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molti casi – eterodiretto.
Assumendo un modello dell’uomo ispirato alle teorie filosofiche dell’azione ed
all’antropologia psicoanalitica, la psicodinamica del lavoro si presenta come una
teoria originale ed interessante dell’uomo e della società nella quale egli vive. I-
noltre, si propone anche come una pratica di ricerca—intervento adatta alla co-
struzione di un’organizzazione del lavoro che riduca il più possibile gli scarti –
inevitabili ed ineliminabili - tra desiderio dei soggetti ed obblighi delle organiz-
zazioni.
Dopo una presentazione delle basi filosofiche della teoria, la tesi si sviluppa rico-
struendo la storia della teoria ed analizzandone i concetti fondamentali (sofferen-
za, strategie di difesa, collettivo di lavoro, collettivo di difesa), in un dialogo co-
stante con la teoria psicoanalitica e con la teoria dell’azione, nella versione di
Hannah Arendt e di Jurgen Habermas.
Nel tentativo di verificare alcune delle ipotesi avanzate dalla teoria, è stata effet-
tuata una ricerca-intervento presso due reparti di Medicina Generale di un pic-
colo ospedale della provincia di Bergamo. Dopo aver discusso alcune delle ricer-
che eseguite in altri paesi (Francia e Canada, in particolare) in strutture simili, la
tesi presenta e discute la metodologia adottata ed i risultati ottenuti.
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1. Un concetto filosofico che interessa la psicologia: la volontà
La volontà non è un concetto psicoanalitico ma filosofico, e tra i più controversi.
Si ricollega alla libertà ed al dibattito tra libertà e determinismo nell’agire umano.
Infatti, “… se devo necessariamente volere, perché parlare di volontà… la nostra
volontà non sarebbe tale a meno di non essere in nostro potere. In quanto è in no-
stro potere, essa è libera” (S. Agostino, cit. in: H. Arendt, 1978).
Benché non sia un concetto appartenente alla psicoanalisi, la questione della vo-
lontà si pone spesso nella pratica psicoanalitica. Christophe Dejours ricorda come
lo psicoanalista debba astenersi da ogni consiglio riguardante la realtà, in quanto
l’azione su di essa dipende dalla volontà dei pazienti. Tuttavia, aggiunge, spesso i
pazienti giungono dallo psicoanalista “perché è proprio la loro volontà ad essere
malata. Hanno un bel comprendere la logica della loro situazione soggettiva: non
possono né agire, né uscire dal circolo vizioso della ripetizione” (C. Dejours,
1993). Nella sua prospettiva, tanto in psicoanalisi quanto in psicodinamica del
lavoro, la volontà consente al soggetto di uscire dalla ripetizione; è la facoltà di
introdurre la novità, un motore della costruzione dell’identità.
1.1 Volontà: la libertà dello schiavo
Non si dà libertà che non sia il prodotto di una volontà. Ma non è sempre stato
così. Nella Grecia antica, la libertà indica uno status sociale – quello del cittadi-
no, in opposizione allo schiavo – ed un dato di fatto –, la salute dell’uomo il cui
corpo non sia paralizzato o impedito. Libertà è uno stato oggettivo del corpo: e-
leutheria è Eleuthein hopos ero, andare dove si vuole (H. Arendt, 1978). In que-
sta tradizione di pensiero, il lavoro costituisce l’esatto contrario della libertà.
Questa contrapposizione sta alla base della svalutazione dell’attività di lavoro.
Per la filosofia greca, il lavoro non costituisce un oggetto di studio valido; quanto
alla scienza, vede in esso solamente una ripetizione di gesti e forme già dati, dal-
la natura o dai maestri (J. P. Vernant, P. Vidal-Naquet, 1985).
Con il Cristianesimo, la libertà diventa una disposizione interna, grazie alla quale
è possibile sentirsi liberi anche quando si sia schiavi. Diventa un elemento della
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coscienza e dello spirito. Non è più un “io posso”, ma un “io voglio”.
