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d’immigrazione. Si riassume, infine, la situazione attuale in Italia: i flussi
d’immigrazione e le caratteristiche socio-demografiche degli immigrati.
Nel secondo capitolo si parla dell’analisi dell’Eurostat sopra detta, in
modo più particolareggiato, esponendo, tra l’altro, le complesse modalità di
campionamento e la qualità dei dati.
Nel capitolo successivo si svolge l’analisi descrittiva sulle caratteristiche
degli immigrati. Sono analizzate, con tabelle e grafici a barre, dapprincipio le
caratteristiche demografiche-strutturali ed economiche e poi le variabili relative
all’integrazione e alla soddisfazione, incrociandole tra loro e con le precedenti
variabili.
Nel quarto capitolo si parla, invece, dell’analisi delle corrispondenze
multiple. Si sono interpretati i risultati delle analisi, condotte, separatamente per
egiziani e ghanesi, con il pacchetto statistico SPAD, utilizzando le variabili
sull’integrazione e la soddisfazione. Si sono interpretati gli assi e i piani fattoriali
e su questi sono stati proiettate le altre variabili, cercando di individuare dei
gruppi.
Nell’ultimo capitolo si tratta la cluster analysis, lanciata anch’essa con il
pacchetto SPAD. Si sono cercati di individuare dei gruppi, come conferma
dell’analisi precedente.
Alla fine di questo lavoro seguono due appendici: trattano le caratteristiche
metodologiche rispettivamente dell’analisi delle corrispondenze multiple e
dell’analisi dei gruppi.
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Mi preme ringraziare, per la collaborazione offerta alla realizzazione di
questa tesi, il personale dell’Istituto di Ricerche sulla Popolazione, che mi ha
concesso l’utilizzo dei dati nonché gli strumenti informatici per analizzarli. In
particolare volevo ringraziare il dott. Giuseppe Gesano, direttore dell’Istituto, e il
dott. Corrado Bonifazi, mio tutor aziendale. Sono pure riconoscente alla dott.ssa
Miria Savioli per gli utili consigli che mi ha fornito. Un ringraziamento particolare
lo devo al mio relatore, prof. Gianfranco Cavedon, per l’aiuto e la disponibilità
che mi ha concesso.
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2.1 Le cause delle migrazioni
Sulle cause dei movimenti territoriali esiste una letteratura vastissima che
ne individua ed elenca innumerevoli. In termini generali la causa di fondo può
essere ricondotta alla ricerca di un migliore equilibrio fra l’individuo e il suo
“spazio” personale, familiare, economico, politico e culturale. In termini specifici
le cause devono individuarsi in:
• lavoro, che è la ragione prevalente degli spostamenti;
• formazione, modifica e rottura dell’unione familiare, anch’esse cause di
mobilità territoriale frequenti e crescenti anche per via del crescente numero di
separazioni e divorzi e di famiglie costituite da una persona sola;
• abitazione, nel senso che l’acquisto, l’acquisizione o un affitto meno caro
possono provocare o impedire spostamenti territoriali;
• desiderio o necessità di vivere vicino al (o lontano dal) posto di lavoro o in
luoghi più confortevoli o più amati possono provocare spostamenti territoriali
più legati alla qualità che a strette necessità della vita;
• studio, che coinvolge una non piccola quantità di giovani;
• disastrosi eventi naturali, che costringono a spostamenti, spesso anche di lungo
o lunghissimo periodo;
• guerre, regimi non democratici, occupazioni militari, trattati, mancanza di
libertà religiosa, che spingono a fuggire da privazioni, persecuzioni e
oppressioni;
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• lavoro che richiede necessariamente uno spostamento ricorrente od
occasionale;
• turismo e attività culturali, pratiche religiose e pratiche legate all’uso del
tempo libero, ai consumi, allo sport e alla burocrazia, che portano sempre di
più spostamenti di breve, medio o lungo raggio e di breve o lunga durata.
Spostamenti che hanno anche importanti effetti indiretti su altri spostamenti
come le migrazioni.
Le cause che sono alla base di una migrazione, di cui si è detto, sono
quelle di natura individuale o familiare. Ma l’individuo si trova e si muove in
contesti macro che possono respingerlo dal suo luogo d’origine e attirarlo nel
luogo di destinazione.
