Premessa
Il percorso artistico di Aniello Falcone si è sviluppato all’interno dei
cinque decenni più tempestosi della storia dell’arte napoletana, in una fase
storica che ha visto una vastissima produzione di opere diventate pietre
miliari del “secolo d’oro”.
Per quanto conosciuto e celebrato dai suoi contemporanei, pochi e molte
volte imprecisi sono i dati biografici giunti a noi a proposito di Aniello
Falcone; Bernardo De Dominici nelle sue Vite (1743) fu il primo a fornire
informazioni sulla vita e le opere dell’artista napoletano, del quale lascia
trasparire molte volte l’aspetto più aneddotico che biografico.
Ciò che si intende esaminare in questa sede è il contesto storico-artistico in
cui visse e si mosse Aniello Falcone ed i fattori che hanno contribuito a
determinare l’elaborazione di un percorso – comune per gran parte a tutto
l’ambiente napoletano della prima metà Seicento – che da un vigoroso
naturalismo di stampo caravaggesco conduce alle soglie del barocco
passando per una straordinaria fase di recupero e di fusione di elementi
diversi quali furono il richiamo ad un colorismo di ascendenza veneta e lo
studio e l’applicazione di elementi tratti dal vasto repertorio del
classicismo romano-bolognese.
5
Per affrontare questo percorso, si partirà dall’illustrazione – per brevissimi
cenni – dei caratteri dell’arte a Napoli alla fine del Cinquecento e
l’ambiente artistico che troverà il Caravaggio nel suo primo passaggio
dalla capitale partenopea nel 1606, con la reazione che seguirà
all’introduzione delle novità del Caravaggio.
Si proseguirà con i profili degli artisti che attingeranno alle sue ricerche e
di quelli che per primi svilupperanno proprie soluzioni nella scia di un
“caravaggismo riformato” e di un naturalismo fortemente legato al
quotidiano che, nel breve giro di pochi anni diventerà un’autonoma
espressione artistica.
La svolta “pittoricistica” della metà del quarto decennio, gli artisti che
giungono dalla penisola iberica e l’arrivo a Napoli dei grandi artisti
interpreti del classicismo romano-emiliano, concluderanno la parte
introduttiva.
Il punto focale, ovviamente, è rappresentato dalla vita e le opere del
Falcone che saranno trattate attraverso la fortuna critica e la biografia
artistica per giungere all’illustrazione di alcuni dipinti scelti per
rappresentare il suo percorso artistico.
La produzione artistica di Aniello Falcone è molto vasta e non ancora del
tutto nota; tuttavia egli conquistò la notorietà – e ancora è noto –
soprattutto per i suoi quadri di battaglia, tanto da essere considerato, a
6
buon titolo, il caposcuola a Napoli di un genere che, per quanto conosciuto
e praticato già da tempo, proprio con la sua opera perde la connotazione
encomiastica e celebrativa tipica della produzione rinascimentale per
diventare genere a sé stante, fortunato e diffuso soprattutto fra aristocratici
e borghesi.
Proprio in virtù della maggiore notorietà raggiunta dal Falcone con le sue
battaglie (per le quali già i suoi contemporanei lo definirono Oracolo delle
battaglie), si è preferito lasciare sullo sfondo della trattazione questo tema
per dare risalto maggiore all’analisi dei suoi quadri di figura, tanti e molte
volte poco conosciuti comprendendo in questa analisi anche le poche - ma
significative - opere “a fresco” eseguite dal Falcone, oltre a specifici
riferimenti, all’interno della sua vastissima produzione grafica, ai disegni
preparatori e di studio relativi alle opere prese in esame.
Questa scelta specifica è motivata dalla volontà di evidenziare, per quanto
possibile, come l’opera del Falcone, a lungo rimasta ai margini della critica
per la sua collocazione nella “pittura di genere”, quasi ingabbiata dalla sua
stessa notorietà di battaglista, vada collocata invece in un ambito di
primissimo piano nel panorama della pittura napoletana (e non solo) della
prima metà del Seicento, proprio per l’alta qualità della sua pittura, per il
rigore delle sue composizioni “ben fondate sul disegno”
1
, per la varietà dei
soggetti e per le sue capacità narrative.