Questa opposizione distingue due forme della libertà: la libertà oggettiva
dell’azione e quella soggettiva della volontà. Disporre sia della libertà d’azione
che della libertà della volontà significa possedere “ogni libertà che si possa con-
cepire o desiderare” (H. G. Franckfurt, 1971).
1.2 Volontà: organo del futuro
Toccherà ad Hannah Arendt il compito di rispondere ai detrattori della volontà
facendone la molla dell’azione. La sua concezione dell’azione è inseparabile dal
potere di iniziare “nuove serie di cose o di stati in successione” (H. Arendt,
1978).
Se i Greci, immersi in un tempo ciclico nel quale non poteva esistere il “nuovo”,
vedevano il futuro come una conseguenza del passato, Arendt vede nella volontà
l’organo del futuro, così come la memoria rappresenta per lei l’organo del pas-
sato.
L’azione libera è allora un’azione nuova. Secondo la Arendt è proprio
l’evanescenza di questo poter dare inizio alle cose la causa del discredito di con-
cetti come la libertà e la volontà: “Le abitudini bastano alla maggior parte delle
nostre azioni, proprio come i pregiudizi bastano alla maggior parte dei nostri giu-
dizi di ogni giorno” (H. Arendt, 1978).
1.3 Le radici della volontà: il soggetto
Per comprendere i collegamenti tra i concetti di libertà e di volontà, da un lato, e
la psicodinamica del lavoro dall’altro, occorre analizzare due punti di riferimento
espliciti di questa teoria: la praxis aristotelica, nell’interpretazione che ne dà Paul
Ladrière (1990), ed il concetto di persona, secondo H. G. Franckfurt (1971).
Ladrière considera il desiderio (boulesis) come precursore della volontà. Ora, se
si ammette con H. Arendt che la volontà stia alle radici dell’azione, è possibile
utilizzare il pensiero di Aristotele per chiedersi se la volontà non richieda di esse-
re esercitata nella praxis.
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Secondo Ladrière, la vita pratica dipende dall’incontro di desiderio, intuizione,
teoria, speculazione e saggezza, nell’esercizio, nell’agire. Quest’interpretazione è
interessante per la clinica, in quanto non opera separazioni di sorta tra il desiderio
(orexis) e la ragione (phronèsis). Ponendo il desiderio alle radici della praxis,
Ladrière ci porta a considerare l’identità come una conquista, orientata verso la
ricerca della felicità.
Ladrière sottolinea il fatto che, in Aristotele, l’eccellenza deriva dall’azione. È
costruendo che si diviene costruttore. È praticando delle azioni giuste che si di-
viene giusti. L’incontro tra intelletto e desiderio è nella proairèsis.
Proairèsis significa scelta, preferenza tra due possibilità di azione. L’eccellenza è
quindi una disposizione acquisita capace di decidere, di agire deliberatamente
grazie alla phronèsis, la saggezza pratica. Ora, oggetto proprio della phronèsis è
la deliberazione ma, poiché non si delibera su quanto è immutabile, oggetto della
deliberazione sarà ciò su cui è possibile agire. Non si potrà trattare che
dell’incerto, dell’indeterminato, di quanto dipende non dalla necessità, ma dalla
contingenza degli affari umani.
Nell’interpretazione di Aristotele proposta da Ladrière, la phronèsis interviene
nella scelta dei mezzi, ma riguarda soprattutto i fini. Si potrebbe immaginare che
il pensiero intervenga nello scegliere i mezzi, mentre il desiderio nella scelta dei
fini. Ma senza il pensiero, il fine rimarrebbe un sogno, o una chimera.
Secondo Ladrière, compito dell’intelligenza pratica è la ricerca della verità sui
fini e sui mezzi, così come compito del desiderio è la ricerca di quel fine con quel
mezzo. Non esiste separazione tra un pensiero puro che delibera ed un desiderio
puro che decide. Nella deliberazione il pensiero diventa pensiero pratico e si la-
scia mobilitare dal desiderio.