Si ritiene, infatti, che le migrazioni volontarie, specie quelle che prendono
origine da fattori economici, siano largamente determinate dalla pressione
demografica differenziale che esiste fra un paese d’origine e un paese di
destinazione. Tanto maggiore, in un certo periodo di tempo, è lo squilibrio fra la
crescita demografica ed economica di un paese e quella di un altro paese - cioè fra
la variazione, l’aumento modesto o addirittura la diminuzione, del reddito pro-
capite in un possibile paese d’origine e il parallelo aumento in uno possibile di
destinazione - tanto maggiore sarà la pressione migratoria che si verrà a creare fra
i due paesi. Ma perché essa si manifesti non basta considerare quest’aspetto
congiunturale, ma occorre che anche i differenziali nel tenore di vita fra i due
paesi siano molto ampi.
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La pressione demografica così intesa definisce il contesto generale nel
quale, come si diceva, si trova, nel paese d’origine, la singola persona che è poi
quella che deve prendere la decisione di emigrare, sempre che abbia la possibilità,
giuridica o di fatto, di lasciare il paese e abbia quella, giuridica o di fatto, di
entrare nel paese di destinazione.
È il singolo individuo che si trova a prendere la decisione di partire sulla
scorta di un suo personale bilancio - consapevole ma in qualche caso e in qualche
misura anche inconsapevole - che viene stilato mettendo a confronto la situazione,
attuale e sperata, nel luogo d’origine e la situazione - lavorativa, personale,
familiare - sperata nel luogo di destinazione, tenendo anche conto dei costi, in
primo luogo di quelli finanziari, che il trasferimento comporta. Questo bilancio, in
base al quale l’individuo prende, o non prende la decisione di partire, risulta
largamente in funzione delle informazioni che si hanno sul luogo d’arrivo e che
vengono normalmente fornite da concittadini che vi si sono già trasferiti. Si
vengono così a formare delle catene migratorie, che oggi si formano e si snodano
con molta maggiore velocità e precisione, sia perché le informazioni sono assai
tempestive e dirette e sia perché i mezzi di trasporto sono molto più diffusi,
frequenti, economici e sicuri.
Sulla scorta delle informazioni ricevute e del bilancio stilato al fine di
prendere la decisione di partire, l’emigrante normalmente fa un progetto
migratorio - rimanere per la vita nel luogo di destinazione o soltanto per un certo
periodo di tempo, farsi raggiungere o meno dalla propria famiglia, svolgere una
certa attività professionale magari diversa da quella per la quale si è formato. Il
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sistema delle aspettative gioca, in campo migratorio, un ruolo fondamentale, già a
partire dalla formulazione del bilancio. In generale, tanto più rilevante è il
vantaggio marginale sperato, tanto maggiori sono le risorse psicofisiche e il
capitale umano dell’emigrante, tanto più sopportabile è il costo monetario da
affrontare immediatamente per il trasferimento, tanto più forte e larga è la rete di
familiari e amici su cui si può contare, allora tanto più intensa e pressante è la
spinta ad emigrare.
Quando poi le singole persone si trovano in una situazione d’assoluta e
disperata povertà e d’assoluta inadeguatezza dal punto di vista educativo e
professionale, allora il problema dell’emigrazione come scelta di sopravvivenza
normalmente nemmeno si pone. Bisognerà aspettare che escano dalla condizione
di povertà e acquisiscano la consapevolezza che l’emigrazione costituisce una
delle poche se non l’unica speranza di sopravvivenza o di promozione
professionale e sociale. Ecco perché si ritiene che in ogni singolo paese
l’emigrazione internazionale segua l’andamento di una curva di tipo campanulare,
con un’intensità nulla, o quasi, quando lo sviluppo socioeconomico del paese è
arretratissimo, con un’intensità crescente quando il processo di modernizzazione e
di transizione demografica sono attivati e con un intensità fortemente decrescente
fino a spegnersi, e a cambiare di segno, quando il grado di sviluppo è molto
accentuato.
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2.2 Una panoramica sulla storia delle migrazioni
internazionali
2.2.1 La conquista dell’America
L’evento che segnò una svolta epocale dal punto di vista degli spostamenti
umani fu senza dubbio la scoperta dell’America.
L’inizio dell’azione degli europei si manifestò, fin dal Cinquecento,
innanzi tutto per opera dei conquistadores. Nello spazio di tempo relativamente
breve di un secolo, spagnoli e portoghesi presero possesso d’immense regioni
dell’America meridionale e centrale. Tali spettacolari progressi dal punto di vista
territoriale non furono però accompagnati da altrettanto notevoli flussi migratori.