1
De Dominici, 1743, p. 223
7
Anche le poche scene di battaglia prescelte sono state incluse con uno
sguardo più attento alle “figure” che alla composizione nel suo complesso.
8
La cultura figurativa a Napoli tra la fine del Cinquecento e la
prima metà del Seicento.
A Napoli i nuovi apporti culturali, penetrati intorno alla metà del XVI
secolo, avevano contribuito a modificare in chiave manieristica la cultura
napoletana, in parte ancora legata ai modelli raffaelleschi importati, tra gli
altri, da Polidoro da Caravaggio.
Uno dei protagonisti della «maniera moderna», determinante per gli
sviluppi successivi della pittura meridionale, è il senese Marco Pino,
stabilitosi nella capitale partenopea nel 1557, dove, eccezione fatta per
alcune brevi parentesi romane, rimase fino alla sua morte.
Protagonista della pittura napoletana negli anni dal ’50 al ‘70 del
Cinquecento, allievo di Domenico Beccafumi, fu interprete di un
linguaggio formale, elaborato a Roma in quegli anni, che l’ambiente
napoletano mostrò subito di gradire per il suo moderato ma esplicito
michelangiolismo e la sua ispirata devozionalità, significativamente
esemplati nella tavola del 1573, raffigurante San Michele Arcangelo (fig.
1), per l’altare maggiore della chiesa di Sant’Angelo a Nilo. Accanto alla
produzione del senese, si affianca l’arte, devota e realistica, di Giovan
Bernardo Lama e Silvestro Buono
2
, sempre attenti al portato dei
fiamminghi presenti nell’ultimo trentennio del secolo insieme a Dirk
2
Touring Club Italiano, Napoli e dintorni, 2001, p. 70
10
Hendricksz, noto come Teodoro d’Errico.
11
Figura 1. San Michele Arcangelo, Marco Pino, 1573
Olio su tavola, cm 325 x 237
Napoli, Chiesa di Sant’angelo a Nilo – Altare maggiore
Intanto i grandi ordini religiosi, in particolare i Certosini di S. Martino,
contribuiscono a diffondere l’ultima maniera romana chiamando a Napoli
artisti del calibro di Giovanni Cesari, noto come Cavalier d’Arpino, e di
Giovanni Baglione, che a loro volta saranno ispiratori di Belisario
Corenzio. Con accenti e letture diverse i fiamminghi e l’ultima maniera
romana determinarono l’arte del maggior pittore locale del momento,
Francesco Curia, di Girolamo Imparato
3
, suo allievo, e di Ippolito
Borghese, allievo di Federico Barocci.
Nel pieno fervore del rigorismo controriformistico, la pittura napoletana si
indirizzò verso immagini di forte intonazione patetica che, per avvicinare e
coinvolgere i fedeli, indugiavano nella descrizione di particolari realistici,
di scena quotidiana, resi familiari dalle numerose opere fiamminghe in
circolazione nella capitale del Regno.
La numerosa presenza di artisti nordici nell’ultimo quarto di secolo
contribuì a caratterizzare la cultura artistica meridionale, determinando una
vera e propria mediazione tra i motivi codificati del linguaggio
manieristico europeo e l’acceso patetismo caro alla cultura locale. Napoli
poté così sviluppare autonomamente i principali indirizzi artistici
dell’epoca, confermandosi, pur nella sua specifica connotazione
mediterranea, aperta a molteplici flussi culturali.
3
De Dominici, 1743, II, p. 353. Il De Dominici sosteneva che il giovane Imparato, prima di farsi
“discepolo di Francesco Curia”, si era “invaghito de’ bei colori usati da Giovan Bernardo Lama e
Silvestro Buono”.