Nella deliberazione (boulesis) che si conclude con la decisione (proairèsis), si in-
contrano saggezza (phronèsis) e desiderio (orexis), portando immediatamente
all’azione (praxis).
Desiderare è decidere. E, anche, deliberare è decidere. Non vi è quindi separa-
zione né tra deliberazione e decisione, né tra quest’ultima e la sua realizzazione
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nell’azione. La phronèsis è la qualità propria dell’uomo libero, per il quale la
successione desiderio-deliberazione-decisione-azione non trova ostacoli.
Sappiamo che le cose vanno solo di rado in questo modo. E il problema che si
pone alla psicologia è di comprendere cosa accada quando il desiderio delibe-
rante non trovi una via d’uscita nell’azione. “La ragione desiderante, posta di
fronte alle aporie dell’azione obbligata, non diventa una ragione sofferente?” (P.
Molinier, 1995).
1.4 La libertà della volontà ed il concetto di persona
Christophe Dejours si basa sul lavoro di Franckfurt per trasformare la normalità
in un enigma, aperto alla libertà della volontà (C. Dejours, 1993, p. 209).
Nel suo The freedom of the will and the concept of person (1971), H. G. Fran-
ckfurt differenzia le persone dalle altre creature sulla base delle loro rispettive
strutture della volontà.
Franckfurt distingue due tipi di desiderio. L’enunciato «A desidera fare X» iden-
tifica un desiderio di primo ordine quando rimanda ad un’azione senza dire nulla
dell’intensità di quel desiderio. Il concetto di volontà tiene conto solamente dei
desideri efficienti e non si sovrappone a quello di intenzionalità: “… un indi-
viduo può avere la ferma intenzione di fare X e, però, fare qualche altra cosa se,
nonostante le sue intenzioni, il suo desiderio di fare X si riveli più debole, o me-
no efficace, di un desiderio concorrente” (ibidem).
“Un individuo possiede un desiderio di secondo ordine sia quando desideri sem-
plicemente avere un certo desiderio, sia quando desideri che un certo desiderio
costituisca la sua volontà” (ibidem). È questa volontà di secondo ordine – una
meta-volontà, potremmo dire – che si rivela essere alle basi del concetto di perso-
na. Solo le persone sono capaci di superare le inclinazioni e di disporre di prefe-
renze.
Secondo Franckfurt possono esistere agenti “irriflessivi” che non sono persone
perché la loro volontà è per loro indifferente. Ad un agente irriflessivo non im-
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porta sapere se i suoi desideri siano o no desiderabili. Fa ciò che è incline a fa-
re, indifferente alla natura delle sue inclinazioni. Il che non significa che sia in-
capace di ragionare o di deliberare sul modo di realizzare i suoi propri desideri.
Nel pensiero di Franckfurt, ragione e deliberazione riguardano i mezzi, non i fini.
Quindi, una creatura razionale può essere irriflessiva. La struttura della volontà
presuppone un essere dotato di ragione, in grado di usare in modo critico la pro-
pria volontà, ma la ragione da sola non basta a definire l’essenza della persona.
Il problema della libertà della volontà riguarda solo le persone. Una persona gode
della libertà della volontà quando è libera di volere ciò che desidera volere,
quando è libera di avere la volontà che desidera, cioè quando può fare di uno dei
suoi desideri di primo ordine il contenuto della sua volontà.
Prendendo coscienza dello scarto esistente tra il proprio agire e la propria volontà
di secondo ordine, la persona si accorge della sua mancanza di libertà.
La libertà della volontà si esprime nella forma di un coinvolgimento definitivo.
La persona ha deciso che non vi sono più domande da porre alla propria volontà
di secondo ordine. La scelta preferenziale della volontà riguarda i fini, non i
mezzi.