L’effettiva penetrazione umana nel continente si attuò, seppure in maniera
costante, molto più lentamente, attraverso un processo secolare di
metabolizzazione.
A partire dal Seicento gli insediamenti avvennero anche nell’America
settentrionale. Seppur con tempi e modalità poco affini e in un contesto molto
diverso, anche gli stanziamenti inglesi e poi francesi in questi territori,
analogamente a quelli spagnoli e portoghesi, si distinsero per il fatto di essere
completamente separati dal contesto sociale preesistente. Nei secoli dell’età
moderna, nel Nuovo Continente, non vi fu alcuna compenetrazione tra razze e
culture, ma contrapposizione. La conquista del territorio e il popolamento da parte
dei nuovi arrivati avvennero però molto più lentamente che nel Sud. Tuttavia,
seppur molto gradualmente, anche nell’America settentrionale si verificarono tra
il XVII e il XVIII secolo degli importanti trasferimenti d’uomini.
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La causa di tali lenti progressi nel popolare queste terre viene attribuita al
fatto che qui l’avanzata degli europei non era sorretta da una volontà espressa
dagli stati d’origine dei coloni. Inoltre mentre al Sud l’emigrazione era
essenzialmente motivata dai progetti di conquista e colonizzazione, al Nord, una
parte non secondaria delle sue diverse componenti si connotava per i suoi
contenuti ideali e religiosi.
In generale possiamo affermare che la conquista del Nuovo Mondo da
parte, soprattutto, di spagnoli, portoghesi, olandesi, inglesi e francesi non
comportò spostamenti di grandi masse d’uomini. Però, l’immigrazione dai paesi
dell’Europa atlantica fu solo una parte minoritaria dei flussi che interessarono il
Nuovo Continente. La parte più consistente, infatti, era data dalle correnti
provenienti dall’Africa. Il ruolo di questa era quello di rifornire alle economie in
forte crescita delle colonie gli schiavi di cui avevano bisogno. Gli esiti di questo
processo sul piano delle migrazioni umane furono macroscopici.
Dunque il continente americano divenne, in un lasso di tempo
relativamente breve, la meta di gran lunga più importante delle migrazioni a lungo
raggio, ma non fu la sola. Un altro flusso migratorio decisamente molto
consistente fu quello della tratta degli schiavi africani in Asia. Si trattava di flussi
che avevano origini molto piò antiche rispetto a quelli atlantici. In età moderna
queste correnti s’indirizzavano anche verso le città coloniali europee. Nel
medesimo lasso di tempo si crearono numerose correnti migratorie, in genere di
scarsa consistenza numerica, ma che fecero arrivare gli europei un po’ ovunque
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nel mondo. Infine, nella seconda metà del Settecento, gli europei cominciarono
anche la colonizzazione dell’Australia.
L’emigrazione complessiva dall’Europa al Nuovo Mondo, nell’arco di
tempo che va dal 1500 al 1800, può essere stimata in circa tre milioni d’individui.
Per quanto attiene al traffico di schiavi verso il solo continente americano,
relativamente allo stesso periodo, giungiamo ad una cifra di circa sette milioni di
deportati. Come si piò vedere, non c’è dubbio che il contributo di gran lunga
maggiore alle migrazioni mondiali venne dato in questi secoli dai popoli africani.
2.2.2 La grande emigrazione
Verso la metà del XIX secolo si aprì una nuova stagione nella storia
dell’emigrazione tra Europa e Americhe. Nel giro di pochi decenni un numero
fino ad allora mai visto di persone lasciò il Vecchio Continente per i paesi
dell’Atlantico occidentale. Il processo non aveva precedenti dal punto di vista
quantitativo, e la definizione di “grande emigrazione” richiama direttamente
questa sua caratteristica.
Le ragioni del decollo sono molteplici e articolate. Esse vanno ricercate sia
sul piano strettamente demografico, in quanto il fenomeno si collocò negli anni in
cui molti paesi europei affrontavano la loro transizione demografica, con il
conseguente forte incremento della popolazione; sia sul piano economico, dal
momento che questo processo non può essere disgiunto dalla rivoluzione
industriale inglese e dalle sue successive diramazioni continentali; sia dal punto di
vista tecnico, poiché in questi stessi anni il forte balzo in avanti nella tecnologia
dei trasporti aveva reso possibile il rapido spostamento di un numero sempre
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maggiore di uomini; sia da altri elementi ancora, che riguardavano la storia e le
vicende politiche interne dei diversi stati coinvolti. Inoltre, a partire dalla metà
dell’Ottocento, l’economia degli Stati Uniti aveva conosciuto, in tutti i settori, una
crescita senza precedenti. Questa forte espansione era avvenuta in concomitanza
alla realizzazione di grandi opere infrastrutturali e alla potente crescita urbana. In
un contesto di forte sviluppo, la manodopera di provenienza europea aveva
trovato opportunità di lavoro e trattamento salariale che in patria erano
irraggiungibili.
