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Introduzione
L’introduzione di uno dei testi piø importanti dell’antropologia si apre cosi:
L’etnologia è nella situazione tristemente comica, per non dire tragica,
che proprio nel momento in cui comincia a riordinare il suo laboratorio , a
forgiare i suoi strumenti, a partire pronta per lavorare al compito
assegnato, il materiale del suo studio svanisce con irrimediabile rapidità.
Proprio adesso, quando i metodi e gli obbiettivi della ricerca etnologica
sul terreno avevano preso forma, quando gli uomini perfettamente
addestrati per questo lavoro avevano cominciato a viaggiare nei paesi
selvaggi e a studiarne gli abitanti, questi ultimi spariscono sotto i nostri
stessi occhi (Malinowski 2011 [1992]: 3).
Bronislaw Malinowski, come gli altri antropologi suoi contemporanei, era
convinto che il contatto con gli occidentali avrebbe causato la scomparsa della
culture “primitive”. Si trattava di una corsa contro il tempo in modo tale da poter
raccogliere piø materiale possibile prima dell’inevitabile scomparsa dell’oggetto
studiato. Anche l’americana Margareth Mead affermava l’impellente urgenza di
acquisire documentazione delle società primitive, “un ordine che si sarebbe ben
presto dissolto per non tornare piø” (Mead 1968: 13 cit. in Favole 2010: 17). Favole
(2010: 17) sintetizza che in pratica, secondo loro, il compito dell’antropologo era
quello di scrivere “in definitiva necrologi o necro-etnografie”. Questa impostazione
corrisponde a quelle teorie che Sahlins chiama “despondency theories” (1999: III),
che condannano le popolazioni “primitive” che vengono in contatto con gli
occidentali ad “abbattersi, scoraggiarsi e perdersi d’animo e, si potrebbe dire, a una
profonda crisi o perdita culturale” (Favole 2010: 15).
Sappiamo che la realtà dei fatti sconfessò i timori di Malinowski e della
Mead, infatti come osserva pungente Sahlins “Eskimo are still there and still
Eskimo” (1999: VI; cit. in Favole 2010: 15). Questo perchØ per anni, nonostante le
varie scuole di pensiero (dal funzionalismo all’evoluzionismo), si era data per
scontata la passività delle popolazioni primitive. Come se le culture di queste popoli,
le loro tradizioni, le loro religioni, ma come vedremo anche i loro giochi, fossero
solo dei feticci, destinati ad essere rimpiazzati da vere culture, vere tradizioni, vere
religioni e veri sport.
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L’indigenizzazione della pratiche e dei prodotti occidentali da parte dei nativi
è la risposta alle despondency theories. I “popoli primitivi” non subirono
passivamente queste pratiche o prodotti, ma li selezionarono, li trasformarono e,
qualche volta, li risemantizzarono. A supporto di quanto appena affermato possiamo
citare quanto osservato da Favole a Futuna (2010) a proposito delle coperte. L’autore
di Oceania. Isole di creatività culturale durante il suo soggiorno sull’isola
polinesiana ebbe modo di notare la grande diffusione di pesanti coperte conservate
con cura. Certo non venivano utilizzate secondo gli “usi” per cui erano state
confezionate – il clima caldo e umido dell’isola non richiede ovviamente la necessità
di coprirsi – ma venivano impiegate in ambito funerario. Le coperte a Futuna “sono
oggetti funebri” (ivi: 110). Questo piccolo esempio ci illustra il ruolo attivo delle
popolazioni altre nei confronti di pratiche e prodotti occidentali. Un ruolo che, cento
anni dopo le nefaste previsioni di Malinowski, rimane intatto e attivo, quello che
Sahlins ha definito “indigenizzazione della modernità” (2000: 472) ossia “il fare
dell’assimilazione della cultura dominante il mezzo per sostenere una differenza”.
