PREFAZIONE
La scelta di tale argomento per l’elaborazione della mia Tesi di Laurea non
è stata dettata dall’unico e solo “obbligo” di redire un lavoro al termine dei
tre anni di corso di studio in Servizio Sociale.
È una scelta ponderata e valutata nel tempo, nata dall’osservazione della
società e dell’evoluzione di una problematica sociale a mio avviso troppo
spesso strumentalizzata e sottovalutata, trattata come un fenomeno di
moda più che un fenomeno che esprime un disagio sociale e personale di
chi si trovi ad affrontarla, alla quale spesso non viene dato il giusto peso e
attenzione.
La mia analisi relativa al “disturbo del comportamento alimentare” nasce
dalla convinzione che non serva scrivere per analizzare, quanto scrivere
per riflettere e dare dignità a un argomento di cui tutti conoscono il nome,
pochi conoscono concretamente e profondamente il senso.
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NOTE INTRODUTTIVE
“La sociologia è “uno
sport da combattimento”
[…] dovrebbe servire a
difendersi dal dominio
simbolico, l’imposizione
del pensiero e la falsità di
1
certi codici comunicativi”
Ho scelto di guardare a questo fenomeno utilizzando uno sguardo
“sociologico”.
Tale scelta è dettata da una serie di considerazioni relative a t a l e
disciplina, riassumibili di prima battuta nella citazione di Luisa Stagi, la
quale mutuando il titolo del film sulla vita di Pierre Bourdieu, afferma che
“la sociologia è “uno sport da combattimento”, […] dovrebbe servire a
difendersi dal dominio simbolico, l’imposizione del pensiero e la falsità di
certi codici comunicativi”. In tal senso la scrittrice ritiene che la sociologia
possa essere una fonte di costruzione d’anticorpi, metodo rigoroso e
scientifico attraverso cui fornire alle persone strumenti che consentano di
operare scelte consapevoli, epurate dal condizionamento sociale che
inconsciamente ci avvolge.
Il primo capitolo dell’elaborato prevede un’analisi evolutiva del rapporto
tra cultura e corpo e di come tale relazione influenzi il fenomeno di cui si
intende trattare, fino a giungere alla moderna configurazione dei disturbi
del comportamento alimentare.
In tal senso si concentra la riflessione su come “le nostre percezioni del
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corpo sono cariche di significato sociale”: la nostra idea di bello, sano,
normale, deriva dal “gusto personale”, che per quanto noi riteniamo
personale, appunto, è invece prodotto culturalmente definito. In tal senso,
sia il nostro modo di percepire noi stessi che il modo di percepire ciò che ci
1
L. STAGI, Anticorpi, dieta, fitness e altre prigioni, FrancoAngeli 2008, 9
2
M. MacSWEEN, Corpi Anoressici, Feltrinelli 1999, 113
4
circonda e il modo di interpretare la realtà sono, riprendendo quanto
sostenuto da Douglas “costrutti culturali, e dunque storici, e in quanto tali,
contengono in sé le categorizzazioni centrali della cultura in cui si
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fondano” ossia, il modo di esprimerci, di presentarci fisicamente e di
osservare la realtà, sono determinati e rappresentano la cultura
d’appartenenza e con essa sono storicamente contestualizzabili e come
essa, socialmente modificabili.
Se tutto ciò che riguarda il comportamento e l’esprimersi è mediato dalla
cultura d’appartenenza e se tutto diventa forma d’espressione, il corpo è
individuabile come la massima “tavola di scrittura”, il luogo ove ogni
soggetto ha la possibilità di rimarcare la propria appartenenza o meno a
determinati canoni culturali, di esprimere la propria individualità: è quindi
il luogo dell’omologazione e della differenziazione, il nucleo simbolico e
pratico d’espressione della tensione culturale tipica della globalizzazione.
Successivamente, nel secondo capitolo, si porrà l’accento su alcuni
argomenti emersi nel primo: ci si porrà l’interrogativo su una delle
principali questioni che i disturbi del comportamento alimentare pongono,
ossia se si tratti di patologie psichiatriche. Si metterà in evidenza come
tale classificazione sia anch’essa in gran parte una costruzione sociale:
molte condotte, tra le quali i DCA, vengono etichettate come condizioni
patologiche a causa del processo di medicalizzazione, il principio che porta
a rispondere a condotte che generano stati di ansia tra la collettività,
poiché condotte “atipiche”, attraverso la definizione quale malattia.