Il paese che diede il via a questo nuovo grande esodo fu l’Irlanda. La
tradizione migratoria dell’isola era molto antica, e i flussi in uscita si erano
sempre orientati verso l’America settentrionali.
Il contributo degli irlandesi all’immigrazione statunitense, seppure in
questi anni fosse il più importante, non fu l’unico. Altri gruppi importanti di
emigranti furono tedeschi, inglesi e scozzesi.
Con la Guerra di Secessione si chiuse la prima fase della grande
emigrazione, ma alla sua fine i flussi ripresero con la stessa intensità di prima. Si
registrò però qualche cambiamento. Immigrazione inglese e irlandese
continuavano a essere di grande rilevanza, ma la guida all’esodo era ora assunta
dai paesi tedeschi. Questa seconda ondata terminò con gli anni 1876-78. In questo
periodo, l’emigrazione transoceanica cominciava ad assumere un aspetto
composito. Non si videro i picchi straordinari che nell’ondata precedente erano
stati raggiunti da singoli paesi, ma contingenti importanti di emigranti erano
conferiti da un numero crescenti di stati diversi.
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La terza ondata migratoria del secolo prese avvio nel 1880 e si esaurì nel
1897-98, in concomitanza con la guerra ispano-americana. Nel corso degli anni
Ottanta, i flussi più imponenti riguardarono sempre gli emigranti tedeschi.
Scandinavia, Irlanda e Gran Bretagna fornirono altri importanti contingenti di
emigranti. Negli anni Novanta, tutte queste migrazioni cominciarono a esaurirsi
lentamente, ma contemporaneamente cominciano a emergere flussi nuovi. Si
trattava di Italia, Austria-Ungheria e Russia. Negli anni Ottanta, si assistette anche
all’affermazione sulla scena internazionale di nuovi paesi di immigrazione. Si
trattava degli stati dell’America latina e, in particolare, di Argentina e Brasile.
Questo esodo si protrasse fino allo scoppio del primo conflitto mondiale,
che segnò una contrazione dei flussi su scala planetaria, ma l’interruzione, seppure
momentanea, può essere ritenuta un vero e proprio spartiacque nella storia
dell’emigrazione transoceanica. Terminato il conflitto l’emigrazione riprese, ma
senza lo “smalto” degli anni passati. Poi, la crisi economica degli anni Trenta fece
crollare il volume dei flussi in entrata. Ben prima dello scoppio della seconda
guerra mondiale, la grande migrazione poteva dirsi conclusa.
Nel XIX secolo non si assistette solamente all’aumento del numero degli
espatri, ma anche alla trasformazione su scala planetaria dell’emigrazione. Infatti,
se fino alla metà dell’Ottocento era stata l’Africa il continente a contribuire
maggiormente ai flussi migratori internazionali e, più in generale, erano state le
migrazioni coatte quelle decisamente più importanti sul piano quantitativo, con
l’Ottocento si assistette ad un duplice ribaltamento di prospettiva: emigrazioni
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europee ed emigrazioni volontarie divennero la spina dorsale dei nuovi flussi di
popolazione nel mondo e tali rimasero fino alla metà del Novecento.
2.2.3 Dal secondo dopoguerra ai nostri giorni
A partire dal secondo dopoguerra ad oggi è possibile individuare e
distinguere almeno tre grandi fasi del fenomeno, ciascuna delle quali legata
indissolubilmente a differenti congiunture economiche e a diverse circostanze
politiche e sociali.
La prima fase coincide con il periodo compreso tra l’immediato secondo
dopoguerra e la fine degli anni Sessanta. In questo periodo si registrava in Europa
occidentale una grave carenza di popolazione in età lavorativa, e quindi di
manodopera, come effetto delle tendenze passate della natalità e del largo numero
di morti avutosi durante la seconda guerra mondiale. Questa fase appare
caratterizzata dal “liberismo migratorio”, ovvero dallo spostamento di consistenti
gruppi di migranti da una nazione all’altra (spesso incoraggiati alla partenza dai
loro stessi paesi di origine), i quali potevano godere della massima libertà di
movimento, dal momento che ancora non esisteva alcuna regolamentazione
strutturale dei flussi sul piano normativo.
