasciano i loro abituri, depongono i rozzi
aratri di legno e, attraversando boschi e torrenti, riuniti in famiglie e in gruppi, raggiungono
il santuario. Qui preparano rudimentali capanne dove passeranno la notte, accendendo i
fuochi per riscaldarsi e per cuocere le pecore e le capre appena sgozzate, predispongono
quanto serve a trascorrere un tempo totalmente diverso da quello quotidiano, un tempo festivo
nel quale essi si organizzano in una nuova comunità temporanea. In questo spazio sacro e in