Nel secondo paragrafo di tale capitolo si rifletterà su come debba essere
inteso il disturbo del comportamento alimentare, se quale eccesso di
omologazione o modalità trasgressiva di espressione; infine ci si chiederà
se l’allarmismo che si sta diffondendo sia motivato da un reale aumento
dell’insorgenza di tale condotta o se piuttosto, come si intende sostenere,
si tratti più che altro di un aumento dell’attenzione rivolta al fenomeno
stesso nel favorire l’aumento nel numero di casi rilevati.
3
M. DOUGLAS, Purezza e pericolo. Un'analisi dei concetti di contaminazione e tabù, Il
Mulino 2003
5
Il capitolo terzo si prefigge di fornire una panoramica rispetto alle modalità
previste per la trattazione di tale fenomeno, astenendosi volutamente da
gran parte delle considerazioni che verranno invece esposte entro il
capitolo conclusivo.
In quest’ultimo saranno sottoposte tre questioni attraverso le quali
riconsiderare il capitolo precedente: si tratterà del ruolo delle associazioni
di volontariato operanti nel campo oggetto di studio, come e perché esse
si formino, riconoscendone la notevole diffusione e rilevanza sociale. Il
fenomeno associativo può essere, infatti, letto da diversi punti di vista,
riconoscendo l’associazione quale modalità per “elaborare il lutto”, ma
anche per uscire dal contesto di isolamento e stigmatizzazione per
proporsi positivamente entro la società.
La seconda questione posta riguarderà la “carriera morale” e l’
“etichettamento”, che si possono considerare filo conduttore di tutta la
trattazione, nella considerazione che la devianza è costruita dalla società
stessa e che tale processo di maggior attenzione porti, più che una
risoluzione, ad un incremento di questa, o se non altro a un aumento dei
casi rilevati, nonché un suo radicamento e cronicizzazione. In tale ambito
si porranno delle riflessioni rispetto alle principali caratteristiche che
accomunano le politiche preventive poste in essere e precedentemente
esposte.
In ultima analisi si considererà il concetto di “resilienza”, quale capacità di
risposta a situazioni stressanti, da valorizzare nelle politiche rivolte ai
disturbi del comportamento alimentare.
Questa modalità differente e critica d’osservazione della realtà, è il valore
aggiunto dell’analisi che si intende condurre perché, proprio come ritiene
Luisa Stagi, la sociologia permette di osservare secondo un’ottica
differente un fenomeno considerato unicamente intrapsichico, rendendone
palese, almeno in parte, la componente determinata e influenzata
socialmente.
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1. IL DISTURBO DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE E
IL CORPO: ANALISI EVOLUTIVA
“L’immagine del corpo non è un
fenomeno statico, ma qualche
cosa che si costruisce, si
struttura e si destruttura nel
continuo rapporto con il mondo.
Non si tratta ovviamente del mondo
oggettivo, ma del mondo come è
vissuto, quindi dell’esperienza del
mondo. […] la nostra immagine
corporea esprime, nelle continue
modificazioni che subisce nel
contatto con il mondo, lo stile e il
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senso della nostra biografia”
I modi di nutrirsi sono in grado di dire qualche cosa di importante non solo
sui modi di vita, ma anche sulla struttura della società e sulle regole che
consentono ad essa di persistere e di sfidare il tempo.
Sfamarsi e nutrirsi sono solo apparentemente naturali. Sono invece in ogni
caso indelebilmente connessi all’artificialità delle tecniche del cucinare, agli
strumenti per cuocere e per mangiare, alle cerimonie, ai riti nei quali
uomini e donne si raccolgono attorno ad un luogo dove è preparata una
mensa: il cibo acquista valenza simbolica.
Inoltre, come sostiene Cipolla, non è solo il cibo ad assumere e avere
intrinseca valenza simbolica: siamo oggi di fronte ad una società
“somatica, dove gli aspetti collettivi ed individuali sono genericamente
5
codificati nel linguaggio del vissuto corporeo”. Il corpo stesso quindi è
4
U. GALIMBERTI, Psichiatria e fenomenologia, Feltrinelli 2000, 244 s.
5
B. GUIDOTTI, Corporeità e salute, in Manuale di Sociologia della Salute a cura di C.
Cipolla, FrancoAngeli 2004, 220
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intrinsecamente mezzo comunicativo, non solo di messaggi superficiali,
ma anche di contenuti che rinviano alla soggettività, elementi che sono
solitamente espressi attraverso canali comunicativi codificati ma che, nel
momento in cui trovano impossibilità espressiva, ricercano nuovi canali,
ritrovando nel corpo la principale fonte d’espressione.