In base a questo punto di vista, la persona, a differenza della creatura, desidera,
soffre ed ha accesso al piacere. Quando una persona agisce vince o perde la lotta
nella quale si impegna. Quando invece ad agire è una creatura irriflessiva, non
accade né l’una né l’altra cosa. Segue semplicemente il desiderio che si rivela più
forte. E, se sarà abitato da più desideri, senza preferenze tra loro, nessun’azione
sarà davvero piacevole, né davvero fonte di sofferenza.
1.5 Alcune puntualizzazioni rispetto alla legittimità dell’utilizzo del con-
cetto di persona
La proposta di Franckfurt interessa gli psicologi in quanto consente di definire la
persona in modo indipendente dalla sua struttura di personalità e di collegare,
quindi, la libertà della volontà alla conquista dell’identità personale, ed alla sua
caratteristica di essere perennemente incompiuta. Dal punto di vista dell’identità,
fino alla fine della nostra vita, ciò che noi siamo si trova innanzi a noi.
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Secondo Ladrière, esiste una difficoltà reale nel discernere la differenziazione e
gli usi sociali dei termini individuo e persona. Il sociologo non può utilizzare il
concetto di persona per farne un concetto utile alle sue analisi senza prima porta-
re alla luce i suoi usi che, “sotto un’universalità apparente, veicolano spesso si-
gnificati contraddittori tra loro”. All’analisi degli usi del termine persona nei testi
dei contemporanei, Ladrière preferisce la strada dell’ermeneutica, proponendo
che il chiarimento dello “stato presente del concetto di persona sia preparato tra-
mite la riappropriazione del suo passato” e la riabilitazione del significato per-
duto dell’ipostasi greca – esistere di per sé, essere irriducibile. L’ontologia so-
stanzialista all’interno della quale è diventato pensabile il concetto di persona è
scomparsa, ma rimane il fatto che il concetto di persona significa, innanzitutto,
individuo in quanto soggetto singolare ed unico.
Nell’epoca greca e latina, la persona è la presenza dell’altro, il viso. In tutta
l’antichità ed il Medioevo, si precisa man mano la dimensione ontologica della
persona, che non viene più semplicemente percepita come presenza, ma che co-
stituisce l’oggetto di un interrogativo e di un chiarimento di ciò che la costituisce
intrinsecamente. La definizione di Boezio: la persona, sostanza individuale di
una natura ragionevole, sarà un punto di riferimento per tutta la filosofia scolasti-
ca.
Il contributo di Tommaso d’Aquino (XIII sec.) è il chiarimento del concetto di
sussistenza. La persona si definisce come esistenza in sé e per sé, ed è al tempo
stesso natura individuata (essenza concreta) ed esistenza in sé e per sé (esistenz-
a). La sussistenza è “l’essere in quanto sussiste, trovando in sé e non in un altro
diverso da sé la base della propria esistenza. La sussistenza è l’abbozzo di quello
che diventerà un elemento fondamentale del concetto di persona: la sua autono-
mia”.
Attraverso l’era Moderna, si impone una terza dimensione, quella del soggetto.
La persona è riflessiva a partire da Cartesio, morale a partire da Kant, sociale a
partire da Hegel.
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Il soggetto morale kantiano vede la libertà della volontà subordinata alla ra-
gione in base a tre principi: la persona come fine in sé, l’autonomia della persona
(la volontà libera), la dignità della persona.
La persona come fine in sé non può essere utilizzata come mezzo in vista di un
fine. La persona possiede la capacità intellettiva di fissare dei fini alle proprie a-
zioni ed è il soggetto stesso di tutti i fini possibili.
La persona è legislatrice, lo è nel senso forte delle sue azioni, è “quel soggetto le
cui azioni sono suscettibili di imputazione”. La persona è autonoma in ragione
della natura dei legami che uniscono in essa ragione e volontà. Ciò che assicura
l’autonomia della persona è il fatto che la ragione possa effettivamente imporsi
sulla volontà. La volontà può allora essere causa dell’azione senza aver bisogno
di determinanti esterne o di altre inclinazioni oltre all’incitamento della ragione.