I lavoratori temporanei furono il principale “strumento” per fornire
manodopera alla nuova espansione industriale della Germania occidentale
dell’epoca, del Belgio, della Francia, della Svizzera, dell’Olanda e della Svezia. I
principali “esportatori” sono stati i paesi europei del Mediterraneo e in particolare
l’Italia, la quale rappresenta a tutt’oggi il paese che ha sparso per il mondo il
numero in assoluto più alto di emigrati. Inoltre, alcuni flussi iniziati in questa fase
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e che nelle originarie previsioni avrebbero dovuto essere “a carattere
temporaneo”, in realtà non hanno avuto nulla di “temporaneo” giacché da allora,
al contrario, i nuovi ospiti stranieri non sarebbero rimpatriati neanche nei
successivi periodi di crisi dei paesi di arrivo.
Le grandi migrazioni dei lavoratori sono state una soluzione mutuamente
benefica sia per le affamate industrie dei paesi europei occidentali, sia per le
eccedenze di manodopera dell’Europa orientale e del Mediterraneo settentrionale.
La seconda fase è compresa tra la fine degli anni Sessanta e la fine degli
anni Settanta. Il grave ristagno economico che in questi anni si è registrato a
livello internazionale, soprattutto in seguito alle crisi petrolifere del 1971, e
specialmente, del 1973, ha imposto una ristrutturazione dell’economia sul piano
mondiale: essa ha comportato, da una parte, l’esportazione di alcune attività
produttive ad alta intensità di manodopera in paesi in cui quest’ultima poteva
essere facilmente ripartita a costi notevolmente ridotti (specialmente nei paesi del
Sud-Est asiatico) e, d’altra parte, la saltuaria importazione di manodopera illegale
in Occidente (favorita dalle grandi aziende, anche a frontiere ufficialmente chiuse,
per i notevoli risparmi che consentiva loro).
I paesi europei del Mediterraneo hanno iniziato a conoscere, in questa fase,
il fenomeno inverso dell’immigrazione e sempre più avrebbero rappresentato, sia
per la favorevole posizione geografica sia per gli scarsi controlli alle frontiere, il
punto di approdo all’Europa per molti migranti. A volte, poi, si sono verificati in
quest’epoca anche flussi tra diverse zone dello stesso Sud del mondo,
specialmente verso il Medio Oriente (in particolare nel Golfo Persico, dove la
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produzione del petrolio ha attirato un numero considerevole di lavoratori stranieri)
e, in Africa, verso la Nigeria e la Costa d’Avorio: ma dopo qualche tempo tali
zone hanno cessato di rappresentare luoghi di concreta speranza per gli immigrati
e i flussi diretti in questi luoghi hanno ridimensionato le proporzioni, sebbene se
ne continuino a registrare molti di portata significativa, soprattutto nel caso del
Medio Oriente.
Nell’ultima fase, che dagli inizi degli anni Ottanta arriva fino ai nostri
giorni, il fenomeno migratorio è venuto facendosi molto più complesso e
articolato rispetto alle epoche passate, sia perché è andato rapidamente
interessando un maggior numero di paesi di provenienza e di approdo, sia perché
ha continuamente coinvolto organismi e fattori della vita comune sempre più
numerosi. Sui nuovi ingressi di lavoratori sono andati prevalendo i
ricongiungimenti familiari, la stabilizzazione degli immigrati e il peso delle
seconde e terze generazioni, quindi si sta avendo una profonda modificazione,
nella popolazione immigrata, della struttura per età e sesso che sarà sempre meno
squilibrata demograficamente, ma anche meno utile economicamente. Non è
venuta meno la pressione migratoria, alimentata anche dai trafficanti di
manodopera.
L’espulsione per motivi politici e la fuga per la sussistenza economica,
specialmente in vista delle possibilità occupazionali lasciate libere in Occidente
dai meccanismi di ristrutturazione ivi attuati, sono in questo periodo i motivi
prevalenti di emigrazione insieme ai sopra richiamati ricongiungimenti familiari e
a flussi selettivi di manodopera qualificata. Necessariamente, dunque,