INTRODUZIONE
Solitamente, quando ci si trova a dover valutare un oggetto, uno strumento oppure anche
una situazione nuova che in generale si conosce poco, si tende per semplicità a fare riferi‐
mento agli elementi (a volte pochi) che si ritiene di aver chiari, di conoscere bene, magari
perché ci toccano più da vicino o forse perché, più facilmente, sono stati già incontrati in
qualche altra circostanza più o meno simile.
Quando il quesito riguarda la scelta, la valutazione e poi anche l’acquisto di uno strumento
di investimento – tra cui non fanno eccezione i fondi comuni di investimento – i risparmia‐
tori meno avvezzi alle “cose della finanza” sono soliti affidarsi al concetto di rendimento:
quanto ha reso il fondo negli ultimi anni? E nell’ultimo mese? E la settimana scorsa?
Il rendimento, infatti, è un elemento tangibile che ci tocca direttamente e che si sa inter‐
pretare abitualmente in molte sfere del quotidiano. Anche i mezzi stampa sembrano fa‐
vorire questo tipo di approccio, pubblicando giornalmente i prezzi dei fondi comuni di in‐
vestimento e la loro variazione su numerosi periodi temporali.
Affidare le proprie scelte in campo di investimento all’unica dimensione del rendimento è,
però, altamente riduttivo e può anche portare a risultati indesiderati poiché un fondo che
in un anno ha guadagnato il 30% potrebbe con estrema facilità perdere – in quello succes‐
sivo – anche di più. La selezione dell’investimento, la scelta dell’intermediario, la com‐
posizione dell’asset allocation di portafoglio sono tutte attività molto complesse che non
possono assolutamente basarsi sul solo concetto di rendimento. Bisogna, dunque, sapersi
destreggiare tra vari concetti, primo tra tutti quello di rischio.
Il rischio, in ambito economico‐finanziario, attiene alla possibilità che il risultato di una
qualsiasi operazione compiuta da un soggetto economico possa rivelarsi diverso da quanto
previsto al momento della decisione dell’operazione stessa. Esso costituisce una caratteris‐
tica fondamentale di un portafoglio gestito, così come lo è per qualsiasi strumento finan‐
ziario.
I principi alla base della moderna teoria del portafoglio affermano che è impossibile basarsi
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esclusivamente sul valore della performance per valutare gli investimenti. Ad elaborare per
la prima volta questi principi fu Harry Markowitz con un celebre articolo pubblicato nel
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1952 sul Journal of Finance. Egli diede vita alla teoria del portafoglio secondo la quale una
classificazione dei portafogli gestiti non può basarsi esclusivamente su un indicatore che
misuri soltanto il rendimento di un determinato portafoglio, ma deve utilizzare una misura
più analitica che consideri anche le modalità attraverso le quali sono stati ottenuti determi‐
nati risultati in termini di performance.
Poiché esiste una stretta relazione tra il rendimento ed il rischio, l’analisi bidimensionale ef‐
fettuata per la prima volta da Markowitz si dimostra necessaria per quanto riguarda la valu‐
tazione dei fondi comuni. La relazione esistente tra rischio e rendimento è diretta: si pos‐
sono sì ottenere risultati sempre maggiori di performance incrementando il livello di rischio
del portafoglio, ma in questo modo aumentano anche le probabilità di incorrere in perdite
altrettanto consistenti. L’investitore, dunque, dovrà scegliere non il fondo con il miglior
rendimento storico assoluto, bensì quello con il più alto rapporto rischio/rendimento, vale a
dire quello che meglio di altri è riuscito a remunerare il rischio sostenuto.
Per considerare contemporaneamente gli aspetti legati al rendimento ed al rischio dei pro‐
dotti di investimento sono stati elaborati numerosi indicatori definiti RAP (acronimo inglese
per Risk Adjusted Performance), ossia indicatori che rettificano la performance di un pro‐
dotto finanziario tenendo in debito conto la sua rischiosità.
L’indice di Sharpe è la misura RAP più utilizzata sia dalle società di gestione che dalla stampa
e fu introdotta per la prima volta nel 1966 dal premio nobel William F. Sharpe con il ter‐
mine di reward to variability ratio, ossia il tasso di remunerazione del rischio. Considerato
un investimento a rischio nullo, tale indice si costituisce mettendo al numeratore la differ‐
enza tra la performance media degli ultimi tre anni del fondo e quella dei titoli di Stato a
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breve termine ed al denominatore la deviazione standard dei ritorni mensili del fondo.
L’indice di Sharpe è, quindi, un rapporto tra il rendimento del fondo (in eccesso al rendi‐
mento dell’investimento a rischio nullo) ed il rischio del fondo stesso; esso viene anche de‐
finito come il maggior rendimento che il fondo offre per un aumento del rischio.