È questo il caso del vissuto patologico, che secondo quanto emerge
6
dall’analisi Idleriana si concreta in una variazione della valenza
comunicativa corporea, che da opzionale assume carattere esclusivo,
diventando unica strategia praticabile per esprimere un indicibile
malessere individuale.
In relazione a questi tre aspetti, la simbolicità del cibo, la simbolicità
statica e comunicativa del corpo, nonché la simbolicità patologica di
questo, è utile effettuare una analisi dell’evoluzione del rapporto con il
corpo e in generale di come il legame con questo sia fortemente
influenzato dalla cultura, in quanto ad esso è strettamente interconnesso
da sempre il disturbo del comportamento alimentare.
Il disturbo alimentare clinicamente riconosciuto è connesso all’immagine
corporea e ancor più con il concetto di magrezza, il quale assume valori e
connotazioni differenti a seconda dell’epoca storica.
In tal senso, il primo DCA a diffondersi fu l’anoressia, proprio poiché dal
digiuno sacro, alla disfunzione ipofisaria, alla psicopatologia, il rifiuto del
cibo ha assunto valenze diverse, positive o negative a seconda del periodo
storico, con raffigurazioni diverse della magrezza.
Proprio in relazione a tale legame, è comprensibile il “venire in superficie”
dei DCA nell’epoca moderna connessa all’immagine corporea, al significato
del cibo, all’ossessione dell’apparire e della necessità di comunicare, che
elegge il corpo strumento di comunicazione inalienabile, metafora del
proprio essere, pagina bianca su cui scrivere di sé, omologandosi o
differendo dal resto della società, violandolo per apparire, curandolo per
emergere.
6
E. IDLER, Salute, malattia e sociologia sanitaria, Sapere 1982, (feb.-mar.) 7 ss.
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Come vedremo, il rapporto con il corpo pervade lo scenario culturale di
qualsiasi epoca e tradizione, ma soprattutto negli ultimi secoli e nel mondo
occidentale assume valenza patologica e diventa mezzo espressivo di
un’incapacità di adattamento ai nuovi schemi di riferimento, momento in
cui la cultura attribuisce un maggior spazio alla formazione individuale
rispetto ad un passato in cui, la cultura, orientava in modo forse più forte
e univoco il modo di intendere se stessi, la società e la propria corporeità.
Incominciando l’analisi dall’antica Grecia, vediamo come il cibo sia stato
occasione d’ostentazione del proprio benessere sociale ed economico,
mezzo attraverso cui gli strati dominanti manifestavano la loro egemonia;
imperversavano entro tutta la produzione artistica i “demoni” della fame e
della carestia: la magrezza era una malattia “orribile”, l’obesità sintomo di
benessere e ricchezza, immagine, quest’ultima, che andrà scemando con
l’accesso delle grandi masse a cibi un tempo preclusi.
Nelle epoche successive l’ingordigia verrà prima elogiata, come modo di
godere della vita unica di cui si dispone, e poi condannata, come
mancanza di morigeratezza e controllo, filosofia tipica dell’età
Repubblicana, come dissociazione rispetto agli imperatori corrotti e
ingordi.
Un momento di cesura si ha con l’espansione della concezione stoico-
cristiana e la sua ingente influenza entro la morale e la cultura sociale, la
quale propone la filosofia astensionistica rispetto al piacere. Il corpo è la
gabbia dello spirito e l’unico modo per liberarlo è negare il primo, la
magrezza diventa l’immagine dell’emancipazione dell’anima e della
santità: si diffondono le sante anoressiche nelle quali possiamo
rintracciare le prime vere e proprie forme di anoressia, diversa da oggi per
le motivazioni, ma non per gli aspetti “clinici” del f enome no e per il
fondamento. Ora come allora “la volontà, che in molti casi è certezza di
potere, con la forza della mente, vincere ed annullare le leggi della
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natura”.
