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Introduzione
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Il Filottete di Sofocle
Il ‘900 è senza dubbio il secolo che conosce un’intensa riscoperta della tragedia greca. Pro-
dotto esclusivo dello spirito ellenico del v secolo a.C., essa rappresenta uno dei veicoli prin-
cipali mediante i quali l’artista trasmette alla collettività cittadina una serie di messaggi di
natura religiosa, etica e politica. Il mondo tragico si basa generalmente su un contrasto pro-
fondo e insanabile, all’interno del quale l’uomo si oppone all’altro uomo o al dio, o il singolo
si scontra con la nuova etica della polis e della collettività.
Il presente lavoro parte appunto dal dramma sofocleo Filottete e si propone poi di ana-
lizzare alcune riletture di esso nel corso del xx secolo. Tale tragedia costituisce in realtà
un’opera minore di Sofocle, caduta in parte nell’oblio della modernità. Non si ha quel prolifi-
care di rielaborazioni che caratterizza invece altri miti del medesimo autore. Ciò nonostante,
essa mantiene sempre la sua rilevanza. Questo capolavoro, così come tutti gli altri di Sofocle,
focalizza appieno l’attenzione su un unico eroe protagonista. Al contempo ne esalta alcune
singolari caratteristiche: la grandezza eroica, l’alterità, la diversità e l’autosufficienza.
La sua prima messinscena risale al 409 a.C. Il mito narra che Filottete, nobile principe di
Tessaglia e alleato degli Achei nella guerra contro Troia, viene da essi abbandonato nell’isola
deserta di Lemno, a causa di una ferita fetida e incurabile. Ma poiché possiede l’arco sacro di
Eracle
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senza il quale la città, secondo antica profezia, non può essere espugnata, i compagni
che lo hanno tradito tornano a Lemno per riprendere l’arma ad ogni costo. A questo punto
l’eroe si pone al centro di un sofferto dilemma: quello che vede contrapposti il desiderio di
vendetta e l’interesse della comunità achea a cui era legato il suo onore di guerriero. Ed è in
nome di questo onore e di un dovere, che supera le esigenze individuali e private, che ri-
prende la via di Troia per consentire ai Greci di portare a termine l’annosa guerra.
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In origine l’arco di Filottete era un dono di Apollo ad Eracle.
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Degno di nota il tema della macchinazione ordita da Ulisse per ricondurre Filottete a
Troia. Essa pone qui un problema di tipo etico, se cioè sia lecito ricorrere alla menzogna per
ricavarne un utile. In tal senso il dramma diviene la storia della maturazione psicologica e
morale del giovane Neottolemo, della cui complicità si serve Ulisse.
Sin dalle prime battute, si evince infatti la sua dipendenza dall’eroe molto più anziano
ed esperto, da cui ha solo da imparare, tanto più essendo privo del padre. Inizialmente Odis-
seo, in virtù del suo ascendente, riesce ad imporgli la sua logica, sebbene il giovane sia for-
temente riluttante; ma è a partire da quel momento che prende l’avvio il dramma
dell’adolescente, che si conclude quando, vergognandosi di se stesso per il raggiro cui si è
prestato, decide di restituire l’arma al legittimo proprietario, pur nella consapevolezza delle
conseguenze del proprio gesto.
Del travaglio del giovane, Sofocle registra le varie tappe (tergiversazioni, incertezze,
sbandamenti), nella descrizione di un contraddittorio e duro confronto con una realtà che gli
ripugna, ma a cui non è in grado, in un primo momento, di sottrarsi. Ciò che trionfa è la sua
nobile physis, testimone di un’idea di nobiltà eroica di tipo aristocratico, in cui contano il sa-
crificio e l’azione, ma ancor più il rispetto della dignità individuale. Egli non può né vuole rin-
negare la propria natura neppure in vista di un vantaggio, se questo è ottenuto con mezzi
sleali.
Si consideri nello specifico anche il suo rapporto con Filottete: esso evolve nel corso
della tragedia, per poi approdare definitivamente ad una forte amicizia
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, nella quale l’eroe
ferito ritrova la speranza di un più autentico legame con gli uomini.
La figura di Ulisse, radicalmente opposta, si caratterizza per il suo pragmatismo, molla
del proprio agire: egli è infatti il campione di raggiri e di scaltrezza che, in nome del bene col-
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Va tenuto presente come per i Greci la natura del sentimento che lega Filottete a Neottolemo dovesse appari-
re di carattere omosessuale; com’è noto, questo tipo di amore era considerato possibile tra un giovane e un
anziano per l’alto valore paideutico attribuitogli, e soprattutto tra due guerrieri perché ne rafforzava il valore in
battaglia.