Kant andrà oltre, fino ad identificare ragione pratica e volontà, aprendo così
l’accesso della libertà alla volontà. L’autonomia è dunque essenzialmente una
volontà libera. La libertà si manifesta attraverso l’influsso della ragione sulla vo-
lontà interiormente legislatrice. La volontà è ciò che consente di agire libera-
mente e non sotto l’effetto delle leggi naturali. La volontà e quanto costituisce la
differenza fondamentale tra la persona e la creatura sprovvista di ragione, inte-
ramente sottomessa ai determinismi della natura. “La libertà è una proprietà del-
la volontà che la rende indipendente dalle leggi naturali”.
“La persona, vale a dire la libertà, è l’indipendenza rispetto al meccanismo della
natura, considerata tuttavia al tempo stesso come un potere di un essere che è sot-
toposto a leggi particolari, vale a dire alle pure leggi pratiche date dalla propria
ragione”.
La persona come fine in sé è prima di tutto per Kant l’umanità considerata nella
persona. È in quanto uomo noumenico e non in quanto uomo fenomenico che la
persona è oggetto di rispetto e che si stabilisce incondizionatamente nella sua di-
gnità. L’umanità che risiede nella sua persona è oggetto di un rispetto che il sog-
getto morale deve anche esigere di fronte alla propria persona come avente dei
doveri verso se stessa.
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Nelle lezioni di Jena del giovane Hegel, l’esperienza originaria non è quella della
coscienza di sé, ma quella dell’interazione, dove la coscienza di sé si costruisce a
partire da un riconoscimento reciproco. Il mutuo riconoscimento di soggetti di-
stinti costitutivo della relazione morale non può essere compreso in modo indi-
pendente dalla sua realizzazione pratica. Il mutuo riconoscimento non è una rela-
zione immediatamente assicurata, ma il momento della riconciliazione che succe-
de, superandolo, al momento iniziale del conflitto. L’autonomia non è presuppo-
sta, l’armonizzazione di coloro che agiscono supporrebbe un’intersoggettività
senza errori, senza incomprensioni, rapporti di forza, trasformazioni contestuali.
È in questo senso che la relazione morale, per Hegel, è una lotta per il riconosci-
mento.
Chiarendo le fondamenta epistemologiche del concetto di persona, l’autore punta
alla costruzione di un etica che si opponga alle etiche frammentarie. “Moralismo
ed ideologie hanno in comune il fatto di non accordare dignità e rispetto se non a
coloro che, secondo loro, lo meritino”. “L’individuo in quanto essere singolare
ed in quanto essere ragionevole esprime le dimensioni ontiche ed ontologiche
della persona”. Dimenticando queste dimensioni, l’individuo può essere ridotto
alla sua dimensione biologica, psicologica, o economico-politica. È indispensa-
bile che l’individuo sia riconosciuto nella persona se vogliamo che essa possa es-
sere pienamente percepita, come farà Kant, in quanto soggetto morale. “Vale a
dire affinché la dignità ed il rispetto dei quali essa deve essere necessariamente
fatta oggetto siano ben attribuiti ad essa, e non condizionati (senza una reale con-
siderazione per se stessa) a dei valori o a delle appartenenze”.