Non solo. Al momento di valutare la qualità di diversi fondi comuni di investimento, è fon‐
damentale considerare prodotti simili per caratteristiche quali la specializzazione
geografica, la stessa specializzazione per asset class, e così via: dunque, fondi azionari con
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Markowitz H.M. (March 1952), Portfolio Selection, The Journal of Finance 7 (1), pp.77–91.
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La deviazione standard è l’unità di misura con cui normalmente viene calcolato il rischio, o per meglio dire la volatilità, di uno
strumento finanziario: si tratta di un parametro statistico che dice entro quale intervallo è probabile che cada la performance
del fondo nel prossimo periodo; maggiore è la deviazione standard, più ampio è tale intervallo e quindi l’incertezza sulla per‐
formance futura del fondo.
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fondi azionari, obbligazionari con obbligazionari… In questo modo prodotti con simili carat‐
teristiche di gestione e/o appartenenti a medesime categorie, possono essere riconosciuti
per la loro ulteriore diversificazione in relazione ai costi ed ai servizi principali ed accessori
offerti; il tutto, in parallelo al regime impositivo degli eventuali (ed auspicabili) proventi
conseguiti dai fondi stessi.
Perché le imposte? Perché in presenza di libertà valutaria, i capitali – attirati dai più alti liv‐
elli di rendimento ottenibili – possono muoversi tra Paesi. Se si ipotizza (si tratta, però, di
un’ipotesi forte che non riflette la realtà dei fatti) che vi siano assenza di illusione fiscale,
perfetta informazione ed assenza di vincoli e di costi di transazione, gli investitori saranno
attratti dal Paese in cui è possibile investire i propri risparmi al più alto rendimento netto in
attività che siano perfettamente sostituibili quanto a maturità, rischio… Il rendimento
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netto, a sua volta, dipende da tre fattori: aspettative di svalutazione, rendimento lordo e
regime di tassazione.
Se si concentra l’attenzione sui Paesi europei che hanno aderito all’Unione Monetaria, si
può notare quanto il primo fattore sia totalmente irrilevante, essendovi – per definizione –
una moneta unica; anche il secondo fattore risulterà poco rilevante, essendovi stato – tra i
Paesi – un significativo allineamento dei tassi di interesse lordi. Il fattore fiscale può as‐
sumere, dunque, un rilievo maggiore nel determinare le scelte degli operatori, soprattutto
per il fatto che i fondi esteri sono tassati sul montante realizzato al momento del riscatto
mentre i fondi italiani lo sono sul maturato giorno per giorno, sicché l’allocazione degli in‐
vestimenti ne risente significativamente.
Ed è qui che risiede lo scopo della presente analisi…
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Un risparmiatore italiano, se investe in un fondo statunitense espresso in dollari, deve tener conto di come sarà il cambio al
momento in cui vorrà riconvertire i dollari in euro: se l’euro si è svalutato rispetto al dollaro, allora otterrà più euro per ogni
dollaro – guadagnandoci – oppure il contrario.
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Capitolo 1
FONDI COMUNI DI INVESTIMENTO
Gli OICR – Organismi di Investimento Collettivo del Risparmio – sono organismi con forma
giuridica variabile che investono in strumenti finanziari od altre attività le somme di denaro
raccolte tra il pubblico di risparmiatori, operando secondo il principio della ripartizione dei
rischi. Essi comprendono:
‐ i fondi comuni di investimento, strumenti finanziari che raccolgono il denaro di ris‐
parmiatori i quali affidano la gestione dei propri risparmi ad una Società di Gestione
del Risparmio (SGR) con personalità giuridica e capitale distinti da quelli del fondo,
‐ le Sicav, ovvero le Società di Investimento a Capitale Variabile.
In entrambi i casi si parla di Società per Azioni, ma con una profonda differenza: nel primo
gli investitori non sono soci e gli investimenti costituiscono un patrimonio autonomo, net‐
tamente distaccato dal patrimonio sociale, ricevendo quote di partecipazione al fondo, mai
azioni della società; nelle Sicav, invece, gli investitori divengono soci e sottoscrivono azioni
direttamente emesse dalla società, senza distinzione di patrimoni.
La prima forma moderna di fondo comune di investimento risale al 1865 in Gran Bretagna,
con la nascita dei primi investment trust, creati con lo scopo di offrire ai piccoli risparmiatori
i medesimi vantaggi di cui usufruivano i grandi capitalisti: in particolare, diversificazione de‐
gli investimenti su un vasto numero di titoli e gestione professionale del capitale. I gestori,
allora come oggi, avevano il compito di acquistare titoli delle società quotate e vendere ti‐
toli del fondo alle classi emergenti della rivoluzione industriale. Alla fine dell’Ottocento il
concetto di fondo comune varcò l’Oceano approdando negli Stati Uniti dove trovò terreno
fertile ed ebbe la sua massima espansione. Nacquero così negli States diverse forme di
fondo comune di investimento: dai primi fondi chiusi, ai fondi aperti, ai fondi pensione.
In Italia i fondi comuni sono stati istituiti con la Legge n. 77/1983, anche se a tale data
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