Infatti – prosegue Sahlins – “in ogni settore locale del sistema globale la
trasformazione assume il doppio aspetto di assimilazione e di differenziazione. Le
popolazioni locali si avvicinano all’ordine culturale dominante anche se ne prendono
le distanze, ballano al ritmo della musica mondiale mentre suonano la loro musica”
(ivi: 470).
In questa tesi si persegue un duplice intento: da un lato mostrare il processo di
indigenizzazione in un ambito specifico come lo sport, ed in particolare il rugby,
dall’altro evidenziare come questa trasformazione abbia condizionato tutto il rugby
mondiale.
L’indigenizzazione del rugby in Nuova Zelanda da parte dei Māori, ha le
stesse caratteristiche di processi simili sempre legati a pratiche sportive. In
particolare le analogie con lo studio svolto da Appadurai sull’indigenizzazione del
cricket in India sono notevoli (2001). Il cricket era la pratica che, meglio di ogni
altra, comunicava i valori dell’Inghilterra vittoriana: era un’attività maschile ed
esprimeva quei codici d’onore che ci si aspettava possedessero i nobili: spirito
sportivo e cavalleresco, controllo assoluto delle emozioni, subordinazione dei
4
interessi personali a quelli del gruppo, fedeltà assoluta alla squadra. Simili
caratteristiche avrebbero dovuto preservare il cricket dall’indigenizzazione, invece
“in modo del tutto sorprendente, è diventato del tutto indigenizzato” (ivi: 120).
Lo stesso avvenne, nei modi e nei tempi che vedremo, per il rugby in Nuova
Zelanda, qui i Māori selezionarono questo sport che venne innestato su pratiche
ludiche pre-esistenti che furono in modo poco lungimirante vietate dalle autorità
coloniali. Tuttavia questo da solo non è sufficiente a spiegare il livello di
indigenizzazione – ma forse non è sbagliato neppure dire appropriazione – raggiunto
dal rugby in questa area del Pacifico. Le spiegazioni proposte sono molteplici e
chiamano in causa l’organizzazione sociale indigena, la sfera religiosa e rituale fino a
una particolare predisposizione fisica dei Māori per il rugby, o ancora sulla scorta di
Appadurai, possiamo scorgere delle “strutture mitiche sotto la superfice di questo
sport che lo rendono profondamente” Māori “nonostante le sue origini storiche
occidentali
1
” (ivi).
Senza la pretesa di aver descritto un quadro completo dell’indigenizzazione
del rugby, ma avendone fornito almeno uno spaccato di ampio respiro, questo lavoro
ha proseguito verso la seconda direttrice. Il rugby giocato oggi in entrambi gli
emisferi è totalmente diverso da quel gioco che, partito da una scuola del
Warwickshire, viaggiò attraverso tutti i continenti; uno sport che si è arricchito e
innovato continuamente dal confronto con le diverse culture. Si commetterebbe però
un errore se si pensasse a questo sport esclusivamente come a una pratica creolizzata,
poichØ il rugby odierno è un rugby che si ispira e guarda essenzialmente verso
l’Oceania – verso occidoriente per utilizzare un neologismo di Favole (2010: VII) –
verso il rugby dei Māori. Da qui arrivano tutte le innovazioni in questo sport, ma
non solo, da qui proviene il modo di giocare verso il quale l’Europa, ma anche
Australia e Sud Africa, tendono e che hanno fatto loro.
I campionati europei pullulano di giocatori provenienti dalle isole del Pacifico
(Nuova Zelanda, Samoa, Figi e Tonga su tutte) che giocano secondo il Māori rugby
flair, uno stile al quale cercano di adattarsi anche i giocatori europei. I club piø
1
Ho preso in prestito questa frase di Appadurai sul cricket indiano perchØ a mio avviso si sposa
perfettamente con il processo di indigenizzazione del rugby in Nuova Zelanda che come l’India è un
ex colonia inglese, così come il cricket e il rugby sono sport fondamentalmente inglesi.