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lettivo, ricorre alla frode e si fa sostenitore della filosofia utilitaristica, perseguita senza tener
conto né dell’etica, né della misura, né del rispetto verso l’altro.
Conferendo inoltre un significato politico alla sua tragedia, Sofocle si distanzia tanto da
questo scaltro personaggio, quanto dal conflitto tra giusto e utile teorizzato dalle frange poli-
ticamente più radicali della Sofistica: si rivela quindi fermo sostenitore della paideia
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tradi-
zionale e del rispetto dei principi di lealtà, giustizia e misuratezza, nonché del glorioso figlio
di Achille che li incarna pienamente.
Puntando oltretutto l’attenzione sul mutamento di stato subìto dall’eroe protagonista,
ne evidenzia la «mostruosità»: il corpo invaso dal veleno del serpente, l’inarrestabile fuoriu-
scita di liquido infetto dal piede ferito, la perdita della stazione eretta, il nauseante odore a
cui si uniscono le grida selvagge. Filottete infatti, dieci anni prima, viene violentemente e-
stromesso dalla civiltà e costretto a vivere in stretto rapporto con la natura allo stato puro.
Ciò non soltanto lo trasforma in un essere selvaggio ma, al tempo stesso, ne mette in discus-
sione l’identità umana e ne sottolinea il suo non sentirsi più parte di uno spazio antropizzato.
Per l’eroe, l’isola di Lemno viene a rappresentare sia il luogo della sofferenza fisica e
dell’alienazione dal mondo, ma anche quello che per lungo tempo, malgrado tutte le difficol-
tà, lo ha ospitato ed è ora teatro della socialità e della sua successiva reintegrazione: le rivol-
ge pertanto nel finale commoventi parole di affetto.
In quest’ultima fase è decisivo l’intervento, in veste divina, di Eracle, teso a sciogliere
tutti i nodi rimasti irrisolti e a dare uno sbocco positivo alla vicenda. Egli esorta il protagoni-
sta a ricongiungersi agli Achei per portarli alla vittoria finale e, contestualmente, gli prean-
nuncia la fine della malattia per mano dei figli di Asclepio. Accanto al profilarsi della guari-
gione fisica, vi è anche la purificazione dell’animo: le sue parole non solo fanno svanire da
esso l’odio mortale nutrito verso i capi greci ma, nello stesso tempo, lo placano attraverso la
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Si tratta dell’educazione.
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rivelazione del senso nascosto dei mali patiti, frutto di un preciso disegno divino più che di
responsabilità umane. L’ultimo compito imposto dal dio ha per oggetto l’arco: una volta por-
tata a termine l’impresa bellica, Filottete dovrà indirizzare all’arma un’offerta sacrificale.
Indubbiamente, la rilevanza dell’epifanìa di Eracle risiede, ancora una volta, nel trionfo
della philìa, peraltro evocata, dapprima in maniera allusiva (tramite l’arco), nel corso del
dramma. Ed è così che il figlio di Peante, dopo lunghi anni di triste emarginazione, fa nuova-
mente il suo ingresso nella civiltà.
Questo è dunque il punto di partenza da cui hanno origine le diverse varianti del testo
sofocleo, alcune delle quali oggetto di analisi di tale lavoro. Si osservi come nel corso dei se-
coli, l’attenzione degli autori che riprendono il mito si restringa al dramma personale. La va-
riante si riveste di una notevole importanza, poiché permette l’interazione degli eventi at-
tuali con la dimensione più remota del passato.
Il presente lavoro analizza nello specifico la rilettura di André Gide, attraverso la quale
il mito viene ripreso puntando l’attenzione sull’interiorità del personaggio. Dello stesso auto-
re, si analizza inoltre, a livello generale, la poetica e il suo rapporto con il mondo greco. Si
passa quindi all’analisi del Filottete di Jannis Ritsos, un monologo di Neottolemo rivolto al fi-
glio di Peante, in cui l’isolamento dell’eroe si iscrive al centro di una ricca ramificazione te-
matica (la brutalità della guerra, il rapporto con la figura paterna, l’omosessualità, etc.). A
seguire la rilettura di Heiner Müller, che estremizza le conseguenze della pena e
dell’oltraggio subìto, trasformando il protagonista in un mostro divorato dall’odio e
dall’esasperazione, che soggiace oltretutto alla violenza dei suoi stessi sentimenti. Ed infine
si esamina la messinscena del monologo del poeta greco ad opera di Mario Martone (1987),
inglobata poi nella Seconda generazione ed entrambe precedute da una prima rivisitazione
del Filottete di Sofocle.