In effetti, dopo la modernità, un quarto periodo ha visto il concetto di persona fa-
re il suo ingresso nelle scienze sociali, a prezzo di una trasfigurazione che gli
scritti di Ladrière mettono tragicamente in chiaro. La persona per Durkheim è si-
tuata dal lato della socializzazione, la società essendo ai suoi occhi la sorgente
del suo carattere spirituale. Basandosi su Hegel, Durkheim getta le basi di una te-
oria sociologica dell’azione secondo la quale il processo di individuazione non
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può essere pensato se non a partire dalla socializzazione, e anche quest’ultima
non sarebbe pienamente pensabile se non come lavoro di individuazione. Il con-
cetto di persona in Durkheim è il prodotto di due fattori: lo spirituale è assicurato
dalla socializzazione e si trova dunque dal lato dell’impersonale, mentre
l’individuo costituisce il lato corporeo. Lo spirituale è prima di tutto l’anima del-
la società ed è attraverso la collettività che l’individuo diventa una persona. “Ciò
che fa dell’uomo una persona, è ciò per cui egli si confonde con gli altri uomini.
È quanto fa di lui un uomo, e non quell’uomo”.
Durkheim si appoggia a Kant piegandone le proposizioni: la chiave di volta della
persona è la volontà, e quest’ultima è la facoltà di agire in base alla ragione. La
ragione sarebbe per Kant, secondo Durkheim “quanto esiste di maggiormente
impersonale dentro noi stessi”. Ora, commenta Ladrière, in nessun momento
Kant collega la necessità dell’universalità ad una rappresentazione collettiva im-
personale, idea che va attribuita solo a Durkheim. Da questo colpo di mano di
Durkheim, ne deriva che l’individuo (corporeo) viene distinto dalla persona (so-
ciale). Quando Mauss farà ritorno al corporeo, attraverso le tecniche del corpo,
sarà per dimostrare che la persona è sociale, anche negli usi del proprio corpo.
Oggi come oggi, il soggetto non si potrebbe pensare né nella sua trasparenza di
fronte a se stesso, né in una prospettiva puramente cognitiva. La clinica del lavo-
ro ci suggerisce che la questione dell’autonomia morale soggettiva è più esigente.
Com’è possibile per un soggetto avere la capacità di sussistere, in un senso attua-
le, moralmente, resistere cioè all’irriflessività, ai tentativi di piegare la sua etica?
Il lavoro, allora, rappresenta un ambito propizio alla libertà della volontà oppure,
al contrario, contribuisce a spezzare la volontà della libertà? Gioca a favore
dell’autonomia delle persone o, al contrario, sta all’origine della loro alienazio-
ne? Per tentare di comprenderlo occorre seguire la storia e gli sviluppi della psi-
codinamica del lavoro.
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2. Louis Le Guillant e la psicopatologia del lavoro
L’opera di Louis Le Guillant nel campo della psicologia del lavoro è poco nota
persino in Francia, forse a causa del suo forte impegno politico. Partigiano nella
II Guerra Mondiale, diventerà poi una personalità del Partito Comunista France-
se, del quale seguirà la linea fino allo stalinismo. Nel 1956 scrive una prefazione
alla tesi di Jean Bégoin sulla fatica degli operai nell’industria, tesi che sarà pub-
blicata sulla rivista di Wallon, La Raison. Medico del lavoro e sindacalista, Le
Guillant può disporre di due porte d’ingresso in un mondo del lavoro che la co-
munità psichiatrica di quegli anni ignorava quasi completamente.
In collaborazione col sindacato CGT dei postelegrafonici effettua una ricerca sul-
la nevrosi delle centraliniste che rappresenta la nascita della psicopatologia del
lavoro, una corrente di ricerca che diverrà poi, negli anni ’80, la psicodinamica
del lavoro. In questa ricerca, pubblicata su La Presse Médicale nel 1956, Le
Guillant descrive i “disturbi dominanti che si possono riscontrare costantemente
in tutti i soggetti” pur all’interno di quadri patologici mutevoli e polimorfi:
“La sindrome soggettiva comune di fatica nervosa”, costituita da fatica, aste-
nia, forte diminuzione delle capacità di concentrarsi sul lavoro, trasferimento
di gesti e parole appartenenti alla vita lavorativa nella vita familiare.