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blasonati, ma anche le federazioni nazionali, gareggiano per ingaggiare gli allenatori
neozelandesi. Quando la Nuova Zelanda, durante i test match di novembre, approda
in Europa gli stadi del rugby sono gremiti di spettatori che accorrono per osservare i
maestri neozelandesi all’opera. Tutto questo non è che la dimostrazione di quanto il
rugby odierno sia “māoricentrico” ossia di quanto importante si a divenuto lo stile e
lo spirito dei giocatori Māori nella definizione del rugby mondiale moderno.
In questa sede, per esprimere questo metaforico viaggio di ritorno del rugby,
abbiamo utilizzato il concetto di modernità “māorizzata” intendendo con ciò quel
processo che, iniziato con l’ indigenizzazione del rugby in Nuova Zelanda, è
proseguito con la colonizzazione da parte del rugby “māorizzato” dell’intero pianeta
ovale.
Per perseguire lo scopo che ci siamo proposti abbiamo in primo luogo
ricostruito la nascita “mitologica” del rugby, e dopo averne brevemente narrato le
vicende che lo hanno caratterizzato nei primi anni di vita, abbiamo descritto la
diffusione che ha portato il rugby ad essere presente in tutto il mondo.
Il secondo capitolo in particolare tratta della specificità del rugby
neozelandese: sono state analizzate la nascita e la prima diffusione, il significato
odierno del rugby in Nuova Zelanda e in modo specifico il rapporto tra questo sport e
i Māori, provando a fornire una risposta alla domanda chi è un Māori? Sono state
illustrate le specificità del rugby giocato dai Māori, il ruolo degli All Blacks e della
nazionale che rappresenta i Māori, il New Zealand Māori Team all’interno di questo
stretto rapporto Māori/rugby. Un rapporto che come vedremo va aldilà di un
processo di controllo e integrazione tra la componente indigena e quella coloniale
(scopo per il quale inizialmente era stato introdotto il rugby), sfociando in
un’appropriazione ed un’integrazione di questo sport all’interno della cultura e delle
pratiche sociali locali.
Il terzo ed ultimo capitolo cercherà di fornire per sommi capi, un’immagine
del ruolo ricoperto dal rugby all’interno della società Māori, analizzandolo nell’ottica
famigliare (whanau) e scolastica. Un ultimo paragrafo è stato dedicato alla danza
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della haka, cercando di capire non solo il motivo per cui questa danza viene eseguita
prima delle partite degli All Blacks, ma anche il suo significato e valore originario.
Nella realizzazione di questo lavoro oltre alla ricerca bibliografica, per lo piø
in lingua inglese, mi sono potuto avvalere del contributo di giornalisti professionisti
del mondo del rugby, sia della carta stampata che della televisione. Un contributo
fondamentale mi è stato fornito da Piri Sciascia, docente di Cultura Māori presso la
Victoria University di Wellington, che di volta in volta mi ha chiarito pazientemente
molti concetti della cultura Māori. Preziosissimo inoltre è stato il supporto giunto dal
“campo di gioco”, infatti grazie alle interviste rilasciate da giocatori professionisti
neozelandesi, sia Pākehā che Māori, ho potuto avere una testimonianza diretta e di
prima mano su cosa significhi giocare a rugby in Nuova Zelanda, e soprattutto cosa
significhi il rugby per un Māori.