7
D. LIPPI, C. VERDI, Storia della magrezza, corpo mente e anoressia, Mattioli 2009, 45
9
Il Medio Evo è lo specchio antico del nostro presente, nell’emersione della
bivalenza del “magro”, della contraddizione umana, dell’elogio e del
biasimo: le Sante Anoressiche digiunano per essere vicine a Dio, sono
giustificate in questa ricerca, salvo di non turbare la quiete pubblica,
superando un limite per cui il santo diventa demoniaco, le magre
diventano streghe, richiamando alle carestie e al mondo del maligno.
Oggi come allora, il magro è elogiato, forma prima di bellezza, da
perseguire e mantenere, ma come allora, oltre certi standard o in certi
contesti, il magro è accusato, additato, malato: questo perché sollecita la
mente oltre agli occhi, fa porre domande, cosa ormai poco avvezza al
nostro tempo; non siamo poi così distanti da 600 anni fa.
Mezzo di messaggi culturali il corpo modifica ancora le sue forme nel
Rinascimento, momento in cui la Chiesa giustifica, in funzione del suo
benessere e agio, l’opulenza: si professa invece la mortificazione del corpo
e “ucciderlo” diventa l’unico mezzo per permettergli di esistere nella
società.
Dopo la stagione romantica di forte idealizzazione del corpo, questo viene
investito da correnti di quotidianizzazione: finalmente non viene più
negato, non viene più mortificato, non ha più bisogno di mediazioni
religiose per trovare le ragioni della propria rappresentabilità e grazie alla
razionalizzazione a cui viene sottoposto, riceve nuova rivalutazione e
visibilità.
Il corpo non ha più bisogno di nascondersi dietro al corpo sacro, ma il
confine tra bello e brutto, grasso e magro, resta sempre oggetto di
definizione culturale.
Si giunge così al Novecento e dopo il periodo del “normale” e del
quotidiano ne si mettono in gioco i valori: è il periodo artistico delle
deformazioni, le quali non sono soltanto una invenzione artistica, ma
riproducono il sintomo di un disagio sociale e culturale. L’aspetto e il corpo
perdono la loro valenza materiale e apparente per diventare puro
messaggio e simbolo, tanto da perdere le sembianze del corpo stesso,
tanto da dover essere sottile e trasparente.
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Si arriva solo in questi ultimi due secoli alle prime definizioni di anoressia
come consunzione nervosa, descritta con sintomi simili a quelle moderna;
anche se attribuiti a disturbi dell’apparato gastrico, si giunge inoltre sul
finire dell’Ottocento al concetto di apepsia histerica, dove i problemi
digestivi sono dati da isterismi, da uno stato mentale di morbosità, ove
però la digestione risulta corretta.
Solo nel 1883 verrà ad essere riconosciuto il disturbo anoressico e,
considerando che esso è stato il primo, si può cogliere come il corpo,
tavola di scrittura prima, fosse in realtà non letto ma visto, non ascoltato
ma semplicemente sentito.
Emergono a questo punto le quattro dimensioni del disturbo del
comportamento alimentare, qualsiasi sia la sua configurazione:
o Cause morali, nella ricerca di apparire
o Anoressia nella perdita dell’appetito
o Spasmi dell’esofago, quale causa clinica
o Illusion sensorielles con i l qual e s’int ende l’incapaci tà crit ica che
accompagna ogni disturbo alimentare e che porta a non essere
oggettivi sui quantitativi e la rilevanza degli alimenti.
È quindi il 1900 a dare input e uno spazio espressivo tali da far proliferare
un nuovo stile di vita che fa emergere esplicitamente il disturbo
alimentare e al contempo ne determina una nuova concezione legata ad
una moderna interpretazione di malattia. Questa, profilandosi non più e
non solo come manifestazione di una disfunzione biologica, si svela in
quanto realtà complessa, che esige nuove e più articolate modalità di
comprensione e gestione, basate sul riconoscimento dell’inestricabilità del
nesso mente-corpo-mondo, e della necessità di una dinamica di reciprocità
fra soggetti e istituzioni.
Ancora di più è predisposta a tale mal-essere la condizione femminile di
questo secolo, che matura oltre alle contraddizioni sociali, quelle del
cambiamento dell’identità di genere. Esistono e si espandono nel secolo
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