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Capitolo I
La ricezione del mito di Filottete nel ‘900
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1.1 Il Filottete di Jannis Ritsos
La rilettura del mito di Filottete proposta da Jannis Ritsos, una delle voci poetiche più in-
fluenti della grecità contemporanea, viene composta tra il maggio 1963 e l’ottobre 1965. E’
compresa nel sesto tomo delle Opere complete (Άπαντα), intitolato Quarta dimensione
(Τέταρτη Διάσταση) che contiene diciassette monologhi teatrali, tutti assegnabili alla piena
maturità del poeta (1965-1972), dei quali dodici sono ispirati a materia antica. Il Filottete,
che rappresenta il più ardito e il più enigmatico tra tali monologhi, ripropone, sia pure in
termini rovesciati, gli elementi di fondo (tematici, mitici, etologici e ideologici) dell’omonima
tragedia sofoclea.
In realtà, pochissimi temi e motivi di essa si riflettono in tale rifacimento. In termini
generali, si può affermare che l’omissione e la variazione di elementi che sono alla base della
vicenda e dell’intreccio del modello antico, sono finalizzate al trasferimento del discorso dal
piano dell’azione esterna alla dimensione interiore della consapevolezza. L’intento del poeta
contemporaneo è appunto quello d’infrangere il guscio compatto del mito greco, per farne
emergere i semi nascosti. Questa volontà si coglie già nella nota scenica e registica, che fun-
ge da prologo al drammatico monologo:
Pomeriggio d’estate. Spiaggia solitaria di un’isola- forse Lemno. I colori si
smorzano a poco a poco. Una nave attraccata al piccolo ormeggio roccioso.
S’odono voci e risa di marinai che si lavano, fanno ginnastica, lottano poco
oltre. Dinanzi a una caverna rupestre adattata ad abitazione, stanno seduti
due uomini- l’uno bello, con la barba, maturo, d’aspetto virile e spirituale;
l’altro, un giovine vigoroso, con occhi ardenti, indagatori e amorosi. Ha qual-
che cosa dei tratti d’Achille, tuttavia spiritualizzati, come se fosse suo figlio,
Neottolemo. Una grama pallida luna si sposta con moto indefinito e lento
nel cielo, argentea, fra i diffusi riverberi rosa e viola del crepuscolo. L’uomo
maturo, dopo anni d’isolamento e di silenzio, deve avere parlato a lungo al
Giovine, visitatore inatteso, giunto da due ore. Ora tace grave, saturo, stan-
co d’altra stanchezza e d’altra pena, umanissime, seppure inutili anch’esse.
Sull’ampia fronte, l’ombra d’un vago rimorso. Tuttavia scruta ancora lo
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splendido viso del Giovine, come in attesa di qualche cosa. Nel fondo della
caverna a quando a quando il bagliore riverberato dalle sue armi- il grande
scudo ben lavorato, con figurazioni delle fatiche di Eracle, e le sue tre lance
paurose- uniche nel loro genere. Il Giovine, come prendendo una decisione
difficile, comincia a parlare
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.
Si noti come in Ritsos il mattino diventi un pomeriggio estivo; parallelamente, l’isola
deserta è e non è più quella di Lemno. I marinai del coro si trasformano in voci e risa di ado-
lescenti spettrali, mentre la rocciosa e inospitale caverna sofoclea è quasi ingentilita, al pun-
to che la didascalia scenica la definisce «adattata ad abitazione». Davanti ad essa siedono
due individui: del primo, quello maturo, viene omessa l’identità; l’altro ha qualcosa del figlio
di Achille. L’uomo con la barba ha appena terminato il suo discorso di benvenuto, e nuova-
mente s’immerge in un afflitto silenzio. Ora spetta al giovane parlare.
Una prima e fondamentale differenza tra la pièce sofoclea e l’omonimo monologo di
Ritsos, concerne i protagonisti. Dei sei personaggi (compreso il coro) del dramma antico, nel
poeta contemporaneo ne rimangono solamente due: laddove Odisseo scompare ed Eracle
non compare, risulta assente anche la figura della sentinella-mercante, mentre il coro rima-
ne invisibile sino alla fine. Ed ancora: l’arco invincibile e le frecce di Eracle, tradizionale sim-
bolo dell’arciere Filottete e obiettivo principale della macchinazione di Ulisse nel dramma
antico, sono ostentatamente ignorati. Questo significa che il legame ereditario tra Eracle e il
figlio di Peante viene totalmente rimosso. Così l’uomo solitario, spogliato degli attrezzi un
tempo donatigli dall’eroe, acquisisce maggiore autonomia e il tentativo di rapirlo e di ricon-
durlo a Troia si carica di un nuovo aspetto e di un nuovo significato.