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1. A fine disregard. Una storia del rugby
Il rugby è uno sport che negli ultimi anni ha conosciuto una popolarità
eccezionale diventando oggetto di un crescente interesse. I motivi sono da ricercare
nella grande esposizione mediatica a cui è stato sottoposto (Giorgis 2009: 57)
soprattutto da quando, passato al professionismo (1995), è diventato uno dei
maggiori poli di attrazione per gli investimenti dell’industria pubblicitaria. Il rugby –
detto per sommi capi – è uno sport di contatto, in cui le due squadre che si
fronteggiano, cercano di segnare il maggior numero di mete. Una brillante e sintetica
descrizione la troviamo nelle parole ironiche e fresche che caratterizzano lo stile
dello scrittore inglese Phelam Grenville Wodehouse
2
:
“lo non sono stato a una scuola dove lo giocassero e non posso apprezzare il
rugby in tutta la sua bellezza. Posso seguire il gioco nelle sue linee generali,
naturalmente, e ne conosco le regole piø importanti. So che tutto consiste nel
portare la palla attraverso il campo, comunque sia, e nel depositarla oltre la
linea avversaria. So pure che per intralciare questo programma ogni giocatore
può tentare un certo numero di assalti e fare a un suo simile cose che fuori del
campo gli frutterebbero al minimo quaranta giorni di prigione senza la
condizionale, con l’aggiunta di una paternale del signor giudice”.
Nonostante la sua odierna popolarità, parlare delle origini del rugby, oggi si
rivela ancora un’impresa disagevole per varie ragioni, una di queste è da ricercare
nella difficoltà di poter ricondurre a un momento esatto la sua nascita. La tradizione
fa risalire il suo inizio ad un luogo, un momento esatto e ad una persona specifica
che, “first picked up the ball and ran with it” (Collins 2009: VII), cambiando per
sempre lo sport britannico. Tuttavia, come vedremo, questa è solo la leggenda
tradizionale, un mito sull’origine del rugby, che lascia troppi interrogativi irrisolti per
poter essere considerata attendibile. Da questi presupposti muove il mio tentativo di
ricostruire una storia del rugby che, partendo da quelle mischie disordinate che lo
2
Da Cimbrico G., 2011, Gli implacCabili, Absolutely Free, Roma, p. 22
10
contraddistinguevano agli albori, ci condurrà a definire il percorso che le trasformerà
in mischie ordinate
3
.
1.1 Dall’antichità al medioevo
Di giochi praticati con la palla dall’uomo abbiamo notizie antichissime, che
possiamo far risalire a ritroso nel tempo per circa 2400 anni
4
. In Cina, la pratica
chiamata “tsu chu” che, tradotto letteralmente, significa “calciare una palla piena (o
meglio, farcita) di pelle”, faceva parte dell’addestramento militare dell’esercito sotto
la dinastia Xia (Beauty and Power 2001:4).
Una versione greca prendeva il nome di Episkyros, traducibile con cogliere.
Questo gioco, che condivide molti aspetti col moderno rugby, ma anche col football
americano, era molto violento e competitivo. Non si conoscono in maniera precisa le
regole, ma sappiamo che veniva praticato moltissimo a Sparta, forse per il suo
carattere “fisico” e agonistico, aspetti fondamentali della società spartana (Baltrusch
2002).
Non da meno furono i romani con il loro Harpastum (strappare con forza)
5
, una
sorta di pallamano; la palla, ricoperta di pelle, era saldamente tenuta in mano dai
partecipanti e lo scopo era di passare al di là della linea di “meta” avversaria. La
letteratura classica ci fornisce una serie di racconti e aneddoti riguardo ai ferocissimi
tackle che contraddistinguevano questo gioco. Ateneo di Naucrati nel suo
Deipnosophistai descrive una partita di harpastrum (fig. 1) giocato nell’isola
britannica tra i legionari romani e la popolazione autoctona (con la vittoria di
quest’ultima), affermando che l’harpastrum è il suo gioco preferito (Deipnosophistai
1.14-15). Singer (1997) ha individuato anche un contributo di Galeno, che descrive
l’harpastrum come migliore della lotta libera o della corsa, poichØ coinvolge tutte le
3
Per quanto possa sembrare un ossimoro la mischia ordinata è per eccellenza il luogo in cui il rugby
raggiunge il suo acme.
4
Per la forme passate di giochi con la palla faccio riferimento a AA.VV. Beauty and power. A
Journey through the history of world rugby. RFU Museum of Rugby, 2001, 3-14. Di qui in poi verrà
citato come BP.
5
http://it.wikipedia.org/wiki/Harpastum