“I disturbi dell’umore e del carattere” che si manifestavano nell’ambiente di
lavoro, dove sfociavano spesso in “crisi di nervi”, ma anche a casa, dove
prendevano la forma di scenate nei confronti dei mariti e di un forte senso
d’impazienza nei confronti dei figli. Le centraliniste presentavano anche
un’intolleranza al rumore e, in un terzo dei casi, sindromi della serie depres-
siva;
Molto frequenti erano i disturbi del sonno (ipersonnia diurna, insonnia not-
turna, difficoltà a addormentarsi, incubi);
Infine erano presenti disturbi psicosomatici come ansia, palpitazioni, cefalee,
vertigini, tremori, nausee, tinnitus, dolori gastrici…;
“La sindrome che abbiamo descritto non è certo propria esclusivamente delle
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centraliniste. In tutti i lavori che comportano, con o senza fatica muscolare, un
ritmo eccessivamente rapido delle operazioni e delle condizioni di lavoro oggetti-
vamente e soggettivamente faticose: meccanizzazione degli atti e monotonia,
stretta sorveglianza (del lavoratore), rapporti umani alterati all’interno
dell’impresa, ecc., si vedono apparire disturbi molto simili” (Le Guillant, 1956).
È noto come Taylor pensasse che l’addestramento dell’operaio-tipo dovesse por-
tarlo a sottomettersi e ad eseguire gli ordini senza pensare né discutere, consi-
derando che uno scimpanzé avrebbe avuto tutte le qualità richieste per essere
l’operaio-tipo dell’OSL (Y. Clot, 1999). Secondo Le Guillant e Bégoin, i lavori
effettuati a ritmi eccessivamente rapidi provocavano delle modifiche dell’attività
nervosa superiore identiche alle nevrosi sperimentali provocate in laboratorio. Le
centraliniste diventavano “nervose, irritabili, aggressive” (Le Guillant, 1956; Bé-
goin, 1957). Questi disturbi dell’umore si esprimono sul lavoro, portando a delle
vere e proprie “crisi di nervi”. Ad esempio, “gettano via le loro cuffie ed il loro
microfono nel bel mezzo di una conversazione quando si presenti una nuova dif-
ficoltà e debbono passare alcuni minuti, prima che la calma ritorni” (Le Guillant,
1956). Anche fuori del lavoro fa capolino la violenza: “Fanno delle scenate in-
giustificate ai loro mariti. Non sopportano che i bambini facciano chiasso, non
stiano buoni; debbono trattenersi per non picchiarli” (ibidem). A sua volta,
l’alterazione dei rapporti familiari rende queste lavoratrici ancora più intolleranti
alle condizioni di lavoro. Le Guillant interpreta questi disturbi come il riflesso
dei rapporti di produzione e di sfruttamento. La psicopatologia del lavoro, questo
il nome che Le Guillant e Bégoin daranno a questa prospettiva d’analisi del lavo-
ro, rimane ancora all’incrocio tra teoria marxista (e di un Marx molto semplifi-
cato) e comportamentismo, e non riesce ad andare oltre. L’ipotesi di un legame
quasi meccanico tra lavoro e patologia non sarà mai confermata.
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3. Un altro punto di vista sul lavoro
Nel 1980 esce il saggio che porrà le fondamenta della psicodinamica del lavoro.
Travail, usure mentale: essai de psychopathologie du travail, riprende la deno-
minazione di Le Guillant e Bégoin ma ne modifica profondamente i contenuti. Il
testo presenta una visione del lavoro per molti versi ancora legata alle concezioni
della psicopatologia del lavoro degli anni ’50, pur riconoscendone il fallimento.
Come afferma Dejours “A parte alcune eccezioni, in tutte le situazioni delle qua-
li ci occupiamo non compare alcuna malattia mentale caratterizzata. (…) Contra-
riamente a quanto si potrebbe immaginare, lo sfruttamento della sofferenza attra-
verso l’organizzazione del lavoro non produce alcuna malattia mentale specifica.