In ogni caso, il totale rovesciamento a cui Ritsos sottopone la figura del protagonista, si
riscontra particolarmente nella completa trasformazione di esso: l’impurità di cui è portato-
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Jannis Ritsos, Filottete, traduzione italiana di Filippo Maria Pontani, in L’altra Grecia, La Nuova Italia, Firenze
1969, qui p. 41.
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re, frutto del morso del serpente, è accennata solo tardivamente e allusivamente
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; l’autore
sceglie infatti di non rappresentarne le conseguenze dolorose e tragicamente ripugnanti. Per
contro, il Filottete creato dal poeta contemporaneo compare sulla scena non solo fisicamen-
te intatto, ma anche bello, nella pienezza della maturità virile e con una chiara spiritualità,
marcata dal disgusto verso i raggiri politici e da una profonda compassione per le passioni e
le azioni erronee degli uomini. Dunque, del testo sofocleo persiste esclusivamente il lungo
isolamento dell’arciere nell’isola deserta, cui ora pone fine il trasferimento dell’eroe, indi-
spensabile per garantire la vittoria degli Achei ad Ilio.
Secondo una scelta ben precisa, tale monologo drammatico non viene pronunciato da
Filottete, come ci si aspetterebbe; al contrario, egli si limita semplicemente ad interpretare
la parte del muto ascoltatore di un discorso il quale, per intero, è assegnato al suo giovane
visitatore: a Neottolemo. La particolareggiata esposizione del protagonista, che secondo la
didascalia scenica è stata pronunciata prima, rimane preclusa all’ascoltatore-spettatore, i-
gnaro del suo esatto contenuto. L’unico personaggio che ha avuto la possibilità di udirla e
che, in un certo senso, ne fornisce una risposta, è lo stesso Neottolemo. Tuttavia, contro o-
gni aspettativa, il giovane visitatore parla soprattutto di se stesso, e assai poco di Filottete.
Le allusioni alle sofferenze di quest’ultimo sono concentrate perlopiù nelle sue apostrofi, so-
prattutto all’inizio e alla fine del monologo. Si legga, a proposito, questo passo:
Lo capisco il tuo nobile ritiro, augusto amico:
un pretesto accettabile- un dolore
del corpo, non dell’anima o del cuore- un buon pretesto
quel morso del serpente (della saggezza, forse?), per restare
solo ed esistere (tu, non un altro, tu),
per non esistere, magari, acciambellato a cerchio, come
il serpente che si morde la coda. (Tante volte l’avrei voluto anch’io)
6
.
5
Una simile peculiarità è presente nel Philoctète di Gide: anche in questa versione, l’autore sceglie di dare solo
pochissimi e brevi accenni circa la ferita putrescente e dolorosa del protagonista.
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J. Ritsos, Filottete, op. cit., p. 43.
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Nel corso del proprio soliloquio, l’adolescente traccia quasi un’autobiografia, eviden-
ziando le trasformazioni radicali che nelle successive fasi della sua esistenza ha prodotto la
guerra di Troia, dapprima come eco ricattatoria e, successivamente, quale dura esperienza.
Al centro del suo lungo discorso, dominano pertanto tutte quelle situazioni, le quali hanno
tagliato in due la sua vita: la casa e l’accampamento, Ftia e Troia, un padre autoritario in ra-
gione della sua grande fama, l’ombra appartata della madre, le solitarie fantasie
dell’adolescenza e la convivenza coatta della milizia. Alla fine, tuttavia, i sentimenti personali
e il desiderio di emozione hanno ceduto il posto ai doveri collettivi, o meglio, a quelli del
guerriero.
Si tratta, piuttosto, di un’inaspettata confessione, che sembra derivare dalla silenziosa
presenza del maturo Filottete, quasi che ciascuno dei due si rispecchiasse emotivamente
nell’altro.
Parola e silenzio, dunque, attraggono alternativamente due individui di differente età
(un giovane e un uomo maturo). Il loro incontro trova un ipotetico punto di riferimento nelle
omologhe e traumatiche esperienze (piaghe visibili e invisibili), originate quali effetti secon-
dari dalla guerra di Troia, in luoghi e modi differenti per ciascuno di loro. Sono queste che,
attraverso le parole di Neottolemo, vengono indirettamente scambiate. Si legga l’iniziale a-
postrofe del suo discorso:
Venerabile amico, ero ben certo della tua comprensione.
Anche noi giovani,
chiamati, come dicono, all’ultimo momento quasi a mietere
la gloria preparata dalle vostre
armi, e ferite, e morti, conosciamo,
riconosciamo, e abbiamo sì anche noi le nostre piaghe
in un punto diverso del corpo- occulte piaghe,
senza quel contrappeso di fierezza, del sangue
augusto che si versa