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Sullo scorcio del Cinquecento, dunque, una complessa stagione artistica
prese forma nella capitale vicereale: in questo periodo Napoli fu tutt’altro
che un centro “provinciale” e, oltre a distinguersi per una considerevole
vitalità artistica, alimentò una particolare sensibilità negli artisti locali, i
quali furono chiamati a far fronte ad un’imponente richiesta di opere per i
numerosissimi edifici ecclesiastici cittadini, come pure per i più remoti
conventi, parrocchie e oratori del Viceregno; chiare ragioni politiche e
commerciali, poi, determinarono l’irradiamento dell’arte napoletana
favorendone la diffusione delle opere nel mediterraneo, soprattutto verso la
penisola iberica.
Fervore e vitalità artistico-religiosa, speciale sensibilità agli aspetti della
devozione inserita in una fiorente cultura figurativa tipicamente
partenopea, particolare attenzione alle molteplici esperienze, agli influssi
ed alle contaminazioni, sono tutti aspetti che rappresentano il fertilissimo
terreno su cui, nei primissimi anni del Seicento, cade il seme del
rivoluzionario linguaggio di Caravaggio nel momento in cui arriva per la
prima volta a Napoli nel 1606.
* * *
E’ la conoscenza dell’arte di Caravaggio a determinare la grande svolta
nella pittura napoletana, che ne seppe cogliere, in maniera originale,
l’impatto sentimentale ed espressivo.
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In realtà, già negli anni antecedenti ai soggiorni meridionali del
Caravaggio, l’opera romana del Merisi aveva attirato l’attenzione e
provocato sussulti nell’ambiente artistico a causa delle novità proposte nei
suoi dipinti. L’eco delle opere caravaggesche, amplificata dalle polemiche
4
e dal portato assolutamente nuovo della sua pittura, raggiunsero
sicuramente anche Napoli.
La prima testimonianza che i napoletani avevano conoscenza del
Caravaggio prima che scendesse a Napoli viene proprio dalla cerchia di
pittori che avrebbero più a lungo rifiutato di prendere parte al
rinnovamento artistico che tale discesa avrebbe provocato.
Ne parla diffusamente Ferdinando Bologna
5
che riferisce di un disegno nel
Museo di Capodimonte recante una scritta antica, “C. Belisario”,
pubblicato dal Vitzthum fin dal 1966
6
ma inspiegabilmente rimasto ai
margini della cultura caravaggesca: il disegno riproduce la Chiamata di
Levi d’Alfeo, dipinta dal Caravaggio per la Cappella Contarelli in San
Luigi de’ Francesi a Roma tra il 1599 ed il 1600.
Non sfugge al Bologna una delle peculiarità del disegno del Corenzio che,
riproducendo in chiave sostanzialmente manierista il dipinto del Merisi, vi
apporta un non piccolo numero di varianti, tra le quali assume particolare
4
Un racconto di Giovanni Baglione, riportato da Bologna, 1991, p. 15, reca notizie dirette delle forti
polemiche sorte intorno all’opera del Caravaggio, in particolar modo nella Cappella Contarelli in San
Luigi de’ Francesi a Roma, nella quale aveva lavorato agli affreschi qualche anno prima Giuseppe
Cesari, noto anche come Cavalier d’Arpino.
5
Bologna, 1991, pp. 15-16
6
Vitzthum, 1966, pp. 9-10
14
importanza la posizione della gamba destra del gabelliere seduto in primo
piano, protesa in fuori anziché ritratta come appare nella versione
definitiva del Caravaggio. Particolare che, dall’evidenza radiografica del
quadro Contarelli, corrisponde in pieno ad una prima stesura del dipinto,
evidentemente poi modificata nella versione definitiva, quella che tutti
conosciamo. Il che lascia intendere che il Corenzio, il maggior e più
longevo esponente del tardo manierismo napoletano (la sua opera si
protrasse almeno fino al 1646), era ben informato delle vicende legate
all’elaborazione dell’opera, o attraverso una visione diretta della stessa in
una versione precedente a quella definitiva, o se ne interessò a tal punto da
averne notizie dirette in una fase che non può non essere contemporanea
alla stesura dell’opera.