Le psicosi da lavoro non esistono, come non esistono le nevrosi da lavoro. Nem-
meno i difensori più infaticabili della nosologia psichiatrica hanno potuto portare
alcuna dimostrazione probante dell’esistenza di una patologia mentale provocata
dal lavoro. Solamente alcune interpretazioni semplicistiche insistono
nell’attribuire alla società la paternità di tutte le malattie mentali.” (C. Dejours,
1980).
“In psicopatologia del lavoro, si pone di solito l’accento sui comportamenti uma-
ni. Questa ricerca si pone in contrapposizione a questa impostazione, apparentata
al comportamentismo. Il suo scopo è di analizzare il campo non compor-
tamentale occupato (…) dagli atti imposti: movimenti, gesti, ritmi, cadenze e
comportamento produttivo.
(…) Portare alla luce le aspirazioni non fa parte del nostro progetto, così come
non ne fa parte la traduzione del loro contenuto. Questo lavoro tocca al militante
politico, che pretende di possedere un sapere al riguardo e vorrebbe riscaldare i
desideri ibernati per far esplodere la tempesta.
Il nostro progetto intende piuttosto chiarire il percorso che va dal comportamento
libero al comportamento stereotipato. Per comportamento libero intendiamo (...)
uno schema comportamentale che contiene un tentativo di trasformare la realtà
ambientale in conformità ai desideri propri del soggetto. Libero, più che uno sta-
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to di cose, qualifica un orientamento verso il piacere” (ibidem).
Tuttavia, ad una prima lettura, il saggio del 1980 assomiglia molto alle opere di
Bégoin e Le Guillant. Nel corso del saggio vengono presi in esame i lavori più
svariati (operai edili, industrie di processo, call-center, piloti da caccia), cercando
di mettere in evidenza quali potrebbero essere i collegamenti tra sofferenza ed or-
ganizzazione del lavoro.
Nel 1993, in occasione della nuova edizione di Travail: usure mentale, Dejours
definisce il lavoro come l’attività coordinata degli uomini e delle donne per far
fronte a quanto non è dato dall’organizzazione del lavoro. “Il lavoro è, per defini-
zione, umano, dato che ad esso si ricorre proprio laddove si riveli l’insufficienza
dell’ordine tecnologico-macchinico” (C. Dejours, 1993, p. 220). In questa for-
mulazione, il lavoro dipende sempre dall’azione (praxis). Da questo punto di vi-
sta, la nuova definizione del concetto di lavoro ed i suoi debiti nei confronti
dell’ergonomia, sembrano essere gli elementi innovativi fondamentali del secon-
do periodo della psicodinamica del lavoro.
Questa concezione del lavoro differisce da quella prevalente nella psicopatologia
del lavoro dei primi anni ’80. L’organizzazione del lavoro veniva allora vista
come “un blocco monolitico, dal peso e dalla consistenza della materia minerale”
(ibidem). L’incontro tra soggetto ed organizzazione del lavoro veniva paragonato
alla situazione “del vaso di coccio tra i vasi di ferro”, sulle basi di una visione del
lavoro come infelicità prodotta socialmente, cosa che aveva portato a numerose e
giustificate critiche. “È pur vero – scrive al proposito Dejours – che avevamo al-
lora a che fare con l’incredibile potenza del fordismo” (ibidem, p. 207).
Tuttavia, già nel saggio del 1980, si operava una frattura nei confronti della tradi-
zione degli anni ’50. Gli esseri umani non venivano più considerati come passivi
nei confronti del vincoli e degli obblighi posti dall’organizzazione e la loro li-
bertà si esprimeva attraverso la costruzione di strategie difensive individuali e
collettive. Sarà proprio la scoperta di queste strategie difensive, e della loro li-
bertà a minima (P. Molinier, 1995), che porterà a riconsiderare il lavoro dal pun-
to di vista della teoria dell’azione.