Del resto, già nel 1953, Bruno Molajoli
7
, trattando del giovane Battistello,
stretto collaboratore, forse a bottega, del Corenzio, parlava di “frutti
derivanti dalla lezione caravaggesca, forse anche prima del 1607”; lo
stesso Bologna nel 1977 e poi Marina Causa Picone
8
nel 1989 e Giovanni
Previtali
nel 1991 erano giunti alla conclusione che la lezione di
Caravaggio era presente a Napoli ben prima dell’arrivo del Merisi.
La prima opera documentata di Giovan Battista Caracciolo, noto come
Battistello, è un affresco
9
raffigurante sei putti sul frontespizio della
7
Molajoli, 1953, p. 16
8
Causa Picone, 1989, p. 75
9
L’opera fu pagata al maestro il 26 febbraio 1601. Bologna, 1991, p. 15 e note
15
cappella del Monte di Pietà a Napoli, eseguito nel contesto di vari
interventi effettuati nello stesso luogo e nello stesso arco di tempo (dal
1601 al 1603) da Belisario Corenzio
10
.
Al di là del rapporto tra il Corenzio e Battistello, sia stato esso di
collaborazione o di discepolato, è importante sottolineare che tale rapporto
è significativo per il precoce coinvolgimento del Caracciolo nella
conoscenza dell’opera caravaggesca e nel progredire di tale
coinvolgimento, pur nel solco della pittura tradizionale in cui aveva trovato
i fondamenti della sua arte, verso una nuova forza di forme e di ombre,
congiunta a una nuova lettura della verità fisica, per un verso peculiare di
Battistello e per l’altro significativamente caravaggesca. Come appare con
innegabile forza nel bellissimo Angelo con la scritta “Si bene quid facias
facies cito” nella Sala della Congregazione del Banco del Monte, di
qualche mese successivo agli angioletti del Monte di Pietà
11
, che per il
Bologna è di indubbia mano del Battistello.
Ai primi del Seicento, pur in presenza di una vasta e intensa attività di
artisti orientati alla «maniera» recente, Napoli era, dunque, già a
conoscenza dei risultati delle recenti esperienze e delle novità
caravaggesche: all’arrivo di Caravaggio, nell’autunno del 1606, l’ambiente
locale era pronto a “cogliere a pieno e con originalità aspetti e significati
10
Bologna, 1991, ivi
11
Bologna, 1991, p. 169, nota 16. Il documento che dispone il pagamento (al solo B. Corenzio) delle
pitture eseguite nella Sala della Congregazione del Banco del Monte è del 19 ottobre 1601.
16
dei suoi esempi recenti di pittura moderna, di vigoroso e solido impianto
naturalista, soprattutto di concreta e dilatata intensità sentimentale e di
toccante sincerità espressiva.”
12
Quando Caravaggio giunge a Napoli sta vivendo un momento di profondi
mutamenti interiori. La sua percezione della condizione umana è intrisa di
una sempre più sofferta drammaticità, resa in una continua tendenza
all’esasperazione del dato naturale.
Al primo soggiorno (1606-1607), nel solco delle esperienze romane
immediatamente precedenti, appartengono dipinti di evidente
monumentalità ma già con segni evidenti di una nuova e più penetrante
realtà, manifestata attraverso una pittura essenziale nella resa del dato
oggettivo: personaggi di ogni età, ceto e condizione sono accomunati, fuor
d’ogni retorica, in un sentimento di profonda dignità.
La tela raffigurante le Sette opere di misericordia (fig. 2), eseguita per
l’altare maggiore della Chiesa del Pio Monte della Misericordia, presenta
inedite soluzioni
13
iconografiche, nell’illustrazione di un tema tradizionale,
ed una resa di sconvolgente verità di situazioni umane.
12
Spinosa, 2010, pp. 18-19
13
Per la soluzione compositiva (un gruppo di figure variamente atteggiate che si dispongono a raggiera
lungo delle direttrici) il dipinto si avvicina alle ultime pitture di Caravaggio a Roma, come il Martirio di
San Matteo, ma da questo si differenzia per l'utilizzo di una luce che scolpisce le forme attraverso un
chiaroscuro più netto e frantumato.
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